Il peccato originale della sinistra

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Tutto è iniziato nel 1947, quando il Pci guidato da Togliatti votò compatto l’articolo 7 della Costituzione. Per un iper-realismo che caratterizza ancora oggi la sinistra italiana, i comunisti accettarono che la Repubblica nascesse sotto tutela vaticana. E il neonato Pd pare aver rinunciato fin dal nascere al tentativo di correggere quell’errore.

di Marco Revelli

Che ne è della laicità? C’è ancora spazio, nell’Italia politica di oggi, per una «cultura laica»? Non – si badi – per una cultura «rigorosamente laica», la quale pretenda l’astensione della Chiesa dalle questioni politiche «temporali»: da tempo, di fronte al ritrarsi della politica da ogni funzione pedagogica o da ogni coinvolgimento con «questioni morali», ci siamo abituati al crescente ruolo di supplenza, su questi terreni, delle cosiddette autorità spirituali. Ma almeno «coerentemente laica»: una cultura politica che, nella generale crisi di sovranità dello Stato-nazione e nell’appannamento dello spazio pubblico, continui tuttavia a difendere un residuo di sovranità sui processi normativi di competenza statale, sull’organizzazione della vita civile e sull’affermazione universalistica dei diritti dei propri cittadini. Che cioè, in materie così delicate come il diritto di famiglia e la pari dignità delle persone e delle relazioni tra loro liberamente scelte, non si faccia dettare le norme da un’entità straniera come lo Stato della Chiesa.
La domanda ha assunto un immediato rilievo politico in questo primo scorcio di vita del governo Prodi, quando sulla questione del riconoscimento delle coppie di fatto è esplosa la contraddizione all’interno dello stesso schieramento di centro-sinistra. Ed è diventata per molti versi cruciale al momento della nascita del Partito democratico, quando i due poli dell’antitesi laicismo-confessionalismo sono stati incorporati, per così dire, in un unico «soggetto politico». Tanto cruciale che, potremmo dire, dalla risposta a essa dipende, in buona misura, non solo la sopravvivenza dell’attuale governo in carica, ma l’assetto stesso del nostro sistema politico (quale appunto viene definito ora nelle sue architetture portanti, con la nascita del Pd come partito egemonico di governo) e, in ultima analisi, della nostra forma di Stato.
Se infatti dovessimo concludere che sì, esiste nonostante tutto in Italia una cultura laica ed essa trova spazio nell’attuale articolazione delle forze politiche, dovremmo concludere che il neo-partito che costituisce il pilastro centrale dell’attuale maggioranza di governo è segnato ex origine da una contraddizione interna difficilmente componibile, nel suo ospitare insieme, senza un preventivo lavoro di rielaborazione, sulla base di una semplice operazione algebrica (e tattica) entrambe le culture politiche (quella socialista e comunista e quella democratico-cristiana) che nella vicenda politica più recente avrebbero dovuto incarnare gli opposti punti di vista laico e confessionale. Che esso è, in sostanza, un ircocervo (per richiamare l’immagine dell’animale mitologico per metà capro e per metà cervo evocata da Benedetto Croce negli anni Quaranta), per certi versi meno realisticamente immaginabile e più instabile – più «ossimorico» – di quello stesso liberal-socialismo contro cui si indirizzavano gli strali crociani, perché tra una concezione liberale della giustizia (alla Mills, per intenderci) e una socialista della libertà (alla Rosselli) esiste certamente meno incompatibilità che tra una visione laica e una confessionale dello Stato. Lo scenario sarebbe dunque quello di un’assoluta provvisorietà del quadro politico, di governo e non solo, nell’attesa del big one, con una delle architravi del futuro assetto istituzionale (quello in funzione del quale gli apprendisti stregoni delle diverse parti si stanno affaccendando intorno al sistema elettorale e alla futura Costituzione) minato da una bomba a tempo del cui timer si dovrebbe già sentire il ticchettio.
