Il sogno macabro di Lars Von Trier

Stefano Jorio

La casa di Jack, il film di Lars Von Trier in uscita in questi giorni in Italia, sta suscitando nell’Occidente globalizzato uno scandalo circospetto, come se critica e pubblico non capissero fino in fondo le ragioni del proprio rancore. La cosa è dovuta in parte allo stesso film, che come già alcuni dei precedenti è un’opera narrativamente anomala, composta per accumulazione di immagini eterogenee. L’immagine finale è ambigua come in un puzzle dalle tessere difettose, ha la violenza di un brutto sogno che non si lascia illuminare dalla ragione. Una prima cosa va detta a suo elogio: nel rigoglio perverso dell’industria culturale, dissociata e anaffettiva al punto da intendere come un efficace fattore di intrattenimento il genocidio degli ebrei, La casa di Jack è così disturbante e poco affabile, così sinceramente sadico, che molti spettatori lasciano la sala prima della fine.

Il film racconta per quadri, alla maniera di Lars Von Trier, gli omicidi di un serial killer. Narratore è lo stesso assassino che dialogando fuori campo con una seconda voce maschile – caratterizzata da una lungimirante indulgenza verso ogni efferatezza umana – percorre come in una confessione le tappe della sua macabra carriera. Quadro dopo quadro Jack si racconta come un assassino incapace di sentirsi in colpa ma dominato dal bisogno compulsivo di farsi individuare e arrestare; come un ingegnere frustrato, sedotto dal sogno artistico di essere un architetto e tormentato ciclicamente da quella sequenza di brama, adempimento e benessere che il sapere scientifico ascrive ai comportamenti compulsivi. Da bambino Jack mutilava gli animali; da adulto, appreso per caso il proprio desiderio di uccidere l’animale parlante, commette anno dopo anno una serie di omicidi crescente per perizia dell’assassino e numero delle vittime. Il film si sofferma sui dettagli delle esecuzioni e potrebbe essere inteso in questo senso come un tentativo riuscito di sottrarre la rappresentazione dell’atrocità allo stereotipo: perché è raccapricciante nella sua disinvolta equiparazione delle vittime ad animali. Al punto che alcuni spettatori, abituati dall’industria dell’intrattenimento ad eccessi narrativi sempre e solo stereotipici, vengono presi dallo sgomento e ridono: non riescono a catalogare altrimenti che nel comico quegli assassinii lunghi e burocratici, privi di “tensione” e di necessità narrativa.

Jack è un uomo di intelligenza media, pacato e poco appariscente; non è braccato dagli investigatori (la polizia in questo film è praticamente assente). Le sue vittime vengono uccise senza preghiera, senza gloria, come animali nei mattatoi o a una battuta di caccia: e come gli animali vengono fotografate in pose tenere o divertenti, vengono ibernate e museificate in una grande cella-frigorifero. Vengono rese sentimentalmente utili per uno spettatore. Rispetto a questa disadorna centralità della morte e dell’uccidere, rispetto a questo sobrio impiego utilitaristico dei morti da parte di un assassino che a differenza dei serial killer di largo consumo non è un intelligentissimo squilibrato dalla “psiche” tortuosa, la sommaria caratterizzazione di Jack secondo gli assunti della psicoanalisi (la ferita lasciata dai genitori, il narcisismo, le esperienze infantili) sembra quasi il ricorso a un luogo comune per sbrigare un’incombenza narrativa che al regista interessa poco.

Quello che gli interessa – lo sta facendo da anni – è mettere in scena la tortura e la morte orrenda svincolandole dall’imperativo dell’intrattenere e consolare. Per questo disturba segretamente il pubblico dell’Occidente globalizzato: l’Occidente che dalla fine della guerra fredda, demilitarizzati i confini interni, protegge la propria supremazia internazionale con un apparato militare in stato di guerra permanente e la giustifica a se stesso con il discorso dei “diritti umani”, primo tra tutti la vita (la retorica delle vite da salvare è un motivo costante della propaganda di guerra degli ultimi venti anni). Al pubblico di questo Occidente globalizzato che costruisce campi di concentramento e produce il discorso dell’infanzia offesa, promuove il conflitto globale e formula un’entusiasta dichiarazione di panumanismo, Lars Von Trier offre la condotta di un uomo che uccide alacremente e impunemente. A una civiltà che ha fatto della morte un tabù e non sa produrre in relazione ad essa altra pratica che quella del vouyerismo (si pensi alla foto del cadavere del bambino siriano sulla spiaggia che nel settembre 2015 i motori di ricerca misero a disposizione del mondo), La casa di Jack mostra un bambino mutilato, morto, messo in posa da Jack a beneficio sentimentale di se stesso. E il pubblico è sgomento, poi ride, poi scappa: perché nello spazio culturale di Abu Ghraib e del campo di Lesbos l’orrore è lecito soltanto come pretesto per l’intrattenimento, come avviene nei film di genere, o per una trama ben congegnata come avviene nelle saghe storiche sul nazismo. Il commercio ordinario con la morte, per millenni così umano, in Occidente è gesto osceno, rimosso: per questo la morte anonima somministrata dal drone è il simbolo delle guerre del ventunesimo secolo, per questo i terroristi suicidi (come notò Jean Baudrillard all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle) sconfiggono l’Occidente portando la sfida sul terreno proibito. La casa di Jack porta sul terreno proibito i suoi spettatori.

