Il ritorno della ‘ndrangheta raccontato in un libro

Angelo d’Orsi

La ‘ndrangheta, nelle ultime settimane, è ritornata protagonista nell’azione di contrasto svolto dalle istituzioni giudiziarie e delle forze di polizia. Non altrettanto sui media, i quali, è opinione corrente, hanno mostrato una incredibile, o sospetta disattenzione. Ne ho già parlato i questa sede recentemente, anche in relazione a clamorosi sviluppi di indagini giudiziarie, di cui, dalla parte della legalità, è stato protagonista il responsabile della Procura di Catanzaro, Nicola Gratteri. In data 19 dicembre, per esempio, quella procura ha coordinato una delle più vaste operazioni di sempre volta alla repressione della criminalità in Calabria: quasi mezzo migliaio di arrestati, centinaia di indagati, milioni di euro di beni sequestrati, nel territorio, ma anche in altre regioni, quasi l’intera Italia, con estensioni fuori, in vari Paesi europei. E il giorno 20 era rovinosamente precipitata la stella di un politico di lungo corso nella Regione Piemonte, come Roberto Rosso, ora in quota Fratelli d’Italia.
Pochi giorni prima la Giunta regionale della Vale d’Aosta era stata decapitata da un’altra inchiesta, per le pesantissime infiltrazioni proprio della mafia calabrese, che faceva il bello e il cattivo tempo lassù tra i severi valdostani. In precedenza, era toccato all’Umbria, con esiti fatali per l’amministrazione che la reggeva. Era stata messa a nudo la presenza del sistema ‘ndranghetista in regione: presenza fortissima, condizionante l’intera vita politica e in parte l’apparato produttivo, e più in generale il tessuto economico.
Insomma, una nuova, pesante prova se ve ne fosse ancora bisogno della pervasività del Grande crimine, e del fatto che ormai le cosche hanno rotto le barriere locali, e si sono organizzate su scala planetaria. Per la mafia siciliana, in particolare, il procuratore di Palermo Roberto Scarpinato da anni segue piste internazionali, e ora il suo omologo di Catanzaro, Gratteri, sta nei fatti dimostrando che la criminalità calabrese non è rimasta indietro. Anzi, come altri studi da tempo vanno sostenendo, precisamente la ‘ndrangheta calabrese è in testa alla classifica dei soggetti della Grande criminalità organizzata, sopravanzando ormai mafia e camorra e altre minori.
Quella della ‘ndrangheta, e del suo primato, al di là della “strana” disattenzione sugli ultimi avvenimenti giudiziari, è dunque una realtà non sufficientemente raccontata né dai media, né dalla classe politica, che sia o meno collusa o addirittura beneficiaria dell’appoggio degli ‘ndranghetisti, come hanno dimostrato i casi valdostani, piemontesi e umbri. E neppure se ne ha coscienza pubblica; tanto nel discorso politico, quanto nell’immaginario collettivo, è la mafia siciliana a occupare tutto o quasi lo spazio reale o virtuale del grande crimine organizzato. E capita addirittura, in un periodo in cui l’assalto all’Ordine giudiziario è diventato diffuso come ai tempi del berlusconismo imperante, che una deputata piddina – il cui consorte, tale Nicola Adamo, finito sotto inchiesta giudiziaria – attacchi il procuratore Gratteri accusandolo di farsi pubblicità! E intanto lo stesso Adamo annuncia addirittura un esposto al CSM contro Gratteri, segno evidente che il procuratore di Catanzaro sta lavorando magnificamente.
Ma da dove nasce il primato ‘ndranghetista? Come sempre la risposta la può dare, innanzi tutto, la storia. E quella della organizzazione calabrese è assai poca nota. Perciò giunge opportuno il libro a triplice firma “Quando la ‘ndrangheta scoprì l’America” (di Antonio Nicaso, Maria Barillà e Vittorio Amaddeo, con Prefazione di Nicola Gratteri, Mondadori). Si tratta di un lavoro originale e pressoché esaustivo su di un argomento finora per nulla studiato, ossia l’infiltrazione ‘ndranghetista negli Stati Uniti d’America. Mentre sono abbastanza consistenti, per numero e per qualità gli studi sulla mafia americana, ossia sull’esportazione negli States dei mafiosi siciliani, e della ricaduta che questo ha avuto sullo sviluppo dell’organizzazione, anche in Italia, stranamente, lo stesso lavoro non era stato compiuto per la criminalità calabrese, probabilmente effetto della cronica sottovalutazione tanto sul piano dell’azione di contrasto (di forze di polizia, di organi politici, e di organi giudiziari), quanto su quello dell’analisi socio-storica e politico-economica del fenomeno.
L’esportazione della criminalità nel continente americano, soprattutto del Nord, ma non solo, ha inizio nella prima grande ondata migratoria di italiani, ingaggiati dalle agenzie che inviano i loro agenti per la Penisola a reclutare braccia per lo sviluppo capitalistico di quelle terre. Con l’esportazione di uomini e donne desiderosi e bisognosi solo di lavorare, per guadagnarsi onestamente il pane, come si legge nella stampa d’epoca, partì l’emigrazione di delinquenti. In particolare di “picciotti”, anticamera dello ‘ndranghetista (come del mafioso), che hanno intuito le possibilità nuove offerte dal “Nuovo Mondo”: possibilità che potrebbero moltiplicare per un fattore N, il giro di affari della onorata società calabrese. E così sarà.
