Il Nobel dei buchi neri
Pietro Greco
Premio Nobel per la Fisica all’inglese Roger Penrose, 89 anni, dell’Università di Oxford «per la scoperta che la formazione di buchi neri è una predizione solida della teoria della relatività generale». La scoperta teorica è stata realizzata nel 1965, cinquantacinque anni fa. Non è mai troppo tardi, dunque.
Penrose riceverà metà del premio. L’altra metà andrà a due americani: Reinhard Genzel, 68 anni, che al tempo della scoperta era in forza alla University of California di Berkeley; e ad Andrea Ghez, 55 anni, anche lei della University of California di Berkeley. Il motivo: «per la scoperta di un oggetto compatto supermassivo al centro della nostra galassia». La scoperta empirica dei buchi neri a opera di Genzel e di Ghez è avvenuta all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso. Andrea Ghez è la quarta donna in assoluto ad aver vinto un Nobel in Fisica.
Oggi l’esistenza dei buchi neri è cultura diffusa, ne abbiamo “visto” persino due scontrarsi, fondersi e produrre onde gravitazionali rilevate dalle collaborazioni Ligo e Virgo il 17 agosto 2017. Più di recente ne abbiamo anche fotografato uno, sia pure indirettamente perché per definizione il buco nero è nero, non emette né luce né qualunque altra onda elettromagnetica e dunque non può essere osservato. Ma nel 2019 la collaborazione Event Horizon Telescope ha infatti ricostruito in dettaglio l’orizzonte degli eventi del buco nero posto al centro della galassia M87, a 55 milioni di anni luce dalla Terra. Quest’anno, poi, lo scorso mese di settembre, ricercatori dell’Università di Harvard hanno messo insieme le immagini ottenute dall’Event Horizon Telescope e realizzato un “video” che mostra la dinamica dell’ambiente che circonda il buco nero al centro della galassia M87.
I buchi neri sono entrati anche nel nostro immaginario. Uno di loro è il protagonista di un film di successo, come Interstellar. Insomma, ci sembrano oggetti familiari. Ma per molti decenni è stata messa in discussione sia la loro realtà empirica sia la possibilità teorica che possano esistere. Eppure, tutto sommato, un buco nero è un oggetto semplice, praticamente scontato nell’ambito della teoria della relatività generale elaborata da Albert Einstein nel 1995. Molto brevemente: la più grande teoria del più grande fisico di ogni tempo, la relatività generale di Einstein, sostiene che un oggetto che ha una massa “piega” la rete dello spaziotempo, ovvero il tessuto quadridimensionale formato dalle tre dimensioni dello spazio e dal tempo che permea l’universo. Noi stessi distorciamo un po’ questa rete, ma impercettibilmente: siamo troppo leggeri. Il Sole, però, è abbastanza pesante da creare un pozzo nello spaziotempo, riuscendo così a piegare anche la direzione di un raggio di luce. I buchi neri massivi sono oggetti più pesanti del Sole, anche di milioni di volte. Abbastanza da piegare la traiettoria su se stessa la traiettoria di un raggio di luce. Ne deriva che nessun oggetto – neppure lei, la luce – ha una velocità di fuga sufficiente a uscire da un buco nero, che così deve apparire, per l’appunto, nero.
Ne deriva che un buco nero, per attrazione gravitazionale, attrae tutto ciò che non è a debita distanza e nulla lascia sfuggire. O quasi nulla, perché proprio un collega e amico di Penrose, il compianto Stephen Hawking, ha dimostrato che, in via teoria, anche un buco nero “evapora”, nel pieno rispetto di un principio fondamentale della meccanica quantistica, quello di indeterminazione di Heisenberg.
Ma torniamo alla nostra storia. A lungo questa ennesima predizione della relatività generale di Einstein è stata come esorcizzata. La gran parte dei fisici non ci credeva: non può essere possibile. Ci deve essere o qualcosa di sbagliato o qualcosa che ci sfugge nella teoria di Einstein. Non era così.
Nel 1965 il matematico Roger Penrose, allievo di un grande cosmologo, Denis Sciama, dimostra con robuste argomentazioni fisico-matematiche che i buchi neri “devono” esistere nel nostro universo. Spostando, però, i confini di ciò che per un fisico è incredibile. Per la stessa relatività generale la materia che cade in questi oggetti invisibili continua a precipitare, confinandosi in uno spazio sempre più piccolo, sempre più denso e sempre più caldo, finché queste grandezze non diventano infinite e formano una “singolarità”. Un punto in cui anche le leggi della fisica vengono meno. Oggi si cerca una soluzione al problema: gli occhi dei teorici sono puntati alla “teoria del tutto” che dovrebbe infine conciliare la relatività generale con la meccanica quantistica. Ma fermiamoci qui, diciamo solo che grazie a Roger Penrose, a partire dal 1965 (appena dieci anni dopo la morte di Einstein) nessuno può mettere in dubbio l’esistenza di un buco nero.
Ma, come si sa, la fisica galileiana non si fonda solo sulle “certe dimostrazioni” (le teorie matematizzate), pretende anche le “sensate esperienze”: le prove empiriche. A partire, dunque, dalla seconda parte degli anni Sessanta inizia la “caccia impossibile”, la scoperta empirica di un buco nero. Impossibile perché; come abbiamo detto, questi oggetti sono per definizione invisibili. Però si possono “pesare”: ovvero si possono osservare gli effetti gravitazionali che producono.
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Da questo momento l’esistenza dei buchi neri non è solo una “necessità” della teoria è un “fatto”. Oggi sappiamo che ogni galassia, in pratica, ha un buco nero supermassivo al centro. Ma anche che questi mostruosi oggetti non si limitano a mangiare la materia e l’energia esterna, spesso si fagocitano tra loro, generando una distorsione così forte nella rete dello spaziotempo da produrre un altro fenomeno predetto da Einstein, le onde gravitazionali.
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