In questi anni soltanto un altro regista, Michael Haneke, sta indagando il tema del dare la morte con diversa pietà ma simile violenza, tanto che a entrambi vengono mosse accuse di sadismo probabilmente fondate. Mentre però Haneke inscena omicidi sacrificali, così densamente significanti da creare un legame intimo e quasi una complicità tra la vittima e l’assassino, Lars Von Trier non arriva a toccare il registro del tragico. Al contrario: togliendo sistematicamente alle sue vittime la “dignità umana”, sottraendo all’animale parlante il nome e la lingua («Tu qui ti chiamerai Fido», dice alla protagonista di Nymphomaniac il sadico che la percuote), Lars Von Trier arriva ad essere intenzionalmente comico quando mostra Jack come assassino ai primi passi, goffo e inesperto, oppure soggetto a piccole nevrosi compulsive. Commercia anche lui con quel tabù (con quel rimosso) che gli assassini di Haneke sembrano voler evocare schierandosi per un istante – senza retorica dei diritti umani – dalla parte del male: ma anziché uccidere per evocare il sacro, Von Trier uccide e tortura per derubricare l’omicidio e farne un atto di soppressione insieme accurato e disinvolto. Non è un caso che nel raccontare la storia di Jack alluda più volte al nazismo.

Di morte come tabù occidentale nato tra il XVIII e il XIX secolo parlò Michel Foucault (nella Volontà di sapere e in un corso tenuto nel 1976 al Collège de France) mettendolo in relazione con l’avvento di quanto chiamò bio-potere: la presa in carico della popolazione in quanto organismo biologico e specie da parte dello Stato. Se il vecchio potere sovrano trovava nella condanna a morte e nella sua esecuzione in pubblico il vertice e il simbolo supremo del proprio esercizio, il bio-potere promuove e amministra la vita dell’organismo-popolazione per mezzo della demografia, dell’igiene pubblica e della medicina. Nell&rsq
uo;èra del bio-potere la morte diventa di conseguenza «la cosa più privata e la cosa più vergognosa», e somministrare la morte di massa – rovesciare il bio-potere in tanato-potere – sarà ormai possibile solo nel quadro di un razzismo di Stato che appellandosi scientificamente alla necessità di preservare l’integrità biologica della popolazione autorizzerà prima i genocidi coloniali e poi quello degli ebrei.

Da decenni ormai stiamo assistendo al tramonto dello Stato nazionale, l’unità politico-territoriale alla quale Foucault riferì tutta la propria ricerca: ma viviamo ancora oggi, da ogni punto di vista, nell’èra del bio-potere. Siamo una società che si è dotata di banche dello sperma e sperimenta il genome editing, che attribuisce al sesso un alto valore morale-cognitivo e applica tecnologie di rianimazione che hanno creato una terza zona tra la morte e la vita. Nel quadro di una generale messa in sicurezza della popolazione i governi registrano le impronte digitali sul documento di identità e invitano a firmare la liberatoria per il trapianto di organi. La retorica della vita dilaga nel marketing, nell’industria culturale, nella propaganda di guerra e nell’ingegneria sociale (il libro Nudge, che ha valso a Richard Thaler il premio Nobel 2017 per l’economia, auspica la manipolazione subliminale dei cittadini «per rendere le loro vite più lunghe, più sane, migliori»). In questo contesto, un film come La casa di Jack – che non soltanto capovolge l’imperativo vitale in imperativo di morte e il tabù in ostentazione, ma racconta l’omicidio e la morte come eventi privati, dei quali farsi carico personalmente – crea imbarazzo e sgomento. La sua lingua, incoerente come quella di chi si sveglia da un incubo, restituisce all’incubo quanto l’Occidente pratica e l’industria culturale narcotizza in una rassicurante fantasticheria: la morte, la tortura, la degradazione dell’umano.

È vero: alla ricerca di una spiegazione e quasi di una giustificazione morale per il suo personaggio, Von Trier finisce per accumulare intorno alla figura di Jack logore suggestioni decadentiste e luoghi comuni della morale anticristiana. Propone la lettura psicoanalitica e subito la vanifica celebrando l’istinto di morte della tigre. Sovrappone elementi presi a caso, come se volesse abilitare l’omicidio dal punto di vista etico. Fa paragoni con il nazismo ed elogia l’architettura monumentale di Speer, si dilunga in una similitudine tra omicidio e arte (personificata in Glenn Gould la cui ossessiva esecuzione della Partita n. 2 in do minore, in un vecchio video, accompagna tutto il film). Ma a prezzo dei suoi fraintendimenti consegna alla civiltà della morte pulita, anonima e tecnologica, che uccide e sogna di proteggere la vita, che celebra i “diritti umani” e abbandona alla morte porzioni crescenti della popolazione extra-occidentale, una morte sinistra, manuale e sporca. Mostra un assassino che non sopprime la vita per razzismo, o per ferocia, o per follia: ma perché l’ha riclassificata in senso utilitarista. Per lui la vita è più sensata da morta, come scoprirà quando con i cadaveri ibernati costruirà la casa vanamente progettata per anni.
(20 febbraio 2019)






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