Il referendum, lo spread e l’ombra della troika
Raro
L’approssimarsi del referendum costituzionale si è accompagnato all’ampliamento dello spread sui titoli del debito pubblico italiano, dal minimo dei 114 punti base di agosto fino ai 190 di fine novembre, riflesso di un peggioramento delle condizioni a cui il governo contrae nuovo debito. Piccole ma ben visibili crepe nella stabilità finanziaria del paese. L’aumento dello spread è stato genericamente attribuito alle preoccupazioni dei mercati per l’incertezza politica che l’esito del voto potrebbe determinare, e alcuni analisti del Financial Times sono giunti a preconizzare, in caso di vittoria del ‘no’, una catena di fallimenti bancari capace di compromettere la tenuta dell’intero sistema. Così, l’Italia si appresta al voto appesa al fragile appiglio di poche, scricchiolanti, quotazioni di borsa, dai titoli del debito pubblico ai bancari. Prima che si alzi l’assordante frastuono di una crisi finanziaria così nitidamente descritta dagli analisti d’oltreoceano, sarebbe il caso di domandarsi quali forze, dietro il paravento dei mercati, stiano effettivamente minacciando, in un frangente così delicato per il futuro dell’assetto istituzionale e politico dell’Italia, la stabilità finanziaria del paese.
Un elemento utile a decifrare questa inquietante overture che ci sta introducendo al referendum è un dato di fatto tanto macroscopico quanto significativo: l’allarme spread non risuonava da circa due anni. Precisamente, da quando la Banca Centrale Europea ha avviato il programma di acquisto di titoli pubblici noto come quantitative easing: iniettando liquidità nei mercati al ritmo di 80 miliardi di euro al mese, gli acquisti della Bce hanno spinto al rialzo le quotazioni dei titoli pubblici calmierando così il tasso dell’interesse pagato dai governi. Mentre la banca centrale divora titoli, le banche private vengono indotte a liberarsi delle obbligazioni pubbliche dalla minaccia di un inasprimento della regolamentazione bancaria europea, ma la spinta dell’autorità monetaria risulta più forte delle vendite, e gli spread vengono addomesticati.
Tuttavia, e qui inizia la nostra storia, l’azione di sostegno della banca centrale inizia a rallentare appena sei mesi fa, senza un’apparente spiegazione. Dai dati diffusi dalla stessa Bce emerge che il ritmo settimanale degli acquisti aggregati per l’intera eurozona è passato dai 20 miliardi di euro di aprile ai 14 registrati nell’ultima rilevazione. Parallelamente, la quota degli acquisti complessivi destinata ai titoli pubblici italiani, che si mantiene intorno al 18% fino alla metà dell’anno, scende di un punto percentuale già ad ottobre: ciò significa che la riduzione degli acquisti netti incide più che proporzionalmente sull’Italia, ampliando per questa via lo spread con la Germania, che al contrario usufruisce di una quota di acquisti stabile.
La banca centrale ha lentamente ma inesorabilmente iniziato a stringere il rubinetto, dosando sempre più quella liquidità con cui aveva spento l’incendio divampato in Europa nel 2009, a partire da Atene: i flussi iniettati ogni giorno nelle vene del sistema finanziario dell’eurozona passano dai 3,9 miliardi di aprile ai 3,5 di ottobre, fino a scendere ai 2,9 miliardi di euro della scorsa settimana. Il passaggio decisivo avviene negli ultimi trenta giorni, quando gli acquisti netti della Bce crollano di circa il 30%: è proprio a ridosso del referendum che gli spread passano dai 150 punti base di fine ottobre alla soglia dei 190 punti base registrata a fine novembre. E non potrebbe essere altrimenti. Perché, se la banca centrale rallenta i suoi acquisti, le vendite da parte del settore bancario non si arrestano, ma vengono addirittura stimolate dalla stessa autorità monetaria europea che, per bocca del presidente del Meccanismo di vigilanza unico Nouy, continua a paventare l’imposizione di rigidi limiti alla possibilità delle banche di detenere titoli del debito pubblico, scoraggiandone così la sottoscrizione.
Dietro il velo dei mercati finanziari, dunque, si muove in Europa una banca centrale che sembra perseguire precisi obiettivi politici, fino al punto di sacrificare quella stabilità finanziaria che dovrebbe, in teoria, difendere ad ogni costo. Dunque, cosa avrà spinto la Bce ad abbassare, in vista del referendum italiano, quello scudo anti-spread che nel 2015 aveva consentito di domare una crisi del debito pubblico ben più drammatica, che aveva messo in ginocchio l’intera periferia d’Europa? Forse il timore che, con il rifiuto della riforma costituzionale, si esprima a partire dall’Italia la volontà dei paesi periferici di risollevarsi e respingere il paradigma dell’austerità, che si era affermato in Europa negli anni della crisi proprio attraverso gli interventi della troika. E se la minaccia dello spread non dovesse rivelarsi efficace sarebbe la stessa troika a dover rientrare in gioco, sempre attraverso il canale della politica monetaria.
L’agenzia Reuters ha recentemente rivelato, da fonti interne alla Bce, che l’autorità monetaria europea sarebbe disponibile a sostenere “per qualche giorno o settimana”, tramite un’intensificazione degli acquisti operati con il quantitative easing, il corso dei titoli pubblici italiani nel caso di una vittoria del ‘no’, in previsioni di attacchi speculativi. Per qualche giorno o settimana, e dopo? Dopo, secondo le stesse fonti, l’Italia sarebbe costretta a chiedere formalmente l’intervento della troika tramite il meccanismo delle OMT (Outright Monetary Transactions). Il ricorso alle OMT è però subordinato alla sottoscrizione di un memorandum che impegna il paese ad attuare specifici indirizzi di politica economica, costi quel che costi. La gabbia dell’austerità, dunque, sembra essere l’unico orizzonte politico entro cui l’autorità monetaria europea è disposta a garantire la stabilità finanziaria. A prescindere da quale sia la volontà espressa dagli italiani nel referendum.
(3 dicembre 2016)
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