IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Il secondo sesso’ di Simone de Beauvoir presentato da Alice Schwarzer

Alice Schwarzer

Contro ogni essenzialismo, Simone de Beauvoir ha sempre posto l’accento sul fatto che gli esseri umani – uomini e donne – sono principalmente esseri sociali e che dunque la costruzione degli stereotipi e dei ruoli di genere va indagata nel mondo della cultura (e delle culture), non in quello della natura. Capace di tenere testa alle varie critiche, si scaglia soprattutto contro quelle donne che, avendo introiettato quegli stereotipi e quei ruoli, non fanno che sostenere il patriarcato. Un saggio che ancora oggi – in tempi di imperante relativismo culturale – rappresenta un faro per i diritti delle donne.

«Donne non si nasce, lo si diventa»: è la frase chiave del saggio di Simone de Beauvoir Il secondo sesso, che da quando ha fatto la sua apparizione, alla fine degli anni Quaranta, fino a oggi ha raggiunto le donne di (quasi) tutto il mondo, influenzandone il pensiero, i sentimenti, le vite. Un successo che né i comunisti né il dittatore Franco, che lo vietarono, né il Vaticano, che lo mise all’Indice, sono riusciti ad arginare.

L’importanza del Secondo sesso è paragonabile a quella del Capitale di Marx. Quando, nel 1949, il testo viene pubblicato – de Beauvoir è già nota come autrice, filosofa e compagna di Sartre –grande è lo scandalo. Anticipazioni sui più importanti giornali e faide feroci nelle cerchie dei compagni: il quotidiano comunista Humanité strepita, nella redazione di Le Temps Modernes Camus, scagliando i due volumi attraverso la stanza, ruggisce: «Signora, lei mette in ridicolo l’uomo francese!».

Negli anni seguenti Il secondo sesso diventa un faro per le donne fino ad allora isolate nell’oscurità di una disperazione senza parole. Allora come oggi la carica esplosiva del libro, capace da un lato di influenzare le teorie e dall’altro di cambiare le vite, risiede senza dubbio nell’interazione fra parole e vita, e questo vale per tutta la produzione di de Beauvoir: saggi, memorie, romanzi. Mentre parla di sé, parla di tutte le donne.

Il secondo sesso diviene la Bibbia del movimento femminista che tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta si rimette in cammino, da New York a Francoforte. Non c’è testo pubblicato da allora in ambito femminista che non sia stato fortemente influenzato dall’analisi di de Beauvoir, fosse anche solo per criticarla.

Su alcune questioni, le nuove femministe vanno anche oltre de Beauvoir: per esempio nella capacità di riconoscere più a fondo il ruolo della violenza fisica o dell’eterosessualità forzata nell’oppressione delle donne. Eppure a settant’anni dalla sua prima pubblicazione, Il secondo sesso continua a imporsi alla riflessione, perché coglie il nucleo di ciò che costituisce il «destino delle donne», indicando la via per il suo superamento.

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Questo saggio rivoluzionario si situa tra due movimenti delle donne, quello che va fino alla prima guerra mondiale e quello degli anni Settanta, e si colloca nel solco della tradizione di femministe come Olympe de Gouges (1748-93), Mary Wollstonecraft (1759-97) e Virginia Woolf (1882-1941), alle quali de Beauvoir si richiama. Andando però oltre. La sua ampia dissertazione storica, sociale e culturale sulla condizione delle donne in un mondo dominato dagli uomini è il più radicale e visionario contributo all’emancipazione delle donne del XX secolo. Da lì in avanti de Beauvoir – fino ad allora conosciuta nei circoli progressisti come filosofa e romanziera – inizia a essere percepita innanzitutto come donna, il che – come noto – non rappresenta esattamente un vantaggio per una scrittrice. E la sua persona stessa assurge a vero e proprio scandalo pubblico. In un’intervista rilasciatami nel 1976 dichiara: «Allora mi seguiva come un’ombra una corposa reputazione di lesbica, perché è così: una donna che osa dire simili cose non può certo essere “normale…”».

Una reputazione che non viene scalfita neanche dal fatto che de Beauvoir, nel periodo in cui scrive e pubblica Il secondo sesso, oltre al rapporto di una vita con Sartre, ha un’appassionata relazione con Nelson Algren. De Beauvoir racconta che fu proprio Sartre a dare l’impulso decisivo alla stesura di quello che sarebbe poi diventato un testo centrale del XX secolo: «Lei non è stata educata come un maschio, perché non indaga più a fondo questo tema?».

Ed è quello che de Beauvoir fa. «È singolare e stimolante scoprire a quarant’anni un aspetto del mondo che prima non si era visto», scrive qualche anno dopo nelle sue Memorie a proposito dell’inizio di questo lavoro. Cosa che però non è completamente vera. Fin da ragazza infatti de Beauvoir ha una forte consapevolezza del suo essere donna, come dimostrano i diari pubblicati negli scorsi anni. Un aspetto che però per vent’anni, al fianco dei suoi «compagni», aveva messo da parte.