In realtà, tra ultimo Ottocento e Grande guerra, ma con una prosecuzione nei decenni seguenti, il panorama mostra una sorta di traffico bilaterale, con andirivieni di criminali tra Italia e America, ma anche di poliziotti che compiono il medesimo tragitto, in andata e ritorno, seguendo le tracce dei delinquenti. Si tratta di una storia complicata, anche per il mutare dei ruoli (la guardia diventa facilmente ladro, il ladro diventa eroe popolare, l’eroe si trasforma in belva sanguinaria, e così via), ma anche per i cambiamenti di nomi ora volontari, per sfuggire alle ricerche tanto di ‘ndranghetisti in cerca di vendette su picciotti che hanno tradito, quanto di sbirri che danno loro la caccia. Di questi, il più celebre è il cilentano Joe Petrosino, che riuscirà a guadagnarsi l’apprezzamento delle autorità statunitensi e il feroce odio dei delinquenti, la cui risposta non si farà attendere, e nel marzo 1909, con un agguato nel centro di Palermo, che lo ucciderà, consegnandone il nome all’immortalità.
Emblematico, sull’altro fronte, il caso di Giuseppe Musolino, uno dei primi “grandi” ‘ndranghetisti, finito in prigione, processato, condannato, il quale riesce fortunosamente a evadere e dà inizio a una spaventosa sequela di vendette verso tutti coloro che a suo avviso lo hanno “infamato” o hanno contribuito a mandarlo dietro le sbarre. Siamo nel passaggio del secolo, tra Otto e Novecento, che vuol dire anche il passaggio dall’era umbertina a quella giolittiana, con lo scontro interno alla classe dirigente, se allargare la base dello Stato o arroccarsi in difesa dei privilegi. Musolino diventa presto un mito popolare, e per assonanza con le leggende immediatamente postunitarie, viene appellato “Il brigante Musolino”: si tratta in vero di un mito per nulla corrispondente alla realtà dei fatti. Nel mito egli è il vendicatore dei torti subìti dalla povera gente, un uomo che lottando per la propria libertà e dignità, lotta per tutti. E mentre gli uomini lo ammirano e cercano di imitarne le gesta, e le donne gli si offrono, persino il ceto politico cerca di sfruttare quel mito, a costo, come accadrà, di favorire sia pur inconsapevolmente e indirettamente, lo sviluppo delle cosche ‘ndranghetiste.
Queste si sviluppano, sempre sul tragitto atlantico, fra America e Italia, sulla base di agguati, omicidi, rapimenti, torture, vendette trasversali, minacce, intimidazioni, riti iniziatici, macabri rituali, simbologie mai del tutto chiarite, e un’aura di mistero che cela le regole ferree di una società segreta, dove non è facile essere accolti, ma impossibile uscire. Una società che perfeziona via via i propri metodi, affina le proprie procedure, funzionando come uno Stato, con tanto di tribunali, di esecutori di “sentenze”, di mediatori, di spie, eccetera. Sovente giudici e poliziotti si arrendono, davanti a una tela in cui è difficilissimo fare degli strappi, e la ‘ndrangheta cresce, si allarga, prospera, sull’una e l’altra sponda dell’Atlantico: certo, nascono e si rafforzano nuclei speciali di investigatori, che sfidando la sorte, ostinatamente, cercano di sconfiggere un drago sempre più potente, che si esplica nella imposizione del “pizzo”, induzione alla prostituzione femminile, riduzione in schiavitù, organizzazione su scala sempre più ampia dei più vari traffici illeciti. Ma lo stesso progredire degli affari stimola appetiti, suscita rivalità, eccita contrasti interni, da cui le guerre tra le varie gang (le ‘ndrine) che si costituiscono all’interno della organizzazione-madre.
La stagione del proibizionismo sarà naturalmente la gallina dalle uova d’oro per la ‘ndrangheta come per le altre mafie. Il contrabbando di alcolici in vero si aggiunge lo spaccio di sostanze stupefacenti, moltiplicando gli introiti esponenzialmente, ma nel contempo anche le lotte interne, e quelle tra le varie organizzazioni criminali. Sono i “ruggenti anni Venti”, raccontati in tanta letteratura scritta o raccontata per immagini al cinema. Le faide interne alla ‘ndrangheta si moltiplicano, in parallelo al sorgere e al rapido incrudirsi delle guerre tra mafie. Gli omicidi, i sequestri di persona, le irruzioni nei locali, le torture più efferate…: le azioni più trucide sono posto in atto da una parte e dall’altra, un vero film dell’orrore, che spesso va oltre l’immaginabile. Il libro le documenta analiticamente, non risparmiando i dettagli più macabri: anzi, se v’è una critica da muovere agli autori è proprio l’eccesso di particolari, di nomi, di situazioni, di citazioni, spesso lunghissime, che diventano altrettanti arbusti e cespugli di un bosco nel quale è facile smarrirsi… Le istituzioni – giudici, politici, poliziotti – appaiono spesso in grave difficoltà, quando non si lasciano corrompere dai criminali stessi. Un aiuto fondamentale giungerà dai “pentiti” primo fra tutto il fratello del “Brigante Musolino”, il quale nel 1930 vuoterà il sacco, e con la qualifica di “infame” sarà freddato in un agguato ‘ndranghetista nel 1961: la vendetta è un piatto che si serve freddo, evidentemente. Il brigante morrà invece ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Reggio Calabria nel 1956. Ma, come si legge nel libro “il suo mito, però, ormai entrato nel patrimonio genetico della ‘ndrangheta, gli sopravvive”.
A noi, invece, rimane la realtà terribile di questo polipo che con i suoi tentacoli avviluppa un intero Paese.

(30 dicembre 2019)





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