Il rovescio di Telemaco, ovvero Marco Risi racconta: “Forte respiro rapido. La mia vita con Dino Risi”

Flavio De Bernardinis

Non dirò il senso che il titolo del libro di Marco Risi, Forte respiro rapido, dedicato alla “vita col padre”, assume nel racconto filiale. Non lo dirò perché è una scoperta da lasciare tutta al lettore. Posso invece dire perché mi sembri un libro importante, capace di toccare con sincerità, spudoratezza persino, un tema molto presente e diffuso tra coloro che sono nati in Italia negli anni Cinquanta (fra cui, anche chi scrive), che eccede la pura e semplice passione generazionale, per toccare corde più vaste.

Il padre, come noto, è Dino Risi, il regista de Il sorpasso e Una vita difficile, il quale, nato nel 1916, è componente di una pattuglia di uomini di spettacolo che segnano in profondità la storia del cinema, e anche del teatro e della televisione, dell’immediato dopoguerra: Alberto Sordi (n.1920), Nino Manfredi (n.1921), Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi (n.1922), Marcello Mastroianni (n.1924), fra gli attori; e poi Mario Monicelli (n.1915), Luigi Comencini (n.1916), Luciano Salce (n.1922) e Luigi Magni (n.1928),tra i registi. A cui si deve aggiungere Ettore Scola, che è già del 1931. Tralasciando qui, per ragioni anche di spazio, gli sceneggiatori.

È la generazione che ha saputo raccontare col cinema l’Italia repubblicana, dopo aver vissuto l’adolescenza, e qualcosa in più, sotto Mussolini: la parabola massima, il picco, e poi la caduta secca e repentina del fascismo. Questo credo sia importante. Importante perché il crollo dell’illusione fascista produce il sigillo generazionale, ovvero il disincanto di fronte a ogni tipo, o specie, di sogni o promesse. Per chi ha avuto esperienza diretta di un Mussolini, evidentemente, è difficile poi prestare davvero fede a qualcosa. Si pensi, per esempio, alla incapacità, ammessa dallo stesso Monicelli, di comprendere il Sessantotto.

Tale dunque è il dato: la generazione chiamata a costruire l’Italia repubblicana è una generazione abituata a non credere ai grandi progetti. Lo disse ancora Monicelli: l’unico periodo in cui sembrò che tutto fosse possibile fu il biennio 1945-1947. Dopo di che, con le elezioni del 1948, basta.

Il libro di Marco Risi, ci tengo a dirlo, è un racconto, e non una narrazione. Nel gusto di oggi prevale infatti la seconda, ossia un flusso narrativo che non “chiude”, e senza chiudere, impedisce di costruire compiutamente il senso di ciò che dice. Marco Risi, invece, racconta: ovvero compie l’intero arco narrativo che il tema prescelto esige e consente (il titolo del libro, ancora, ne è la prova).

Di quale tema si tratta? Il rovescio dell’avventura di Telemaco, il figlio che parte e salpa alla ricerca del padre. Perché qui invece il padre sta, da subito. Può anche mancare, assentarsi per lavoro, comparire all’improvviso e poi fulmineamente sparire, ma non c’è dubbio che sia inutile mettersi alla sua ricerca, perché il padre, sempre e comunque, arriva. Scrive Marco Risi: “Proprio quando [papà] tornò dall’Argentina, qualche anno prima, fissò me e mio fratello, che eravamo ancora piccolini, e con un certo fastidio ci disse – Per colpa vostra ho rinunciato a trecentomila capi di bestiame!” (p.131).

La vita col padre è così un’esperienza a contatto con una figura che sta, ma sfugge: “Lo guardavo spesso, mio padre, senza farmi notare, per cercare di capire come fosse veramente e, soprattutto, quanto ci tenesse a noi. L’egoismo che mia madre gli rinfacciava mi aveva messo qualche dubbio. Dubbio che ancora oggi non ho risolto e che, in realtà, non mi interessa risolvere” (p.167).

Se per Telemaco la questione della presenza o assenza del Padre assume certo vitale importanza, qui la presenza/assenza del padre viene infine serenamente accettata: il “qui assente”, come amava dire Carmelo Bene di se stesso, è compreso e accolto senz’altro, perché in grado di tenere viva la fiamma del desiderio.

Desiderio del cinema, infatti, poiché Marco sarà regista come suo papà: “Nel film di Truffaut Effetto notte, due tipi della troupe del film nel film […] si chiedono cosa preferiscono, se la vita o il cinema. Uno è per la vita e l’altra per il cinema. Papà era decisamente per la vita, forse perché la viveva come un film […] Resta da capire se t’insegni più la vita o il cinema. Io ho imparato molte più cose dal cinema, ne sono convinto” (p. 232).

