Il naufragio leaderistico della democrazia
Tomaso Montanari
Accanto alla schiavitù del bisogno e a quella dell’ignoranza, una terza catena frena ogni tentativo di scardinare l’oligarchia: si tratta di una catena insieme istituzionale e culturale. Il culto della ‘democrazia-che-decide’, il disprezzo per le lentezze dei Parlamenti, la diffusione sfrenata del culto di leaders a cui delegare le decisioni e perfino il pensiero, hanno condotto alla mutazione della democrazia in una dittatura di minoranze artificialmente trasformate in maggioranze parlamentari grazie a leggi elettorali maggioritarie.
I partiti politici – che la nostra Costituzione prevede quali ingranaggi fondamentali della macchina di una democrazia parlamentare fortemente radicata nel Paese e nei suoi corpi sociali – si sono trasformati in palcoscenici per capi più o meno carismatici, designati (quando non attraverso meccanismi padronali: come nel caso di Forza Italia, o del Movimento 5 Stelle) per mezzo di primarie aperte ai non iscritti, un meccanismo che rende poi impossibile ogni dinamica democratica interna. La conquista del Partito Democratico da parte di Matteo Renzi e della sua cerchia di amici è stata di fatto una scalata dall’esterno (culturalmente e politicamente parlando), resa possibile dalla dissoluzione personalistica e leaderistica di ogni idea di partito politico. Del resto, anche a sinistra si era iniziato a scrivere il nome del leader nel simbolo (lo fece Sinistra Ecologia e Libertà «con Vendola», alle regionali del 2010) sancendo anche su questo piano l’introiettamento di una egemonia culturale di destra: non la collettività ma il capo, non la forza del dissenso interno ma l’acclamazione di un demiurgo-condottiero-messia che ‘porterà alla vittoria’.
Il neofeudalesimo sociale porta dunque ad una regressione neomedievale dell’immaginario politico, senza nemmeno la presenza dei corpi sociali ben vivi e attivi nel Medio Evo europeo. Proprio nella Germania medioevale viene coniato il ben noto motto «Stadtluft macht frei», l’aria della città rende liberi. Varcare le mura urbane voleva dire liberarsi dalle catene della servitù della gleba, e indossare i panni (letterali e metaforici) di una libertà borghese, una libertà sociale e politica. Oggi, al contrario, proprio le città hanno incubato a lungo il naufragio leaderistico della democrazia: l’elezione diretta dei sindaci (1993) è stata il laboratorio del personalismo, e del ‘presidenzialismo culturale’ che oggi scontiamo. Non per caso quella riforma ebbe luogo mentre iniziava lo smontaggio delle finanze dei comuni: al posto di un reale autogoverno democratico si offriva la piccola autocrazia simbolica di un sindaco senza mezzi. La conseguenza fu la deprivazione di ogni ruolo dei Consigli comunali, che portò all’inedita situazione di città senza più un parlamento, senza un’assemblea democratica, senza un’opposizione (un dissenso) visibile. Era un colpo decisivo ad ogni idea di comunità politica. Dalle città alla nazione: le riforme costituzionali elaborate negli ultimi anni prendevano a modello il sistema dei sindaci, puntando – più o meno direttamente – al presidenzialismo del ‘sindaco d’Italia’. Riforme e retorica politica si intrecciano in un unico discorso che, ancora una volta, tiene insieme destra e ‘sinistra’: nel luglio 2019 è stato Matteo Salvini a chiedere agli italiani «pieni poteri» (una citazione, non troppo velata, da Mussolini), nel 2016 era stato Renzi a chiedere di sciogliere le mani dell’esecutivo da quelli che egli considerava intollerabili lacci. Il Potere ci sta dicendo che l’Italia ha bisogno di un «capo».
‘Capo’: era questa la parola chiave per capire quale fosse il senso profondo della riforma costituzionale Renzi-Boschi. Non la si trovava nel testo della nuova Costituzione, ma in quello della legge elettorale: l’Italicum, cioè l’altro gemello di quella gravidanza politica. L’articolo 2, comma 8 dell’Italicum diceva che «i partiti o gruppi politici che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica». Basterebbe questa norma a far capire che stavamo cambiando – senza aver nemmeno il coraggio di dircelo chiaramente – la forma stessa della Repubblica: non più parlamentare, ma di fatto presidenziale. I partiti, infatti, non si candidavano più a rappresentarci in Parlamento, ma direttamente a «governare». E i cittadini eleggevano un «capo» a cui il Presidente della Repubblica (ora davvero un notaio inutile) sarebbe stato obbligato a conferire l’incarico. Un capo eletto direttamente dal popolo: il sindaco d’Italia. Era questo il progetto reale del ‘combinato disposto’ di riforma costituzionale e legge elettorale: un progetto che ricalcava – nello spirito presidenzialista e plebiscitarista –, quello che Silvio Berlusconi tentò di attuare nel 2006, e che fu fermato dalla vittoria del No, in un referendum identico a quello del 2016. Ma se queste riforme sono state bloccate, la mentalità che le aveva informate prevale largamente nella coscienza collettiva degli italiani di oggi.
Il pensiero retrostante è sempre quello: il problema dell’Italia sarebbe la troppa democrazia. Come ha scritto Luigi Ciotti:
La democrazia, con il suo sistema di pesi e contrappesi, di divisione e di controllo dei poteri, rappresenta un ostacolo per il pragmatismo esibito da certa politica come segno di forza. Le richieste di delega, la sollecitazione a fidarsi delle promesse e degli annunci, l’ottimismo programmatico, così come l’accusa di disfattismo o di malaugurio (il “partito dei gufi”) verso chi critica o solo esprime perplessità, rivelano una concezione paternalistica e decisionista del potere, dove lo Stato rischia di ridursi a una multinazionale gestita da super manager e il bene comune a una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi. Tentazione anche questa non nuova ma a cui la globalizzazione ha offerto inedite opportunità, visto l’asservimento, salvo eccezioni, delle istituzioni politiche alla logica esclusiva del “mercato”, cioè di quel sistema che proprio la politica dovrebbe regolamentare .
Un’altra cosa per cui vale la pena di combattere è dunque una politica capace di rappresentare la società. Per esempio, riconquistando un proporzionale puro – cioè una legge elettorale secondo la Costituzione –, e chiudendo così con la lunga e nefasta stagione maggioritaria. Anche qua: i ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri. Ai primi serve la ‘governabilità’: cioè la possibilità che la società sia governabile secondo i loro interessi. Senza conflitti, senza fastidiose rappresentazioni del pubblico interesse, senza che i ‘loro’ governi abbiamo a patire intralci di alcun tipo. Ai secondi, ai poveri, serve invece la rappresentanza: serve un Parlamento davvero centrale, in cui portare i conflitti e in cui vedere combattuta la loro battaglia, che non ha altri luoghi per risultare, almeno a tratti, vincente. Ai primi servono i capi, ai secondi servono una collettività, una comunità critica.
L’astensione elettorale di metà del Paese è il risultato di una comprensibile e fondata sfiducia nella reale possibilità del Parlamento di rappresentare le lotte sociali. Ma senza rappresentanza e
senza Parlamento non c’è libertà: rimane la solitudine, la condizione di fantasmi sociali, la rivolta di piazza e infine una radicale rinuncia alla dimensione politica.
Abbiamo molte cose per cui valga la pena di combattere: una democrazia vera, un Parlamento vero, un conflitto vero. Una libertà piena: che è la «sola ministra della giustizia sociale» (Calamandrei), cioè l’unica dimensione che può rendere possibile rimandare i ricchi a mani vuote, saziare gli affamati.
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