Se al contrario dovessimo concludere che no, la laicità come principio regolativo non ha una significativa evidenza politica. Che essa è stata, finora, uno pseudoconcetto (per continuare con Croce), un vezzo di copertura per quelle forze politiche che hanno costituito la parte maggioritaria della sinistra (la sua componente «riformista»), comunque non tale da comportare una volontà di contrapposizione, o anche solo di resistenza, alle pretese confessionali dell’altra parte. Se cioè la questione dell’indipendenza dello Stato dalle opzioni e dai condizionamenti di poteri che muovono in una sfera altra da quella della politica (come la Chiesa cattolica, appunto) dovesse rivelarsi di peso e valore non così rilevante da costituire un problema nella convivenza entro le strutture di un comune partito, allora dovremmo «rassicurarci» (si fa per dire) sulla possibile stabilità e capacità di durata del Partito democratico. O quantomeno sulla sua possibilità di derubricare almeno questo punto dalla lista dei possibili fattori di contrasto interno e di incompatibilità reciproca. Ma al contrario dovremmo preoccuparci assai sulle sorti della nostra democrazia, esposta come sarebbe a fuoriuscire dal novero dei sistemi democratici per ricadere nella non breve lista dei regimi politici confessionali, di fronte a una situazione in cui non solo l’amplissima area di centro-destra, ma anche la parte maggioritaria del centro-sinistra verrebbe a cadere in una condizione di subalternità ai dettami ratzingeriani (se infatti la componente «laica» del centro-sinistra non tiene in gran conto la propria «laicità» fino al punto di sacrificarla tatticamente al superiore principio dell’unità politica, la componente cattolica, al contrario, tiene assai alla propria confessionalità, fino al punto di farne una condizione sine qua non per l’unità).

Delle due alternative – entrambe inquietanti – sembra più plausibile la seconda (la più inquietante delle due, senza dubbio). Per quanto la cronaca ogni giorno rivela. E per ragioni storiche: per quanto, scavando nel passato – per lo meno in quello repubblicano, se non si vuol risalire fino all’origine della «questione romana» – è possibile ricostruire. A cominciare da quel passaggio cruciale che fu, nel marzo del 1947 – esattamente sessant’anni fa – l’approvazione dell’articolo 7 della nostra Costituzione: un nodo che alimenterà a lungo le dure critiche mosse dal nucleo, minoritario, dei laici coerenti nei confronti del Partito comunista (e del suo «tatticismo»), ma rimasto sempre, per così dire, sotto traccia, in qualche misura marginalizzato dalla successiva polarizzazione sociale del conflitto politico, e dalla dialettica governo-opposizione che attraversò buona parte della vicenda della Prima repubblica. E tuttavia decisivo per comprendere i termini della «questione cattolica» in Italia.
Allora, come è noto, un testo costituzionale dal carattere implicitamente «confessionale», fortemente voluto dalla Democrazia cristiana, fu approvato con un’ampia maggioranza per la decisione del Partito comunista di Palmiro Togliatti di votare a favore. In esso si affermava che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». E, fatto più importante e grave, si aggiungeva al secondo comma che «i loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi», ci
oè sulla base del testo integrale dell’accordo bilaterale stipulato nel 1929 tra il governo italiano guidato da Benito Mussolini (definito dal papa di allora l’«uomo della Provvidenza») e la Santa Sede. Dei 499 «costituenti» presenti (maggioranza richiesta: 250) votarono contro in 149: socialisti, aderenti al Partito d’Azione, repubblicani, 4 liberali dissenzienti e qualche isolato. I favorevoli furono 350: i 203 democristiani, naturalmente, i liberali (11), i monarchici (poco più di una decina) e i qualunquisti (25), oltre ai 95 comunisti, allineatisi alla dichiarazione di voto fatta poco prima da Togliatti tra lo stupore generale, dal momento che la decisione era stata tenuta segreta fino all’ultimo (ancora il 20 marzo l’onorevole Pajetta era intervenuto in aula per confermare il no dei comunisti). Anche Nitti, che pure aveva definito «i Patti del Laterano estranei alla materia della Costituzione» e reputato il loro inserimento nel testo costituzionale «uno stratagemma per garantirne l’esistenza e la durata», votò a favore, come Vittorio Emanuele Orlando, Carlo Sforza e Meuccio Ruini. Croce, che in Commissione si era scagliato contro il «giogo pretesco», si diede malato.
