Il senso della legalità ed il ruolo del giudice

Domenico Gallo

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Ha ragione Maria Rosaria quando, nel primo capitolo della sua relazione, parla di una storia interrotta, riferendosi al percorso della democrazia italiana che in pochi mesi ha cambiato volto.
In realtà la malattia dello spirito pubblico, che imperversa in questa fase storica, viene da lontano e ne abbiamo avuto delle avvisaglie circa 10 anni fa. Anche allora lo stesso partito, che oggi detta legge, promosse una legislazione persecutoria nei confronti dei migranti; alimentò il diritto penale del nemico; favorì l’esplosione di provvedimenti amministrativi discriminatori da parte delle amministrazioni locali ed instaurò pratiche illegali di contrasto all’immigrazione che veniva dal mare. Non abbiamo dimenticato la c.d. “aggravante di clandestinità” che la Corte Costituzionale ha cancellato (con la sentenza n. 249/2010), né il divieto di matrimoni misti fra cittadini italiani e stranieri non dotati di permesso di soggiorno, che la stessa Corte ha espunto dall’ordinamento giuridico con la sentenza n.245 del 25 luglio 2011. Parimenti non abbiamo dimenticato il “nuovo modello di contrasto all’immigrazione” introdotto dal Ministro Maroni, che impegnava le navi militari italiane a catturare i profughi in alto mare e a riconsegnarli nelle mani della Gestapo di Gheddafi, pratica che è cessata soltanto nel 2012 in virtù di una durissima condanna della CEDU (nel caso Hirshi ed altri contro Italia). Allo stesso modo non ci siamo dimenticati delle discriminazioni dei bambini nella scuola di Adro nel 2010, replicate nel 2018 dal Comune di Lodi fino a quando nel dicembre del 2018 non è intervenuto un provvedimento del Tribunale di Milano.
È tristemente vero che adesso stiamo vivendo un vero e proprio salto di qualità, che ci sta facendo planare su un territorio estraneo alle nostre tradizioni costituzionali in cui è messo in discussione il volto stesso dalla Repubblica e la natura della legalità.
Mi ha fatto molto riflettere la sfida del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che il 2 gennaio ha contestato alcuni effetti perversi del c.d. decreto sicurezza.
"Ho dato disposizione formale agli uffici comunali di servizio al cittadino di sospendere il decreto perché non posso essere complice di una violazione palese di diritti umani (..) In un quadro di riferimento che alimenta, col contribuito di questo governo, l’odio verso i diversi – ha detto Leoluca Orlando -, il decreto 132/2018 costituisce un esempio di provvedimento disumano e criminogeno.” Questa posizione, che ha il significato di una testimonianza, fa emergere il marcio di una legislazione fondata sul disprezzo dei diritti umani. A fronte della contestazione di Orlando, il Ministro dell’Interno ha alzato l’usbergo della legalità, osservando che il decreto emanato dal suo Governo è stato approvato dal Parlamento e promulgato dal Presidente della Repubblica e quindi è una legge perfettamente legale, come del resto erano perfettamente legali le leggi razziali del 1938.
A questo punto si apre una contraddizione sulla quale siamo chiamati a riflettere e che ci riguarda direttamente, perché investe la dimensione di senso della nostra funzione di magistrati.
Possono avere cittadinanza nell’ordinamento giuridico provvedimenti legislativi o condotte amministrative disumane? Un provvedimento che incide su diritti fondamentali di determinate categorie di persone, come il divieto di sbarco dei naufraghi recuperati in alto mare, o peggio ancora il divieto di attivare operazioni di soccorso mascherato dietro la finzione della SAR libica; la persecuzione della navi umanitarie che svolgono quelle funzioni pubbliche che gli Stati non vogliono più compiere; le norme discriminatorie che tendono a rendere deteriore la condizione umana di centinaia o migliaia di persone, possono integrare la legalità in un ordinamento fondato sulla Costituzione e sulla Carte internazionali dei diritti umani?
La legalità nel nostro paese è frutto di un processo storico che trae il suo fondamento dalla svolta operata nel 1945, quando l’umanità, uscita stremata dalle tragedie delle due guerre mondiali, ha operato una netta discontinuità con il passato, rovesciando i postulati che avevano caratterizzato il fascismo ed il nazismo.
