Il nuovo totalitarismo dell’oikocrazia

Fabio Armao



Ci sono due modi per spegnere lo spirito di una civiltà. Nel primo – quello orwelliano – la cultura diventa una prigione. Nel secondo – quello huxleiano – diventa farsa. […] Un mondo alla Orwell è molto più facile da riconoscere e da combattere che un mondo alla Huxley (Postman 1985, pp. 182-183).

Il passaggio di millennio, dopo la caduta dei regimi comunisti e la fine della Guerra fredda, ha visto innescarsi un processo di ristrutturazione globale della società che sta investendo ogni dimensione della vita quotidiana degli individui e le istituzioni cui essi hanno finora affidato l’organizzazione dei propri interessi e della propria stessa sopravvivenza. La politica dei partiti di massa, della lotta di classe e della difesa degli interessi collettivi ha lasciato il posto a una congerie molto più ricca e diversificata di attori, capaci di attingere, a seconda delle necessità, alle risorse tipiche delle diverse sfere sociali: politica, economica e civile, producendo di volta in volta delle proprie, originali, configurazioni di potere. Lo stato moderno, che ha incarnato negli ultimi cinque secoli l’istituzione di riferimento delle dinamiche sociali, ancora esiste. Il network che aveva costruito e implementato nel tempo, quella comunità internazionale che, nel corso del Novecento, era arrivata infine a comprendere al proprio interno tutte le terre emerse, è ancora attivo. Ma non è l’unico network; né, oggi, necessariamente il più rilevante.

I nuovi protagonisti di questa grande trasformazione sono gruppi a base clanica, capaci di coniugare locale e globale meglio delle vecchie istituzioni statali, a un costo più basso e senza i vincoli imposti dal rispetto delle regole democratiche. Un chiaro esempio è la criminalità organizzata nelle sue diverse manifestazioni: dalla mafia, al terrorismo, ai signori della guerra. Ma la logica del clan è tornata prepotentemente alla ribalta anche in politica: basti pensare all’amministrazione “familistica” di Donald Trump negli Usa, o ai cerchi e “gigli” magici di italiana memoria. E caratterizza ormai anche le dinamiche apparentemente algide delle élite finanziarie e dei Ceo delle grandi corporation multinazionali.

Quello a cui stiamo assistendo, a ben vedere, è il diffondersi di una vera e propria nuova forma di governo che si contraddistingue per due principali elementi: 1) si fonda sul clan come struttura di riferimento del sistema sociale e 2) antepone gli interessi economici (privati) a quelli politici (pubblici). Di conseguenza, si è scelto di definire questa nuova forma di governo oikocrazia: un neologismo che deriva dall’unione del termine greco kratos, potere, con oikos, che identifica la casa, ma anche la famiglia, il clan, ed è oltretutto la radice della parola “economia” (“l’amministrazione della casa”).

L’oikocrazia arriva a proporsi come un modello universale che soprassiede alle tradizionali declinazioni della politica, dalla democrazia all’autoritarismo – regimi dei quali, semmai, tenderà a emulare le forme, riducendoli a epifenomeni. L’oikocrazia, inoltre, non si presenta come una forma residuale di governo, da imputare magari a quei paesi in via di sviluppo alla periferia del sistema internazionale che già si trovano costretti a convivere con stati di volta in volta “falliti” o “canaglia”. Al contrario, ha origine nei paesi occidentali e più industrializzati e dall’Occidente si espande poi nel resto del mondo. Europea e statunitense, del resto, è da secoli l’indiscussa leadership politica e, soprattutto, finanziaria globale. Si pensi, da un lato, ai princìpi sanciti dal Concerto europeo di ottocentesca memoria, o alla strategia dell’equilibrio del terrore che ha governato la Guerra fredda; e, dall’altro, al fatto che sono quelle stesse potenze, vincitrici della Seconda guerra mondiale, a imporre le nuove regole del sistema finanziario internazionale con gli accordi di Bretton Woods e a sancire la fine di quell’esperienza trent’anni dopo. Una decisione, quest’ultima, che certo ha favorito il trionfo del capitalismo sull’economia di stato sovietica, ma che al tempo stesso ha spalancato le porte alla crescita incontrollata del credito privato generando quella cronica instabilità del sistema finanziario e monetario cui si devono le ricorrenti crisi dell’economia mondiale.

La diffusione nel mondo dei regimi oikocratici prefigura oggi la nascita di un nuovo totalitarismo che combina in modo originale le due distopie di Orwell e Huxley evocate nell’epigrafe. Orwell, aggiungeva Postman, mette in guardia da un’oppressione imposta dall’alto e finalizzata a privare il popolo della propria memoria e della propria autonomia; per Huxley, invece, il popolo arriva ad amare il proprio oppressore, a adorare le tecnologie che annullano la sua capacità di pensare. Orwell temeva coloro che avrebbero messo al bando i libri; Huxley che non ci sarebbe stato alcun bisogno di metterli al bando, perché nessuno avrebbe più voluto leggerli. Orwell temeva che saremmo stati privati della verità e che avremmo sviluppato una cultura da schiavi, Huxley che la verità sarebbe stata affogata in un mare di irrilevanza e che avremmo generato una cultura triviale.

A seconda dei tempi e del contesto territoriale potrà prevalere ora l’uno ora l’altro di questi due modelli – anche se oggi le democrazie occidentali dimostrano una certa predilezione per la distopia huxleiana, mentre Orwell sembra ancora il punto di riferimento nell’autocrazia russa o in quelle di matrice islamista. Ma si tratta comunque di forme del tutto conciliabili tra loro, accomunate come sono da un’analoga matrice clanica.

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Per usare una metafora, è come se, prima di cadere sconfitti, i vecchi totalitarismi avessero fatto in tempo a disseminare dei geni che, con il tempo, si sono riprodotti in nuove creature, mischiandosi con altri fattori “ereditari” storico-culturali specifici dei diversi luoghi. Ed è come se alcuni di questi geni si fossero inoculati persino all’interno delle trionfanti democrazie, modificandone o sovvertendone la natura; ma permettendo loro, al contempo, di celare la mutazione continuando a mostrare all’esterno la propria maschera democratica.

Quasi senza accorgercene, stiamo producendo una società autoimmune, incapace di riconoscere i propri agenti patogeni e, di conseguenza, destinata ad alimentare i propri mali, invece che a debellarli.

A nostra parziale discolpa va detto che, diversamente dal passato, tutte queste manifestazioni del totalitarismo, se prese singolarmente, sembrano quasi innocue o, quanto meno, facili da circoscrivere. In realtà, esse tendono a costituire delle reti che, col tempo, come in un film dell’orrore, potrebbero arrivare ad assumere le sembianze di un Behemoth (la “bestia delle bestie”, metafora biblica cui Franz Neumann ricorre per descrivere il nazismo) globale – ma quando potrebbe essere troppo tardi per sconfiggerlo. Se ciò avvenisse, vorrebbe dire che, ormai, siamo giunti al termine dell’esperienza democratica.
(27 maggio 2020)




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