Il progetto autoritario di Bolsonaro e la giustizia di transizione come antidoto
Simona Bottoni
Jair Bolsonaro, Presidente del Brasile – uno stato democratico – ne nega i risultati certo che la sua base elettorale si ispiri ai valori dell’ultradestra. Eletto capitalizzando il gradimento di quella parte della società contraria a corruzione, disoccupazione, precarietà dei servizi pubblici e puntando sulla sicurezza, ne sta, via via, perdendo l’appoggio, compreso quello della classe media conservatrice sensibile alle questioni ambientali e ai diritti della popolazione LGBT, delusa dalle sue politiche di massima apertura allo sfruttamento minerario e alla deforestazione dell’Amazzonia, in spregio alla tutela delle popolazioni native, e sconcertata dalla gestione opaca delle indagini sull’omicidio dell’attivista per i diritti umani, favelada e consigliere comunale a Rio, Marielle Franco, avvenuto circa due anni fa e ancora senza mandanti. Secondo un recente sondaggio Datafolha l’86% degli intervistati è contrario all’estrazione mineraria nelle terre indigene; oltre il 70% alla liberalizzazione del possesso di armi; il 60% è favorevole al lockdown per l’emergenza Covid-19 di cui Bolsonaro nega la gravità; il 43% ritiene pessima l’azione del suo Governo (un anno fa era il 30%).
Secondo molti osservatori è in corso una guerra culturale bolsonarista basata su una concezione revisionista della dittatura militare che si propone la destrutturazione delle istituzioni e l’eliminazione del nemico interno facendo leva sulla sicurezza nazionale – anche tramite l’uso sistematico di WhatsApp e dei social media per diffondere fake news. Sarebbe sbagliato, quindi, ridurla a caricatura.
Nel lessico del presidente il verbo più utilizzato è “eliminare” e il sostantivo “pulizia”, come durante il colpo di stato militare del 1964. L’anno dopo la pubblicazione del libro nero della dittatura militare "Brasile: Nunca Mais" (1985) le forze armate scrissero il libro nero della lotta armata "Orvil" considerato il caposaldo della guerra culturale bolsonarista che sta minacciando la democrazia brasiliana e che deve essere caratterizzata: è la punta di lancia di un progetto autoritario che sembra voler stabilire un governo di azione diretta tra le masse e il presidente poiché considera le istituzioni democratiche da superare. La comunicazione presidenziale tende a prospettare al cittadino la necessità di una scelta tra l’autoritarismo di Bolsonaro e il ritorno del PT. Autoritarismo che egli ha chiesto di legittimare nell’aprile scorso partecipando a una manifestazione a Brasilia per appoggiare l’intervento militare nel paese e chiedere la reintroduzione dell’AI-5 (con slogan come:”Basta con la vecchia politica: non vogliamo negoziare niente, vogliamo azione per il Brasile”). E mentre altri paesi come Cile e Argentina hanno istituito commissioni di verità all’inizio del processo di ridemocratizzazione post-dittatura portando in prigione molti carnefici, il Brasile è uno degli ultimi paesi ad aver riesaminato i crimini commessi durante la dittatura militare.
Nel 1995 Fernando Henrique Cardoso aveva istituito la Commissione speciale sui morti e i dispersi politici (CEMDP) il cui bilancio è stato deludente e i cui membri sono stati recentemente sostituiti in toto dal Presidente con bolsonaristi del PSL che difendono il regime autoritario. Soltanto nel 2011 ha visto la luce la Commissione Nazionale per la Verità che iniziava i suoi lavori nel 2012 con 3 obiettivi: ricerca della verità, promozione della memoria e riconciliazione. Ha indagato sulle gravi violazioni dei diritti umani perpetrate dallo Stato brasiliano cercando d’identificarne gli autori e di ricostruire circostanze e luoghi ma, non dotata di poteri giurisdizionali, non ha potuto perseguire, giudicare e condannare nessuno. Poteva convocare per far rendere testimonianza ma senza poteri sanzionatori nei confronti di chi si rifiutasse di prestarla. La CNV ha, però, chiaramente dimostrato che le gravi violazioni dei diritti umani in Brasile durante la dittatura militare erano il risultato di una politica di Stato. Non si è trattato di casi eccezionali, come ancora oggi sostiene l’esercito. La Commissione si è posto l’ambizioso obiettivo di giungere alla c.d. “Fase della riconciliazione” (la 3^ delle 4 tappe previste dal percorso della giustizia di transizione), trovandosi, al momento della sua istituzione, tra la 1^ e la 2^ fase (rispettivamente della “Negazione degli abusi” e della “Non negazione degli abusi”, cui fanno seguito la 3^ “dell’ammissione degli abusi o della riconciliazione” e la 4^ “delle scuse pubbliche”). L’allora Ministro della Difesa Celso Amorim inviò alla Commissione un documento, approvato dai 3 comandanti delle Forze Armate brasiliane, in cui affermavano che “non possono negare gli abusi”. Il documento, non decisivo per una svolta sostanziale, ha consentito di passare alla conclusione della 2^ fase pur fallendo l’obiettivo di raggiungere la 3^ a causa della forte resistenza dei militari che hanno collaborato solo formalmente.