Con la Carta delle Nazioni Unite, unitamente alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e alle Costituzioni democratiche è stata innestata in modo inscindibile nell’ordinamento giuridico una tavola di valori universali, posta a fondamento della legittimità degli Stati e della convivenza pacifica all’interno degli Stati e fra le Nazioni.
Attraverso questi grandi eventi costitutivi dell’ordine giuridico nazionale e internazionale è stata superata – almeno in linea di principio – la contraddizione che c’è sempre stata fra il diritto e la giustizia.
La tensione fra il diritto e la giustizia risale all’origine della nostra civilizzazione ed è stata mirabilmente espressa da Sofocle nel mito di Antigone. Antigone infrange la legge del tiranno di Tebe, Creonte, e dà sepoltura al fratello caduto in battaglia, in nome di una legge superiore, iscritta nella natura dell’essere umano. Sofocle dice che ella compie un «santo crimine»: crimine rispetto alla legge, santo rispetto alla giustizia che esprime. Il conflitto fra Antigone e Creonte rappresenta il dilemma sempre ricorrente fra le leggi non scritte dell’umanità (agrafoi nomoi) e le dure leggi del potere, fra la “pietas” e l’”auctoritas”.
Dopo il 1945 questo conflitto è stato risolto: nel nuovo ordinamento giuridico, fondato sulla Dichiarazione universale dei diritti umani, la giustizia incorpora il diritto e quindi la legalità incorpora la giustizia. Per questo dal 1945 non è più concepibile un diritto ontologicamente ingiusto e non è più possibile che la legalità sia completamente avulsa dalla giustizia. La legalità è stata incardinata in un sistema di valori che sovrastano il comando politico da cui scaturisce la legge. Se prima del 1945 il tenore della legalità dipendeva dalla legge, dopo il 1945, anzi dopo il 1948, è la legge (e quindi anche i provvedimenti e le condotte amministrative) che dipende dalla legalità, per cui il rispetto delle procedure costituzionali è una condizione minima ma non sufficiente per trasformare in legge il comando politico: la legge stessa può diventare illegale se il comando politico da cui è stata generata si pone in contrasto con i canoni della legalità. Nel nostro ordinamento è attraverso la Costituzione, che è perfettamente coerente con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che la legalità ha cambiato pelle. La Costituzione è il canale attraverso il quale la giustizia è penetrata nell’ordinamento giuridico ed è stata realizzata quella saldatura fra giustizia e diritto che ha cambiato il volto della legalità.
Questa saldatura fra diritto è giustizia è sempre stata problematica ed è sempre stata oggetto di insidie ed attacchi. Però nel percorso storico della Repubblica questo legame non si è mai spezzato del tutto, anzi è stato spesso agito come un dover essere che ha portato a recuperare momenti di sbandamento e ad uno sviluppo positivo dei diritti e delle libertà.
Oggi siamo entrati in una fase nuova perché il decisore politico rivendica l’esercizio dell’”auctoritas”, completamente avulso dalla “pietas” (il problema non riguarda solo i migranti ma tutti gli ambiti della vita civile) e in ciò non solo non viene ostacolato dalla opposizione politica ma – addirittura – ne viene incoraggiato.
Oggi più che mai è diventato d’attualità il conflitto intorno alla natura della legalità. Quelli che sono messi in discussione sono i fondamenti di legittimità dell’ordinamento giuridico. E il quadro internazionale oscuro non aiuta a mantenere ferme le conquiste di civiltà giuridica maturate con la Resistenza.
L’oggetto di questo conflitto è il tentativo di scardinare dall’ordinamento giuridico la tavola di valori ad esso inscindibilmente connessa, in tal modo mutando la natura del diritto (e della legalità), separandolo dalla giustizia e restituendolo alla dimensione del mero comando politico reso obbligatorio dall’esercizio della sovranità.
Questo processo di immutazione della legalità si atteggia diversamente a seconda delle procedure e dei vincoli che incontra: è minore nella produzione legislativa perché costretto dalla necessità di aggirare le censure della Corte costituzionale; è maggiore nelle condotte operative, adottate non con provvedimenti amministrativi, in qualche modo impugnabili, ma con i tweet, come dimostra la vicenda dei 177 migranti sequestrati per una settimana a bordo della nave Diciotti, o gli impedimenti frapposti allo sbarco dei naufraghi recuperati dalle navi umanitarie, senza che esista alcun provvedimento amministrativo di chiusura dei porti.