Qui si enuncia a puntino la differenza generazionale. Se il padre vive la vita come un film, allora il figlio, a specchio, vive un film come la vita. Questa è infatti l’eredità paterna. Vivere, pienamente, e nel disincanto. Il disincanto di fronte a ogni tipo di sogno, o grande progetto: il disincanto che sposta e fa convergere ogni possibile promessa dentro lo spazio assoluto della vita. Questo perché, in mancanza di grandi disegni, o progetti impossibili da mantenere, è la vita, non altro, il luogo dove soddisfare, e insieme bruciare, tutte le promesse possibili. Amare assolutamente la vita, goderla, compierla davvero fino in fondo alla faccia di tutte le interpretazioni, di cui la vita medesima non ha bisogno in quanto non esiste interpretazione migliore della vita stessa. Con tutte le contraddizioni, le infedeltà, i rimpianti, ma anche i piaceri, le gioie, le soddisfazioni.

La generazione degli anni’10/ ’20, di cui Dino Risi fa parte e ne ha condiviso la vita, attraversa quindi sia il progetto fallito del fascismo, che la speranza mancata della democrazia. Per dirla in altro modo, il passaggio dal vitalismo illusionista dannunziano, fino alla vitalità illusoria neorealista. Il cinema di Risi, Monicelli, Salce, Comencini, e anche Scola, è stato così il racconto compiuto di una stabile e insieme inafferrabile Vitalietta. Di cui il cinema della commedia del dopoguerra è risultato l’impareggiabile narratore. Fosse quindi la commedia italiana l’esatto risultato di questo paradossale passaggio, dal Superuomo vitalistico e estetizzante, allo Sfollato miserabile e vitale?

Che effetto fa, in ogni modo, la buffa e tenace Vitalietta, quando arriva dritta dritta fino ai figli, ossia alla generazione degli anni ’50? Scrive Marco Risi: “Boschivo ogni tanto si presentava a casa: – Come sa dottore, noi poeti stiamo attraversando un momento difficile… – E papà gli regalava dei soldi, delle scarpe, degli indumenti” (p.194). Italietta certo, ma vivace. Tanto che il figlio può riflettere: “Una volta, fino a neanche troppi anni fa, potevi capire se a quella faccia corrispondeva quel carattere […] Gli idraulici avevano facce da idraulici, i macellai da macellai e gli ingegneri da ingegneri. Oggi i macellai hanno facce da ingegneri e gli ingegneri da macellai. Siamo circondati da facce anonime, angeliche, che rubano, uccidono e soprattutto truffano. Sono in pochi ad avere la faccia che meritano” (p.96). Meglio ieri, forse? Certamente. “Appartengo a un altro mondo. Appartengo al mondo di mio padre, e la cosa mi strappa uno strano, formicolante entusiasmo” (p.180).

Marco Risi non lo scrive, ma è sottinteso. L’età delle facce tutte uguali è l’età del berlusconismo. Il viaggio si arricchisce di una stazione. Dal vitalismo dannunziano, alla vitalità neorealista, fino al vitalizio b
erlusconiano, ovvero la società della rendita permanente, del tutto come disponibile e dovuto, da ghermire e consumare all’istante. La Vitalietta evolve. Se la generazione dei Risi e Monicelli non ha creduto al Duce, poteva quindi dare retta al Cavaliere? “Questa è la critica che la generazione successiva di autori ha rivolto ai padri della commedia all’italiana: aver contribuito a rendere il Paese ancora più cialtrone di quanto già non fosse, incoraggiandone, in questo modo i difetti, le furbizie. Non glielo perdonarono. In Francia, c’era la Nouvelle Vague, da noi la commedia all’italiana” (p.205).

E’ così fu. Tra la vita e il cinema, noi, i ragazzi degli anni ’50, abbiamo scelto il cinema. E invece non andò così. Ciò che il libro di Marco Risi finalmente racconta, è che questo invece non era vero. Avevamo scelto la vita, noi, e non volevamo ammetterlo. Per conformismo e pigrizia. Tra Il sorpasso, la vita, e Il disprezzo (quello di Godard), il cinema, fingevamo di amare Il disprezzo e invece eravamo tutti con Il sorpasso, tanto che, per non dirlo a voce alta, siamo stati infine a nostra volta sorpassati, prima dal berlusconismo e poi chissà cos’altro.

Adesso questo libro tenero e appassionante di Marco Risi riesce a fare un po’ d’ordine: e ci conforta. Non è poco. Le pagine scorrono leggere e si leggono con attenzione. La leggerezza delle cose serie, ovvero una delle regole della “vita col padre”, quel padre, Dino, secondo cui nelle avversità mai abbandonarsi al solenne e al melodrammatico.

Non sarebbe infatti da Vitalietta.



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