Il colonnello Paulo Malhães, attivo nella “casa della morte” di Petrópolis, ha collaborato anche fattivamente con la CNV ammettendo che il sindacalista Rubens Paiva era stato ucciso dai militari, chiarendo come fosse stato arrestato, dove fosse stato portato (in due stabili militari, uno dell’aeronautica e l’altro il Doi-Codi, a Rio de Janeiro), chi l’avesse ucciso. Per uno strano destino, un mese dopo aver testimoniato, è stato assassinato nella sua casa di Nova Iguaçu, Rio de Janeiro: tre persone, dopo averlo asfissiato, hanno rubato le sue armi e sono fuggite.
Nella giornata internazionale dei diritti umani, il 10 dicembre 2014, la CNV ha consegnato il rapporto finale all’allora Presidente Rousseff. Conteneva anche 29 raccomandazioni tra le quali: aggiornare l’insegnamento nelle accademie militari (è ancora quello utilizzato nel periodo della dittatura); ritenere fondamentale il tema dei diritti umani nella società; chiarire il ruolo costituzionale delle forze armate in una società democratica; modificare i nomi di viali e piazze assegnati a chi si sia macchiato di delitti nel periodo della dittatura; smilitarizzare la Polizia Militare cui è affidata la sicurezza pubblica nel paese. E la più importante: riconoscere la responsabilità istituzionale delle forze armate per il verificarsi di gravi violazioni dei diritti umani durante la dittatura. Secondo il documento detenzioni arbitrarie, torture, esecuzioni, sparizioni forzate e occultamento di cadaveri, ancora comuni nel paese, sono dovuti al fatto che "le violazioni (…) verificate in passato non sono state adeguatamente segnalate, né gli autori ne sono stati dichiarati responsabili, creando le condizioni per la loro perpetuazione". Il risultato di un’impunità storica è che alcune pratiche della Polizia Militare violano ancora oggi i diritti umani. L’azione di responsabilità nei confronti degli agenti della dittatura spetta al Ministero Pubblico Federale che avvia indagini i cui risultati sono in genere assai scarsi: un po’ perché la maggior parte degli imputati e dei testimoni sono morti, un po’ perché la magistratura non istruisce i processi ritenendo questi crimini amnistiati dalla legge. Così eludono il rispetto di questa raccomandazione. I pochi processi istruiti sono lenti anche perché i militari sostengono che i documenti siano stati distrutti anche se sarebbe possibile ricostruirli ma non è stato mai dato l’ordine di
farlo.
La legge sull’amnistia, la n.6.683 del 1979, promulgata dal presidente João Batista Figueiredo in tempo di dittatura militare, garantisce l’impunità a chi ha commesso crimini politici tra il 1961 e il 1979: ha assolto o liberato oltre 25.000 prigionieri politici e ha assicurato all’esercito e ai suoi sostenitori di non subire processi per i crimini commessi. La principale richiesta dei parenti delle vittime continua ad essere la revisione di questa Legge, vista con sospetto anche da chi ha fatto la lotta armata contro la dittatura e ne è protetto, ma che non tutti i parlamentari ritengono necessaria. Chiedono anche di ritrovare i corpi e, poi, di rettificare i loro certificati di morte con l’inserimento della causa “a seguito della persecuzione politica durante la dittatura”. Risulta richiesta la correzione di circa 60 certificati di morte: un numero indicativo.
