Il profeta è nudo. La prefazione di Odifreddi al “Trattato dei tre impostori” di Spinoza
Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la prefazione di Piergiorgio Odifreddi alla nuova edizione del "Trattato dei tre impostori. Mosè, Gesù, Maometto" di Baruch Spinoza (Piano B edizioni, 2009).
di Piergiorgio Odifreddi
Molti anni fa, qualcuno ebbe il coraggio e la genialità di bollare i fondatori delle tre religioni monoteistiche mediorientali (Mosè, Gesù e Maometto) come «tre impostori»: un’espressione fortunata, nella sua concisa verosimiglianza, che attrasse immediatamente il plauso degli spiriti liberi e il disdegno di quelli coatti. L’identità di quel qualcuno non si conosce con precisione, ma gli indizi convergono (o meglio, divergono) su due sospetti: il filosofo arabo Averroè e l’imperatore cristiano Federico II, entrambi accusati di eresia e scomunicati (rispettivamente, nel 1195 dal re di Cordoba Almansur, e nel 1227 e 1239 dal papa di Roma Gregorio IX).
Una delle leggende che fiorirono attorno alla questione dei «tre impostori» fu l’esistenza di un fantomatico libro omonimo, variamente attribuito a ciascuno dei grandi atei e/o razionalisti del mezzo millennio successivo: dal dantesco Pier delle Vigne, segretario di Federico II, all’olandese Baruch Spinoza, radiato dalla comunità ebraica di Amsterdam, passando per i nostri connazionali Giovanni Boccaccio, Pietro Pomponazzi, Niccolò Machiavelli, Pietro Aretino, Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Lucilio Vanini.
Inutile dire che di tale libro, o di tali libri, non rimangono tracce. Il testo che oggi conosciamo come il Trattato dei tre impostori fu pubblicato in francese ad Amsterdam nel 1712 come La vita e lo spirito di Spinoza, e acquistò il suo attuale e più famoso titolo solo con la seconda edizione del 1721. Secondo il gusto dell’epoca, la prefazione editoriale si presentava come la risposta a una dissertazione che negava l’esistenza di quello stesso libro, e confutava la negazione con una sedicente testimonianza di prima mano sul suo ritrovamento in una libreria di Francoforte nel 1706.
Stando all’improbabile resoconto, il prefatore si era trovato in loco quando un ufficiale tedesco era entrato per cercare di vendere una vecchia copia de Lo spaccio della bestia trionfante di Bruno e due manoscritti in latino, tutti trafugati dalla Biblioteca dell’Elettore di Sassonia nel sacco di Monaco seguito alla presa della città. Uno dei manoscritti era, manco a dirlo, il Trattato dei tre impostori, che il libraio e il prefatore sarebbero riusciti a farsi prestare per un paio di giorni dal venditore, grazie all’aiuto di qualche bottiglia di Mosella, e avrebbero restituito solo dopo averlo copiato e tradotto (e in seguito, ovviamente, pubblicato).
La prefazione attribuisce il testo a un imprecisato membro della corte di Federico II, forse lo stesso Pier delle Vigne, che l’avrebbe scritto per ordine dell’imperatore. Ma non appena il libro fu stampato ci fu subito chi notò che lo stile era invece quello della «nuova filosofia»: lo provavano, e lo provano, non solo la generale struttura argomentativa, ma anche gli specifici richiami a Spinoza nel titolo originale, e a Cartesio nella discussione sull’anima (XIX, 7). Oggi l’unico indizio favorevole a una possibile retrodatazione sarebbe il ritrovamento di una copia latina del 1598, che però sembra essere semplicemente un falso: cioè, un altro episodio della goliardica vicenda associata a questo libro misterioso.
Che sia stato pubblicato cinque secoli dopo la sua stesura, o scritto all’epoca della sua pubblicazione, il trattato vide comunque la luce agli inizi del Settecento. In un’epoca, cioè, in cui alla massa dei lettori tipici della Bibbia, addormentati in un «sonno dogmatico» e annebbiati dall’«oppio dei popoli», cominciava ormai ad affiancarsi uno sparuto ma qualificato drappello di lettori atipici, cioè svegli e critici: prima lo Hobbes del Leviatano (1651), lo Spinoza del Trattato teologico-politico (1670) e il Newton dell’Esame storico di due notevoli corruzioni delle Scritture (1690), poi il Diderot dei Pensieri filosofici (1746), il La Mettrie de L’uomo macchina (1748) e lo Hume della Storia naturale della religione (1757), tanto per citarne alcuni.
