Il modello europeo era una menzogna italiana

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di Giovanni Perazzoli

Da noi può succedere – – di varare un’intera riforma universitaria basata sulla laurea breve (3+2) allo scopo urgente e improcrastinabile di «adeguarci all’Europa», per poi scoprire che in Europa la consolidata realtà del 3+2 non c’era mai stata.
Questi curiosi fenomeni visionari non sono, per la verità, infrequenti. Quale Europa conoscono i nostri giornalisti e i nostri politici? La questione è molto seria. Saper leggere nell’immaginario europeo della stampa italiana costituisce un passaggio essenziale nella Bildung del cittadino consapevole. Nel lontano 1994, studente all’università tedesca di Freiburg, mi capitò di leggere su “La Repubblica” un articolo di Miriam Mafai che perorava la causa dell’aumento delle tasse universitarie, per adeguarci, naturalmente, all’Europa. Con stupore lessi che, secondo la Mafai, «l’ università italiana può vantare tre record in Europa: le tasse più economiche, i servizi più scadenti, il più basso tasso di efficienza. Le tasse universitarie oscillavano, fino al 1993, tra le trecento e le seicentomila lire: in nessun paese d’ Europa (non parliamo poi degli USA !) si paga così poco per frequentare l’Università». (La Repubblica, 23.9.’94)
Parole chiare e perentorie. Ricordo che allora questo genere di interventi riscuotevano unanime consenso. Da qualche tempo si era aperto «il dibattito nel Paese» sull’aumento delle rette universitarie. Si alternavano le posizioni. «Dobbiamo proprio adeguarci all’Europa?», si chiedeva qualcuno. E un altro gli rispondeva di sì, non senza dargli del fesso retrogrado. Ma può essere proprio la sinistra a voler aumentare le tasse universitarie? Certo! si rispondeva: aumentandole si va incontro (come non capirlo?) alle classi meno abbienti. Infatti, per prendere ancora la Mafai, che ripeteva un argomento allora molto in voga, «sono sempre gli stessi gruppi sociali che accedono all’ Università, a spese, però, della collettività e di quei lavoratori dipendenti che pagano le tasse e i cui figli si iscrivono alle liste di collocamento appena finita la scuola media». Escluderli definitivamente, senza però ridurre, sia chiaro, le tasse che i loro padri hanno continuato a pagare per tutti, serviva, dunque, secondo questa tesi, a riparare un torto e a ridurre l’effetto perverso del nostro Stato sociale, «ammettendo, sia pure con qualche difficoltà che anche l’istruzione universitaria rientri nel Welfare». Così, per avvantaggiare i poveri, le tasse universitarie aumentarono e aumentarono. Delle tante facilitazioni per gli studenti che esistono in Europa non si vide, naturalmente, nemmeno l’ombra. Le università restarono, ovviamente, inefficienti. E anzi peggiorarono a vista d’occhio, per poi schiantarsi definitivamente dopo l’introduzione, da parte del centrosinistra, del 3+2 e di tutta l’annessa poltiglia di finte lauree brevi che sono servite solo come specchietto per le allodole, ovvero per incamerare le laute rette che gli studenti, ricchi e poveri, ma finalmente europeizzati, hanno dovuto pagare.
Benvenuti in Europa? No. Perché in tutta Europa, e questa è la cosa davvero sconcertante, non esistevano allora – e quasi non esistono oggi – tasse universitarie! Capito? Le prime tasse, in Germania, si sono viste due anni fa. Nel lontano 1994, niente: tutto gratis. Per me, che studiavo nell’efficientissima università di Freiburg senza aver pagato nulla, seguire questo dibattito è stato rivelativo. La sinistra, quando Berlusconi era ancora agli albori del suo impegno politico, si era inventata da sola un’Europa severa e antisociale del tutto immaginaria.
Ma a un certo punto la stampa nazionale cambiò misteriosamente registro. Il Corriere della sera (14 Ottobre 2003) si risolse a scrivere che Tony Blair, nonostante la tradizione inglese per la quale «la laurea, anche in prestigiosi atenei come Oxford o Cambridge, era sempre stata gratuita», aveva introdotto per la prima volta, con autentico cipiglio riformista, la possibilità di pagare delle rette di circa 1100 sterline annue. Dunque, anche in prestigiosi atenei come Oxford o Cambridge non si pagavano tasse d’iscrizione. E quale fondamento aveva allora lo psicodramma che anni addietro s’era celebrato in Italia? Si è forse fatto ammenda del fatto che il «dibattito nel Paese» è stato infarcito solo, nella migliore delle ipotesi, di sentito dire e di approssimazioni provinciali? No. Dovevamo prendere di nuovo esempio! Eppure, a guardare meglio, si sarebbe potuto credere di aver anticipato di qualche anno nientemeno che il riformismo di Blair. Abbiamo però sportivamente fatto finta di lasciare a Blair questo primato, forse anche per continuare ad offrire l’immagine di un’Europa da seguire, benché non la seguissimo affatto. E in realtà non l’abbiamo né seguita né anticipata. Quello che abbiamo fatto non ha semplicemente esempio in Europa. I dettagli qui sono importanti. La secondo riforma di Blair (che è riuscito a far passare nel gennaio del 2004 con uno scarto di quattro voti) porta la retta universitaria esigibile ad un tetto massimo di 3.000 sterline annue, ma – e questo è decisivo – gli studenti non debbono comunque versare del denaro all’inizio dei loro studi. I soldi delle rette devono essere restituiti allo Stato «entro quindici anni» dal conseguimento del titolo «e soltanto se si dispone di un reddito di almeno 15mila sterline l’anno. In pratica, se uno studente mette a frutto l’istruzione ricevuta e guadagna, salderà il debito; altrimenti non è costretto» (La Repubblica 25 Gennaio 2004). Si tratta di una misura che, come ognun vede, è cosa ben diversa dal mero innalzamento delle rette nostrano, perché non crea uno sbarramento economico in entrata. Inoltre, impone a quei professionisti che hanno studiato a spese di tutta la collettività (ma che possono poi chiedere parcelle esose) di contribuire al mantenimento delle università (e in modo, peraltro, sostenibile).
Morale della favola, nonostante «il dibattito nel Paese» ci teniamo il 3+2, l’università più scassata, iniqua e baronale d’Europa, pagando in compenso un bel mucchio di soldi che in Europa, nella maggior parte dei casi, continuano a non pagare. Credo che questo fatto, non di piccolo rilievo, possa insegnarci molto, sia sulla «cultura» della sinistra italiana sia in generale sull’attendibilità della stampa. E quando ci dicono che così si fa Europa, informiamoci bene. Potremmo scoprire, come è toccato a Canfora, che è vero il contrario di quello che ci viene detto.



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