Il rapporto finale della CNV ha determinato in 421 le vittime dei militari che hanno governato in Brasile: comprendono omicidi e sparizioni degli oppositori politici. È sorprendente un numero di vittime così contenuto rispetto a quello di altri paesi dell’area anche in rapporto alla popolazione: il Cile ha contato 3.065 morti e dispersi tra il 1973 e il 1989; l’Argentina circa 30.000 tra il 1976 e il 1983. Il numero delle vittime in Brasile è certamente ben più elevato. La CNV ha appurato che la dittatura ha utilizzato almeno sette centri di tortura clandestini, cioè luoghi, che non erano caserme o stazioni di polizia, messi a disposizione da civili che sostenevano il regime militare, all’interno delle quali si perpetravano aggressioni e omicidi da parte di agenti statali: la Casa della Morte a Petrópolis (Rio de Janeiro) dove ammise di operare il colonnello Paulo Malhaes; la Casa Azul di Marabá, nel Pará; la Casa degli Orrori a Maranguape, nel Cearà; la Casa di Itapevi, nello Stato di San Paolo; la Fazenda 31 de Março nella città di Embu-Guaçu a San Paolo; altri centri clandestini nel quartiere São Conrado di Rio de Janeiro, nel quartiere Ipiranga di San Paolo e nella città di Belo Horizonte. Inoltre è emerso che sei navi carcerarie (come la nave Canopus, nel porto di Rio Grande, Rio Grande do Sul) vennero utilizzate come luoghi non clandestini di maggiore isolamento dei prigionieri dove era impedito l’accesso a avvocati e familiari. Anche sulle navi i detenuti venivano torturati e tenuti in piccole cabine senza oblò. Nell’elenco delle vittime stilato dalla CNV c’è il nome del sindacalista carioca Rio Aluísio Palhano Pedreira Ferreira, le cui ossa sono state identificate nel 2018 tra quelle rinvenute nel fossato del Perùs, la più grande fossa comune clandestina trovata in Brasile ad oggi, scoperta con un’inchiesta del 1990 del giornalista Caco Barcellos sulla violenza della PM contro i civili nel cimitero di Dom Bosco, a San Paolo. Vi furono ritrovate 1.049 ossa che, dopo 30 anni dal ritrovamento, non sono state ancora completamente identificate. Sono passate attraverso l’Università di Campinas (Unicamp), l’Università Federale di Minas Gerais (UFMG) e la polizia scientifica dell’Istituto Medico Legale (IML) di San Paolo. Si è poi unita al caso l’Università Federale di San Paolo (Unifesp) firmando un protocollo per collaborare all’indagine e costituendo un gruppo interdisciplinare tra medici, antropologi e professionisti dei diritti umani e familiari delle vittime per il monitoraggio diretto delle indagini. Dopo innumerevoli traversie e il deperimento irreversibile di oltre la metà del materiale organico recuperato, col Decreto n.9.759 di aprile 2019, Bolsonaro ha chiuso il Gruppo di Lavoro Perùs e il Gruppo di Lavoro Araguaia (Dichiarando alla stampa che: "Le ossa le cercano i cani").
Bolsonaro, che insieme ai militari aveva contestato il lavoro della CNV, raggiunta la presidenza ha fatto approvare leggi che riecheggiano alla dittatura e in aperto contrasto con la raccomandazione della CNV di smilitarizzare la polizia abbandonando le pratiche militari ancora in uso. Un esempio è dato dalla c.d. "excludente de ilicitude" di novembre 2019 che esclude la responsabilità penale delle forze dell’ordine che uccidono nel corso di operazioni di Garanzia delle leggi e dell’ordine (GLO). Una legge del 2001 consente al PdR di ordinare operazioni di Garanzia delle leggi e dell’ordine se c’è una seria minaccia al loro mantenimento nel paese: l’intervento delle Forze dell’Ordine è chiesto per un tempo determinato, in un’area ristretta, in modo episodico, per garantire l’integrità e la sicurezza della popolazione e delle istituzioni. La polizia militare è responsabile di una parte significativa degli omicidi nel paese (oltre 5.000 civili l’anno) che colpisce soprattutto la gioventù nera delle periferie urbane, le popolazioni native della foresta amazzonica e di altre regioni rurali del paese. Per far attuare le raccomandazioni della CNV lo strumento più efficace è sicuramente la pressione popolare e delle ONG ma la Commissione non è stata in grado di mobilitare la popolazione. Sembra che il paese abbia bisogno di nascondere il suo passato per riguadagnare la democrazia. La comprensione del carattere violento di quel periodo da parte della società brasiliana non è ancora profonda, un dibattito pubblico diffuso non è ancora iniziato. Il Brasile vuole voltare la pagina della dittatura senza averla prima scritta: per capire il presente e dotarsi di un antidoto per non ripeterne gli errori occorre farsi carico del passato.
Col discorso fatto alla Camera da deputato durante il voto di impeachment dell’allora Presidente Dilma Rousseff: “In memoria del colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra, il terrore di Dilma Rousseff” Bolsonaro ha reso omaggio a un torturatore e omicida in Parlamento, il luogo più centrale della democrazia. La notizia, ripresa dai media brasiliani e del mondo, non ha suscitato indignazione diffusa nel paese. Per ricostruire la democrazia era fondamentale fare giustizia sui crimini della dittatura. Non averlo fatto isola gli unici che continuano a chiederla: torturati, parenti delle vittime e degli scomparsi che vengono scambiati per vendicativi per le loro giuste pretese. Come sostiene Eliane Brum non ci sarà piena democrazia fin quando un bambino potrà incontrare il torturatore o l’assassino del padre in uno spazio pubblico sapendo che gode d’impunità, che non è mai stato disturbato da un processo. La democrazia costruita negli ultimi 30 anni è aperta a distorsioni perché non ha prodotto né giustizia né memoria: per questo un difensore della dittatura come Jair Bolsonaro è così popolare tra i giovani nati dopo il regime di eccezione. Non c’è memoria vivente di ciò che è accaduto in quel periodo: l’80% della popolazione è nata dopo il colpo di stato del 1964; circa 80 milioni di brasiliani sono nati dopo la fine della dittatura militare.
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