Tutte queste opere educavano in generale a «pensare ciò che si vuole e dire ciò che si pensa», secondo il motto di Spinoza, e stimolavano in particolare a guardare alla religione come a un fenomeno sempre meno divino e sempre più umano. In quest’opera di decostruzione il Trattato dei tre impostori fece la sua parte, più divulgativa che teoretica, familiarizzando il pubblico con l’idea che non si dovevano considerare le Scritture sacre come se fossero dei Vangeli, per dirla in maniera ossimorica, nè i profeti come se fossero dei chiaroveggenti. Anzi, i fondatori dei tre monoteismi mediorientali vennero bollati come torbidi impostori, appunto, e le religioni da loro fondate come un proseguimento del controllo politico del popolo con altri mezzi.
Nonostante il suo crudo anticlericalismo, il Trattato dei tre impostori è comunque un libro deista e non ateo. Anzi, rivelando anche in questo la sua collocazione storica, esso distingue nettamente l’idea astratta di Dio nella teologia dalle sue incarnazioni pratiche nelle religioni. E, rivelando anche in questo la sua collocazione filosofica, professa una fede nel Deus sive natura di Spinoza, affermando che «se tutto è in Dio, e se tutto deriva necessariamente dalla sua esistenza, occorre assolutamente che egli sia identico a ciò che contiene» (III, 1).
Ovviamente, la cosa non soddisfece molti contemporanei del libro, e continua a non soddisfare molti contemporanei nostri: d’altronde, allora come ora, «si crede ostinatamente a ciò che i profeti hanno detto, benchè questi visionari non fossero tra gli Ebrei che quello che gli àuguri e gli indovini erano fra i pagani, e ciò che gli astrologi e i fanatici sono fra noi» (III, 2). Meno ovviamente, la cosa non soddisfece neppure Voltaire, che nel 1768 scrisse una sorprendente Epistola all’autore del libro dei Tre Impostori in cui si trova la famosa affermazione: «Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo», che si meritò la risposta di Diderot: «E infatti, lo si è inventato».
La lettera mostra un Voltaire inaspettato, che bolla il trattato come un esempio di «ateismo grossolano, senza spirito e senza filosofia», si rivolge all’autore chiamandolo «insipido scrivano», lo accusa di essere un «quarto impostore», lo redarguisce a «correggere il valletto ma rispettare il padrone», afferma che la religione è «il sacro legame della società, il primo fondamento della santa equità, il freno dello scellerato, la speranza del giusto», domanda se senza la fede «i bambini sarebbero più docili, gli amici più sicuri, le mogli più oneste, i debitori più solventi», si vanta di «aver sempre distinto la religione dalla superstizione» e ritiene, con la sua cinquantennale opera, di «aver fatto adorare Dio dopo aver vinto il diavolo».
La posizione di Voltaire e di altri liberi pensatori della sua epoca, compreso l’autore del Trattato dei tre impostori, testimonia quanto difficile e graduale sia stato il
percorso di liberazione dalle pastoie della religione, che ebbe appunto come sua prima tappa il «deismo, malattia infantile dell’ateismo». La seconda tappa, o la malattia adolescenziale, possiamo individuarla nell’ateismo tormentato, il cui esempio più tipico è l’aforisma di Nietzsche ne La gaia scienza (125): «Dio è morto, e l’abbiamo ucciso noi. Come potremmo sentirci a posto, noi, assassini fra tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, e ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi?».
Non c’è da stupirsi che i religiosi contemporanei abbiano nostalgia per quel genere di ateismo, che in fondo concedeva loro l’onore delle armi dopo averli sconfitti. Oggi, invece, l’ateismo maturo e rilassato guarda alla religione senza rimpianti e con compassione, e invece che al motto di Voltaire si rifà a quello di Bakunin in Dio e lo stato (1871): «Se Dio esistesse, bisognerebbe abolirlo». Quanto a Mosè, Gesù e Maometto, più che considerarli come tre impostori li declassa a tre pericolosi matti da spedire in manicomio, «come quelli che noi chiamiamo lunatici, pazzi, furiosi, epilettici, e come quelli che parlavano una lingua sconosciuta» (XXI, 7).
Il Trattato dei tre impostori è dunque da leggere come un punto di partenza, più che un punto d’arrivo. Ma è da apprezzare storicamente, soprattutto quando prefigura chiaramente il ruolo della ragione e della scienza nel processo di liberazione dal «pregiudizio trasformato in superstizione» (II, 4), come in questo passo: «Se invece di rimettersi alla propria immaginazione, si consultassero i lumi dell’intelletto e la matematica, e non si superassero i limiti di ciò che si arriva a concepire con l’aiuto dei lumi naturali, tutti converrebbero della verità, e i giudizi sarebbero più unanimi e più ragionevoli di quel che sono» (II, 8). Non si potrebbe esprimerlo meglio, a meno di essere lo Schopenhauer che nei Parerga e paralipomena (1851) scrisse che «le religioni sono figlie dell’ignoranza, e non sopravvivono a lungo alla madre».
(7 dicembre 2009)
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