Il relativismo plausibile
Michele Martelli
Aureo volumetto questo di Orlando Franceschelli, In nome del bene e del male. Filosofia, laicità e ricerca di senso, appena uscito per i tipi di Donzelli, Roma, 2018, ultimo di una serie di brevi saggi del medesimo autore a cominciare dal primo su Dio e Darwin, pubblicati sempre dallo stesso editore, e impostati sull’antitetisi tra «principio-creazione» e «principio-natura», cioè tra creazionismo e naturalismo, il quale ultimo, dopo Darwin, sarebbe l’unica filosofia possibile in coerenza con la scienza.
Il tema qui affrontato da Franceschelli è quello classico della teodicea, ossia della giustificazione di Dio di fronte al male. Il termine fu adoperato per la prima volta, come noto, da Gottfried W. Leibniz, che nel 1710 mandò alle stampe per l’appunto i celebri Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male. Forse a questo titolo allude quello (dell’editore) di Franceschelli, che si potrebbe leibnizianamente leggere: In nome (di Dio origine) del bene e del male. Ma l’implicita allusione, se ha forse una ragione, è solo commerciale, non certo filosofica.
L’autore sostiene infatti una tesi filosofica opposta alla teodicea leibniziana e in genere giudaico-cristiana, che ha nel greco Platone la sua prima origine e nel trinomio Dio-uomo-mondo la sua formulazione metafisico-religiosa (Karl Löwith). E che, tradizionalmente, si può riassumere nelle due angosciose insolubili domande formulate da Severino Boezio: «Si quidem deus est, unde malum? bona vero unde, si non est?».
Per il pensatore cristiano tardo-romano, se c’è Dio, che è il Sommo Bene, donde deriva il male? E se all’opposto Dio non c’è, donde il bene? La supposta esistenza di Dio non spiega l’origine del male: a meno che il male non derivi da Satana, che in tal caso sarebbe un anti-Dio manicheo. La sua inesistenza non spiega quella del bene: se Dio, che è fonte del bene, non c’è, «tutto è permesso» (Dostoevskij) e si apre quindi il baratro del nichilismo etico (Nietzsche: la «morte di Dio»).
Ma l’aporia è superata, se al creazionismo teologico, razionalmente indimostrabile (Kant), e spesso antiscientifico (il «Disegno Intelligente»), si sostituisce l’idea filosofico-scientifica dell’autarchia sia della natura (Democrito e fisica moderna), sia dei suoi processi bio-evolutivi (Darwin e neodarwiniani), compreso quello che porta alla comparsa di Homo sapiens.
Sorge però il problema del «male naturale» (morte, malattie, terremoti, tsunami, ecc.): se si addita nella natura, nella «natura matrigna» (Leopardi), la causa responsabile del male, non ci troviamo di fronte alle difficoltà altrettanto insormontabili di una sorta di «fisio- o cosmo-dicea», che sancirebbe in altre forme l’ineluttabilità sovrumana del male? Ma il problema ha un vizio d’origine: la caduta dal teismo nel panteismo, che divinizza, assolutizza la natura.
Se ne esce in due modi, sostiene Franceschelli, con «due formule-segnavia imprescindibili», ma opposte e non convertibili: 1) quella dell’«al di là del bene e del male soprannaturali e naturali», cioè un’etica senza Dio-Spirito e senza Dio-Natura, e quindi l’«extramoralità della realtà fisica»; 2) quella del «bonum et malum retinenda sunt» (Spinoza), cioè che senza Dio bene e male restano, spetta a noi identificarli, definirli e discernerli.
Ma con quale criterio? L’autore avanza due proposte, d’ascendenza humiana, anch’esse opposte, che si basano sulla doppia natura dell’uomo, Homo sapiens e civilizzato compreso, altruistica e «samaritana», o egoistica e violenta, ovvero: 1) il «bene come ricerca della felicità possibile» per sé e per gli altri, che non dimentichi la nostra inclusione nella natura, la nostra «eco-appartenenza»; 2) il «male come indifferenza egoistica verso la sofferenza degli esseri senzienti», di cui noi siamo parte.
Siffatto criterio di discernimento tra bene e male si innesta, secondo l’autore, su quello che egli definisce il «relativismo della plausibilità», che ha diverse implicazioni. Innanzitutto «il pluralismo» delle visioni del mondo e dei valori, da intendere soltanto come «prodotti storico-culturali», «relativi» a noi, alle nostre scelte. Dal che consegue «la virtù della laicità» e della tolleranza, per cui nessun valore è «sacro» e indiscutibile. Infine l’opportunità della preferenza per i valori «plausibili» (libertà, solidarietà, diritti umani, bene comune, ecc.), conquistati a fatica dal processo dell’umana civilizzazione.
Dunque un relativismo storico e costruttivo, non distruttivo e nichilistico, opposto non solo alla teologia dogmatica dei fanatici del «Dio lo comanda» (da cui violenze terroristiche, stragi e guerre sante), ma anche e ancor di più, se possibile, alle sue reincarnazioni secolari (a cominciare dalla divinizzazione, aperta o surrettizia, del potere politico, della tecnica e delle biotecnologie).
Su questo punto, l’autore, travestito quasi da detective filosofico, va alla caccia dei filosofi moderni in cui le tracce di quella teologia si possono scovare, dall’anticlericale illuminista Voltaire (che professa il deismo, cioè la fede in un «Essere supremo, creatore, reggitore ecc.», e quindi l’intolleranza per gli atei) al trascendalista Kant (la cui etica rigorista del dovere postula l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio) fino a Nietzsche (la cui «Volontà di Potenza» si risolve nell’assolutizzazione dei «valori aristocratici» e dell’egoismo sfrenato degli «Übermenschen») e al sociologo delle religioni Max Weber (il cui «politeismo dei valori» suppone una molteplicità di Valori-Dio in insanabile conflitto, per cui ciò che è divino per me è demoniaco per te).
Sulla ricerca di tali tracce potrebbe essere costruito, quasi come un giallo filosofico, un nuovo prossimo e intricante volume. Che nulla però toglierebbe al pregio non comune di questo libro appena uscito e alla proposta etico-filosofica in esso contenuta, riccamente e rigorosamente documentata e argomentata.
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