Dunque anche senza i voti comunisti l’articolo sarebbe stato approvato, sia pur di misura (5 voti), ma quella decisione provocò un comprensibile scandalo tra le file della sinistra e in generale della parte laica dell’Assemblea, e un vero e proprio shock. Come ricorderà cinquant’anni più tardi, in un’intervista a Sandro Magister sull’Espresso, Vittorio Foa, testimone diretto dei fatti, «quello fu un giorno cupo: non era l’inclusione dei Patti lateranensi nella Costituzione che ci pesava di più. Sapevamo già che l’articolo 7 sarebbe comunque passato, anche senza l’appoggio dei comunisti, sia pure per pochi voti di scarto. Era la svolta del Pci che ci umiliava». Era il fatto di dover scoprire che di fronte a un tema decisivo come la concezione laica dello Stato la sinistra era divisa; che la sua principale forza politica su quel tema non era disposta a impegnare il proprio peso. Che i laici erano, in Italia, politicamente, una fragile minoranza.
Le ragioni dei laici erano state dichiarate nei loro connotati «etico-politici» da Pietro Nenni in un appassionato intervento tenuto alle 2 del mattino del 25 marzo («Con la coscienza di fare il nostro dovere verso la Nazione e verso la Repubblica, noi voteremo contro l’articolo 7, per ragioni, a un tempo, di principio e di coscienza. Le ragioni di principio si richiamano alla nostra concezione dello Stato laico. Il nostro caso di coscienza si pone in rapporto alle origini, al contenuto e all’interpretazione del Concordato»). Ed erano state esposte, pochi giorni prima, il 20 marzo, da Piero Calamandrei, in un intervento che rimane un capolavoro di dottrina costituzionale nonché di argomentazione politico-giuridica. E che fin dall’incipit ne rivela l’inconfondibile spirito: «Noi siamo fermamente e recisamente contrari all’articolo com’è attualmente formulato, e per questo voteremo contro. Parrebbe superfluo mettere in evidenza questa che sembra una conseguenza di logica elementare; ma noi lo dichiariamo per distinguerci da quei colleghi autorevolissimi, i quali sono contrari all’articolo 7 e per questo voteranno a favore (si ride)».
Calamandrei spiegava, in quel memorabile discorso, che l’inserimento nella Carta costituzionale della formula «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» è un’aberrazione giuridica, essendo essa una formula tipica di un trattato internazionale, bilaterale, che come tale implica un reciproco riconoscimento, in cui parlano due voci – due soggetti – mentre la Costituzione, «quella che noi stiamo discutendo, è l’atto di una sola sovranità: del popolo italiano, della repubblica italiana», che in quanto tale è sovrana, «e non c’è bisogno che la Chiesa ne riconosca la sovranità». E chiedeva al colleghi costituenti: «Che cosa pensereste voi di un articolo inserito nella nostra Costituzione, il quale dicesse così: “L’Italia e la Francia sono ciascuna, nel proprio ordine, indipendenti e sovrane”? (Ilarità. Vivi commenti al centro)». Quanto poi al secondo comma, relativo ai Patti Lateranensi, ne sottolineava con lucidità la sistematica incompatibilità e l’intrinseco conflitto di un gran numero delle sue clausole (di «quelle norme occulte, leggibili solo per trasparenza» perché, appunto, reperibili negli articoli del Concordato e dei suoi annessi) con i fondamentali diritti affermati in forma palese nella Carta: il principio della uguaglianza dei cittadini, della libertà di coscienza, di religione, di insegnamento, «il principio della attribuzione esclusiva allo Stato della funzione giurisdizionale…», stracciati e umiliati fin dall’articolo 1 del Trattato in cui «la religione cattolica, apostolica e romana [era proclamata] la sola religione dello Stato»; e poi dal riconoscimento delle sentenze emanate dai tribunali ecclesiastici; dal regime imposto all’insegnamento della religione, giù giù, fino all’impegno assunto dallo Stato di riconoscere «i titoli nobiliari conferiti dai Sommi Pontefici anche dopo il 1870 e quelli che saranno conferiti in avvenire» (in una Costituzione che invece dichiara l’abolizione di tutti i titoli nobiliari). «Che cosa volete voi», concludeva Calamandrei, rivolto «agli amici democristiani», «scegliere lo Stato democratico coi diritti di libertà, o scegliere lo Stato confessionale senza questi diritti? Se voi volete lo Stato democratico coi diritti di libertà, tra cui la libertà di coscienza inconciliabile con lo Stato confessionale, allora bisogna cancellare dal progetto di Costituzione l’articolo 7, così come è stato redatto».
