Il taglio dei parlamentari aggrava la crisi della rappresentanza e della politica

Alessandro Somma


È noto che la rappresentanza è in crisi, e che lo è da tempo e in modo drammatico. Altrettanto note sono le cause della crisi, che innanzitutto riguardano la qualità dei rappresentanti, sempre meno preparati e sempre più inclini a tenere comportamenti di interesse per la magistratura. Gioca un ruolo fondamentale anche la delegittimazione del Parlamento, il cui ruolo viene mortificato dagli esecutivi, i quali l’hanno di fatto trasformato in un’assemblea votata soprattutto a ratificare le loro scelte.
E che dire della crescente cessione di sovranità al livello europeo, non accompagnata da un potenziamento delle istituzioni democratiche sovranazionali. Risiede in questo meccanismo, per cui gli esecutivi sviliscono il parlamento ma sono a loro volta sviliti da istanze collocate sopra la loro testa, il riscontro forse più crudo della crisi della rappresentanza, così come il suo risvolto più preoccupante: la sparizione di ogni cinghia di trasmissione tra il conflitto sociale e la scelta politica.
La crisi della rappresentanza è insomma la diretta conseguenza di un’altra drammatica crisi: la crisi della politica, vittima dell’invadenza dell’economia. Dopo anni in cui si è ripetuto che i difetti del mercato sono in verità difetti dello Stato, che il primo premia gli efficienti mentre il secondo alimenta la corruzione, non c’è da stupirsi se la rappresentanza è caduta in disgrazia. Se non si chiede più alla politica di compiere e tenere insieme scelte articolate in vista del bene comune, bensì solo di risolvere problemi in modo rapido.
Ecco allora il fiorire del cesarismo, la situazione in cui il leader sviluppa un rapporto diretto con il suo popolo e non ha dunque bisogno di mediazioni. Ecco la disintermediazione, lo svilimento dei corpi intermedi e la credenza secondo cui tutto possa essere deciso attraverso meccanismo plebiscitari mediati dalla rete.
Questo clima ha già prodotto pesanti riduzioni degli spazi affidati alla scelta democratica: ad esempio l’abolizione non tanto delle provincie, quanto dell’elezione diretta dei consiglieri provinciali. Spazi prima o poi riempiti da tecnocrati, celebrati come la panacea dei mali prodotti dai politici, o dal mercato in quanto luogo della decisione efficiente.
In questo clima piomba il referendum sul taglio dei parlamentari, a cui veniamo invitati a votare sì da un articolato campo di forze raccolte attorno a poche idee oltre il limite della decenza.
È indecente dire, come fa il Pd, che occorre votare sì per onorare il patto di maggioranza con i Cinque stelle: non si manomette la Costituzione per ragioni politiche contingenti, nobili o meno nobili che siano. E soprattutto non si indora la pillola affermando che una nuova legge elettorale proporzionale limiterà i danni, tanto meno se la sua approvazione è al momento nulla più di un pio desiderio.
Indecente è anche la posizione dei Cinque stelle, che ne fanno semplicemente una questione di risparmio di spesa, peraltro irrisorio: perché allora non dimezzare il parlamento? Perché non sostituirlo con un’assemblea di rappresentanti delle forze politiche cui attribuire il peso corrispondente alla percentuale di voti ottenuti, come se fosse l’assemblea di azionisti di una società?
E che dire dell’affermazione che solo una percentuale di parlamentari lavora davvero, motivo per cui tagliandoli non succede nulla: chi garantisce che poi non si taglino quelli che lavorano? Magari perché non obbediscono al leader della loro forza politica, a cui devono la presenza in parlamento se la legge elettorale prevedrà ancora liste bloccate?
Insomma, se al referendum sul taglio dei parlamentari prevarranno i sì, avremo un parlamento meno rappresentativo, con un rapporto tra elettori ed eletti tra i più bassi. E non avremo risolto il problema della crisi della rappresentanza e della politica: avremo anzi fornito l’alibi per non affrontarle, e dunque per aggravarle.

(18 settembre 2020)







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