Il pittore, l’asina e il fico
"Le Classique et l’Indién". All’Accademia di Francia la retrospettiva del pittore, decoratore, illustratore e scultore Gérard Garouste, un’occasione per scoprire l’opera inquietante e onirica di un interessante artista d’oltralpe.
di Mariasole Garacci
Il classico e l’indiano, come dire la ragione e l’intuito, o la ragione e la follia: elementi complementari e tra loro inscindibili nell’equilibrio dell’uomo. La pittura di Gérard Garouste, con le sue figure fisiognomicamente individuate e realistiche fino al kitsch e dai corpi disarticolati e stravolti dal fuoco di un delirio febbrile, sembra oscillare tra questi due poli. Nato nel 1946, studi alla École des Beaux Arts di Parigi, nel corso degli anni ’80 Garouste è diventato uno degli artisti francesi contemporanei più importanti e riconosciuti, con esposizioni a New York e a Berlino e commissioni per l’Eliseo, la cattedrale di Évry, la Biblioteca Nazionale di Francia; vicino ai Neue Wilde e al Neo Expressionism, in nome di un rinnovato realismo sceglie la strada di una perentoria affermazione del soggetto attraverso la fedeltà al figurativo contro l’arte concettuale, di una narratività classica sebbene stravolta in una lucida irrazionalità (un ossimoro solo apparente), in un incandescente simbolismo onirico carico di rimandi biblici, mitologici e autobiografici. Uno strenuo figurativismo opposto alla preconizzazione della morte dell’arte, su cui così si esprime: “Certo, possiamo sempre angosciarci chiedendoci cosa ne sarà della pittura. Ma potremmo invece dirci che essa è come la voce umana. Finché, in quanto esseri umani, saremo dotati di corde vocali, ci saranno canti. Continueranno ad esserci le canzoni. Parlare di fine della pittura sarebbe come dire: è stato già fatto tutto, tutto è già stato cantato, quindi smettiamo di cantare”.
Tra le fonti iconografiche di questo pittore, la Haggadah e l’Antico Testamento, ma anche classici della letteratura europea: Dante, Rabelais, Cervantes. Il sacro ricorre nelle tele dell’artista riflesso negli specchi infranti della sua vicenda personale toccata dall’oscurità della follia e del manicomio, come si vede nell’imponente dittico Isaie d’Issenheim, ispirato al cinquecentesco altare di Matthias Grünewald e al visionario espressionismo del pittore tedesco, o ne L’ânesse et le figue: l’asina di Balaam, il modesto animale che solo può vedere l’angelo, forse figurazione dell’artista, si ciba innocentemente del biblico frutto del fico e conosce il messaggio divino senza mediazioni; il tema dell’esegesi, della lettura diretta dei testi sacri e della trasmissione del loro insegnamento è interpretato in opere come la blasfema Veronica e in particolare ne Les libraires aveugles: i depositari del sapere, ciechi e barcollanti nella notte, ignorano l’eterno beneficio di cui sono gli ignavi depositari.
Belli i ritratti, che sconvolgono l’impianto della ritrattistica tradizionale -la dicotomia tra ragione e follia, classico e indiano– volgendo una visione macabra e febbrile in forma accessoria dell’espressione che, come gli oggetti allegorici dell’apparato tradizionale della pittura europea (vedi La Myrte et la Vanité – Portrait de Jean de Gunzburg, 2004), innescano un simbolismo che deve qualcosa al Surrealismo e alle suggestioni della psicanalisi.
In mostra anche sculture, disegni, tele indiane e alcune bellissime pitture compendiarie preparatorie per libri illustrati.
Le Classique et l’Indién
Roma, Accademia di Francia a Villa Medici – Viale Trinità dei Monti, 1
Fino al 3 gennaio 2010
Orario: tutti i giorni, 11.00 – 19.00; chiuso il lunedì.
www.villamedici.it
(15 novembre 2009)
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