Quali furono, dunque, di fronte alla linearità di questa argomentazione, le ragioni che spinsero Togliatti a spostare tutto il peso del proprio partito dalla parte dell’approvazione, aprendo un vulnus mortale nello schieramento laico? In sede storiografica e politica sono state avanzate numerose, possibili, risposte. È stata ripetuta fino alla noia la frase che il capo del Pci avrebbe pronunciato uscendo dall’aula al termine della votazione: «Con questo voto ci siamo guadagnati vent’anni di permanenza al governo» (previsione smentita ferocemente appena due mesi più tardi quando la Dc di De Gasperi, dopo il noto viaggio americano, liquidò le sinistre e avviò la fase del centrismo), a sostegno di un’interpretazione tutta tattica e tatticistica della scelta. Qualcuno, tra i più maligni, ha insinuato il sospetto di una sorta di transazione sotterranea sull’«oro di Dongo». Altri hanno insistito sulla strategica sottovalutazione da parte dei comunisti italiani, di Togliatti in particolare, ma anche dei comunisti in genere, del terreno dei princìpi, delle questioni «di coscienza». Sugli effetti di una sorta di materialismo «volgare» che li portava a rinunciare alla battaglia su un terreno «ideale» come quello caratterizzato dalla frattura «laicismo/confessionalismo» per privilegiare invece il terreno ben più «materiale» del conflitto capitale/lavoro. O anche sulla considerazione – ancora una volta tutta «tattica» – dello sfavorevole rapporto di forze. Dell’inutilità di una battaglia inevitabilmente «perduta», e dunque sulla necessit&ag
rave; di «capitalizzare» sulla propria resa, consolidando un’immagine rassicurante e amichevole del proprio partito.
In realtà, se si legge bene l’intervento che l’onorevole Togliatti tenne la notte stessa del voto alla Costituente, si può cogliere un più significativo «spessore» dietro quella decisione. Una valutazione e un atteggiamento di fondo, che rendono più motivata e insieme più preoccupante quella decisione. E anche più suscettibile di meglio spiegarci l’attuale nostra (pessima) situazione. Se nell’intervento di Calamandrei si respirava l’aria pura della razionale civiltà giuridica e di un’etica pubblica orientata alla centralità dei diritti, e se in quello di Nenni si avvertiva la passione di un radicalismo democratico impetuoso, nel discorso di Togliatti fu la politica, con tutta la sua grevità, e drammaticità, in termini di forza e di potere, a prendere la parola. La politica come luogo specifico dei rapporti di forza e delle delicate dinamiche della legittimazione, della durezza della logica «amico-nemico» e della minaccia, sempre presente, della rottura e della precipitazione nella guerra civile. La grammatica della politica che egli aveva appreso a Mosca, fuori dal campo addolcito delle consolidate culture democratiche, e che era la stessa che vigeva in Vaticano (altrettanto cinica ed estranea alla mediazione democratica). La vera controparte di questa discussione, che dovrebbe essere tra «costituenti», cioè tra rappresentanti del popolo italiano, non è in realtà qui, disse in pratica. È altrove. Fuori dall’Aula. È un’entità straniera e potenzialmente ostile. È la Chiesa che agisce in realtà come un altro Stato, sul nostro stesso territorio, con logica sovrana, e che può, se lo vuole, sfidare (con possibile successo) la nostra sovranità. Per questo, egli disse, «non abbiamo nessuna difficoltà ad approvare la prima parte dell’art. 7» (quella sul reciproco riconoscimento dell’indipendenza e della sovranità). Per questo, soprattutto, mostrò una così impellente preoccupazione di «dichiarare chiusa la questione romana» con l’assunzione dei Patti lateranensi: per assicurarsi che quel fantasma di pace religiosa che essi accreditavano non venisse liquidato. Per stabilire con la Chiesa una sorta di pace armata. E per esorcizzare il rischio che la Chiesa di Roma «dichiarasse guerra» alla nascente Repubblica italiana, negandole proprio nel momento della sua costituzione quella legittimazione che egli riteneva necessaria, anzi indispensabile, alla sua sopravvivenza.