A proposito del suo metodo di lavoro, anni dopo in La forza delle cose dice: «Quando volevo scrivere di me mi accorgevo di non riuscire a descrivere la condizione della donna. Mi sono messa allora innanzitutto a studiare i miti creati dagli uomini, nella cosmologia della religione, nella superstizione, nell’ideologia, nella letteratura. […] In ognuno di essi, l’uomo compare come soggetto e tratta la donna come oggetto, come “l’altro”. […] Studiando la storia ho dedotto alcune riflessioni che non avevo ancora incontrato da nessuna parte: ho iniziato a collegare la storia delle donne con il diritto ereditario, perché quella mi pareva una diretta conseguenza dello sviluppo economico del mondo degli uomini. Ho tentato di descrivere la sua formazione dall’infanzia fino alla vecchiaia. Ho indagato le possibilità che questo mondo offre alle donne e quelle che sono loro precluse, i loro limiti, le loro fortune e sfortune, i loro pretesti, le loro opere. Così è arrivato il secondo volume: “L’esperienza vissuta! Per questo lavoro ho impiegato solo due anni».

In realtà il lavoro è concluso già nel giro di un anno, e con che impeto! E altrettanto impetuose sono le reazioni. «Uno dei fraintendimenti che il mio libro ha provocato», dichiarerà de Beauvoir, «è l’idea che io non riconosca la differenza fra uomo e donna. Al contrario! Man mano che scrivevo mi era sempre più chiaro cosa divide i generi. Dico solo che queste differenze non sono naturali ma legate alla cultura».

Non è infatti un caso che Il secondo sesso prenda avvio dalla biologia, livello al quale ci si vuole sempre ricondurre. De Beauvoir è preparata su cromosomi, ovaie e testicoli. Quello che vuole dimostrare però – e che ancora oggi ci tocca continuare ad affermare – è che non si può far discendere l’«istinto materno» dall’utero. E dopo questo prologo biologico, giunge alla conclusione politica che «tutte queste considerazioni che connettono un vago naturalismo con una ancora più vaga etica o estetica sono chiacchiere». Parole d’oro, da incidere nel diario di tutti i biologisti…

In «L’esperienza vissuta» l’autrice muove dal particolare al generale. Inauditi tabù per il suo tempo, parla di sessualità e maternità, la quale per de Beauvoir non è affatto un «atto creatore» ma un «processo fisico». Nell’ultima parte, «Giustificazioni», si scaglia con veemenza contro il sostegno che le donne stesse, attraverso l’identificazione con la sottomissione e il dolore (in altre parole: il masochismo femminile), forniscono al patriarcato. Il capitolo conclusivo, «La donna indipendente», è un’entusiasmante e brillante visione dell’uguaglianza e della solidarietà fra i generi.

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Un quarto di secolo dopo la sua pubblicazione, la ricezione del Secondo sesso diventa controversa anche fra le femministe. All’inizio si registra
un ampio consenso su queste analisi e su questi scritti polemici singolari, pioneristici, che torreggiano su tutto il resto e il testo viene accolto dal nuovo movimento delle donne come un faro e un invito all’azione.

Molto presto però iniziano a manifestarsi divergenze fra le varie correnti del femminismo: dalle femministe dell’uguaglianza/universaliste alle femministe della differenza/relativiste culturali. Queste ultime iniziano già alla metà degli anni Settanta a criticare aspramente de Beauvoir in svariate occasioni, incluse le interviste rilasciatemi fra il 1972 e il 1982. In una delle quali, realizzata nel 1976, de Beauvoir – in reazione a una rinnovata mistificazione della «nuova femminilità» – chiarisce in maniera rigorosa: «L’eterno femminile è una menzogna perché nello sviluppo degli esseri umani la natura gioca un ruolo molto limitato. Noi siamo esseri sociali».

Appena il tempo che il differenzialismo passi di moda che ecco spuntare, siamo alla fine degli anni Ottanta, i sostenitori delle teorie queer che accusano de Beauvoir dell’esatto contrario, ossia di «determinismo biologico». Per relativisti culturali e «intersezionalisti» l’universalismo è fuori tempo, anzi: è il più grande nemico.


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Certamente la via che conduce dall’uscita dalla femminilità verso il centro del mondo è irta di ostacoli per le donne: il potere della contro-propaganda, la durezza della realtà, la profondità degli abissi interiori sono lì pronti a farle spaventare, inciampare, cadere. Che però, con la diffusione di una nuova illusoria femminilità e del mito della maternità, siano proprio una certa sinistra e alcune femministe a diventare vere e proprie colonne del patriarcato è più che un fallimento: è un tradimento. E certamente costoro non sono legittimate a richiamarsi a Simone de Beauvoir, la quale nel Secondo sesso ha scritto senza mezzi termini: «Le dottrine che sostengono che il potere della donna sia nel corpo, nella vita, nell’immanenza, nell’essere “l’altro”, sono dottrine maschili nelle quali le esigenze delle donne non si manifestano in nessun modo. La maggior parte delle donne semplicemente si arrende al proprio destino senza neanche provare ad agire. Coloro che hanno voluto invece cambiare qualcosa non hanno mostrato l’intenzione di difendere e rafforzare la loro particolarità, ma di superarla».

Il coraggio e la responsabilità necessarie per un tale superamento la filosofa esistenzialista se li aspetta da tutti gli esseri umani, donne incluse. Anche per loro vale la filosofia del «nonostante tutto»: la dignità dell’essere umano anche in condizioni indegne, la volontà di libertà anche nell’oppressione.

In tempi in cui in nome dei «costumi», delle «culture», delle «religioni» altrui viene promossa – cosa che de Beauvoir non avrebbe neanche potuto concepire – una nuova forma di segregazione e di disparità di genere, spacciata addirittura (e qui si raggiunge l’apice dell’ironia) come «femminismo», la sua vita, il suo pensiero e la sua opera continuano a essere preziosi. Anzi indispensabili.

(traduzione di Cinzia Sciuto)

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