Sottoporre ad una consultazione popolare fra gli iscritti ad un partito se sia lecito o meno per il decisore politico porre in essere una condotta offensiva di diritti fondamentali di 177 persone è un’operazione volta a consolidare questa legalità illegale, facendola accettare all’opinione pubblica.
Il tema della legalità chiama in causa il ruolo del giudice e interpella il significato profondo della giurisdizione, poiché non può essere revocato in dubbio che la tutela, la conservazione e la restaurazione della legalità sia la ragion d’essere dell’esercizio della funzione giudiziaria. Ed io aggiungo che l’onore del giudice è quello di riparare i torti e restituire i diritti a coloro che ne sono stati privati.
Allora la domanda è: quale legalità?
Su questo punto dobbiamo essere netti: c’è una sola legalità, quella che ci è stata consegnata dalla Resistenza, nella quale la “pietas” e l’”auctoritas” non possono essere separate. Questa è la stella polare che deve orientare l’esercizio del potere giudiziario da parte di ogni singolo magistrato.
È evidente che, se si prende sul serio la legalità costituzionale, si crea un corto circuito con gli alfieri della legalità avaloriale, sia nel campo politico che in quello dei media, che può far scattare un meccanismo di autocensura in quei colleghi che temono di esercitare un ruolo politico.
Senonchè questo ruolo politico non è nient’altro che il ruolo del giudice, che per sua natura è strumento di garanzia della legalità costituzionale. Se un ordinamento politico tende ad effettuare una svolta autoritaria, l’unica vera opposizione è l’esercizio indipendente della giurisdizione. Per questo in Turchia la prima misura che ha adottato Erdogan per realizzare il suo progetto autocratico è stato quello di colpire la giurisdizione, incarcerando e destituendo migliaia di giudici.
Purtroppo noi dobbiamo constatare che questa nuova concezione della legalità avaloriale è penetrata anche nel fortino della magistratura. Quando si sequestrano le navi della ONG con l’incolpazione di violenza privata per aver costretto l’autorità politica a subire lo sbarco dei naufraghi recuperati in mezzo al mare; oppure di aver svolto il ruolo degli untori di manzoniana memoria per aver diffuso la peste portata dai vestiti dell’immigrato; oppure si chiede l’archiviazione di comportamenti illegali considerandoli scriminati dall’esercizio del potere politico si diventa strumenti di questa politica e fattori di immutazione della legalità. Così si demolisce lo Stato di diritto e si apre la strada ad una svolta autoritaria che non si può realizzare se i giudici si manterranno fedeli al proprio ruolo.
Quando noi denunciamo il pericolo di un regime che avanza, nel deserto delle forze politiche democratiche, quello che fa la differenza e che può impedire una trasformazione definitiva è proprio la giurisdizione.
E’ diventata, pertanto, di nuovo attuale la lezione di un maestro "carismatico" del diritto, Domenico Barbero, che, nell’introduzione del suo testo di diritto privato, non si stancava di denunciare i guasti di una interpretazione pedestre della legge, che aveva ridotto la Giurisprudenza dalla maestà di "divinarum atque humanarum rerum notizia" ad una "meccanica esercitazione di codice".
Questo metodo – ammoniva Barbero – "ha prodotto l’ambiente e le condizioni tecniche ideali per fa dittatura fascista. Che non sarebbe forse passata con una giurisprudenza più cosciente e, pertanto, più gelosa della sua superiorità della sua funzione; e che potrebbe anche ripresentarsi se la giurisprudenza non si affretta a prendere coscienza di codesta superiorità, a rifarsi un abito mentale che ripristini la ragione, dovunque sia bandita… fosse anche dalla legge, e a considerare sé stessa non come fucina di sentenze ottenute meccanicamente attraverso l’introduzione di un articolo di legge, ma fattrice di giustizia indagata e, se occorre, faticosamente rintracciata al vaglio di tutti gli elementi di ragione, chiudendo anche arditamente la porta di fronte a chiunque pretenda di entrare nel suo stesso tempio a portarvi la profanazione con lo stivale speronato o con la faccia infarinata."
Noi dobbiamo lavorare insieme perché la giurisprudenza, come richiedeva Barbero, riacquisti la maestà di "divinarum atque humanarum rerum notizia", in modo che non si possano più ripresentare l’ambiente e le condizioni tecniche ideali per l’instaurazione di una dittatura dì vecchio o di nuovo tipo.
* testo dell’intervento di Domenico Gallo al congresso di Magistratura democratica.
 
(4 marzo 2019)






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