Togliatti sapeva benissimo che dietro la rigidità della Dc e di De Gasperi c’era la pressione dell’intransigentismo vaticano. E che il papa Pacelli, nel suo oltranzismo, aveva esplicitamente minacciato De Gasperi di togliere il proprio appoggio alla «sua» Dc se non ne avesse accettato gli ordini. Sapeva cioè che la Chiesa era pronta a entrare in campo direttamente, per impedire che il nuovo Stato nascesse come entità indipendente. Per questo permise, anzi favorì, l’inserimento nella nostra Costituzione dell’assenso papale. Con mossa insieme realistica e suicida. Incorporando nell’atto di nascita il sigillo della sua subordinazione. Accettando che la Repubblica democratica italiana nascesse come entità posta sotto tutela vaticana. Accettando, settant’anni dopo Porta Pia, per la seconda volta, la riconquista dell’Italia da parte del potere della Chiesa.
In quella temperie, il principale partito dell’ipotetico schieramento laico, per eccesso di realismo, decise di rinunciare, esplicitamente, alla piena sovranità dello Stato sul proprio territorio, pur di rinviare uno scontro che si temeva di perdere. Accettando come un fatto fuori dalla propria possibilità di intervento, la composizione «antropologicamente non secolarizzata» del nostro paese e la natura confessionale della nostra sfera pubblica. E rinviando in realtà all’infinito la possibilità di una riscossa laica, di cui solo in un’occasione – la battaglia divorzista e il successivo referendum vinto – si vide un debole barlume, dovuto peraltro più alla determinazione di piccole minoranze che non all’azione dei grandi partiti di massa. Né, quell’atteggiamento e quella forma mentale sembrano essere stati superati. Quasi tutto la sinistra ex comunista ha eliminato del proprio patrimonio storico e ideale. Molta della propria storia ha condannato alla rimozione e all’oblio. Ma quel riflesso profondo di realismo subalterno, quello è rimasto. Di fronte alla minaccia vaticana di delegittimare la politica (che sia la Repubblica neonata ieri, o il Partito democratico oggi), è certa la resa senza condizioni. La scelta di cavalcarne l’aggressività anticipandone le mosse: considerando una vittoria l’assunzione a proprio principio costituzionale e costituente del riconoscimento da parte dell’altro. Elevandone la volontà ostile a principio di legittimazione e di sopravvivenza. Per questo possiamo temere fin d’ora, che su questioni che implichino un possibile conflitto con la Chiesa di Ratzinger, nel Pd saranno le ragioni della Binetti anziché quelle di Grillini, o addirittura di Rosi Bindi, a prevalere. Il punto di vista della Curia, o dell’Opus Dei, anziché quello dei movimenti delle donne e per i diritti.
A questo porta l’iper-realismo (unica malattia infantile da cui il post-comunismo non è mai guarito): alla proclamazione trionfale della propria resa e all’abbandono di un campo, come quello della laicità, che oggi – di fronte alle sfide «etiche» del futuro – appare decisivo.



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