Il tempo-immagine di Toti Scialoja
Che rapporto c’è tra la morbidezza, la raffinatezza così vellutata di un poeta che si diverte tenacemente col nonsenso in funzione di amabili terrorismi puerili e di riossigenazione del linguaggio, e un pittore passato dalla scuola romana all’astrattismo, all’informale e al geometrismo corporeo? Che mistero c’è sotto?
Ponendosi questo interrogativo, Cesare Garboli definiva con sintesi precisa e mirabile il profilo artistico di Toti Scialoja (1914-1998). Un Giano bifronte, un artista anfibio dal doppio talento, proiettato con saturnina indisciplina sul versante del linguaggio, da lui rovesciato come lenzuola al vento fino a far perdere il senso consueto delle parole e farle regredire a un’inquietante verginità, e su quello dell’immagine, generata dal gesto che trasferisce su supporto fisico la traccia di un movimento magmatico altrimenti irreversibile come il fluire del tempo.
A questo interrogativo tenta di dare risposta il volume a cura di Eloisa Morra, edito da Carocci, con i contributi della stessa Morra, di Elena Carletti, Chiara Mari, Valeria Eufemia, Laura Lucia Rossi e Federico Francucci, intitolato Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte. “Paesaggi di parole”, tali considerava il loro stesso autore quei nonsense illustrati degli anni Settanta, disposti sul binario inscindibile di ascolto e visualizzazione, “che liberano il bambino dalla soggezione del linguaggio e dentro i quali essi entrano ed escono con felicità e naturalezza” (sic). Toti Scialoja pittore, scenografo, illustratore, poeta, corsaro della parola. Diversi sono stati negli ultimi anni gli attestati di riconoscimento nei confronti di questa figura così originale e allo stesso tempo emblematica di certe tendenze laterali e disubbidienti che sono, retrospettivamente, uno dei portati creativi più interessanti dello scorso secolo. Da ricordare, almeno 100 Scialoja. Azione e pensiero, la mostra ospitata nel 2014 dal MACRO allora diretto da Federica Pirani; sempre del 2014 è la biografia intellettuale di Scialoja pubblicata da Morra per Quodlibet, ricostruita attraverso scritti inediti, lettere, documenti editoriali e fotografie: il bellissimo titolo, Un allegro fischiettare nelle tenebre, cita le parole con cui lo stesso Scialoja descriveva, nella lettera a un suo amico in occasione dell’uscita delle poesie di Ghiro ghiro tonto (1976), la particolare temperatura emotiva della sua ispirazione.
Caro Nico […] ti racconto –ma solo a te, devi mantenere il segreto- che questi versetti del Ghiro mi sono venuti in soccorso e mi hanno fatto compagnia in un periodo orribile della mia esistenza (non ancora superato o forse mai più superabile). Questi ultimi due anni sono stati i più insostenibili che mi sia toccato attraversare. Scusami ma avevo viglia di dirtelo. E mi ha fatto bene dirtelo. Ora che lo sai puoi guardare, per un momento, questi versetti in controluce, e se ci scopri la filigrana di un delirio minimo o ilare –un fischiettare nelle tenebre- pensa a me, proprio a me con amicizia.
Entriamo, con questa confessione, nella dimensione malinconica dell’animo di Scialoja, perché tra le circostanziate indagini sui diversi aspetti e momenti della sua produzione intraprese dagli autori del volume, forse è proprio nel soffermarsi in questa piega psicologica e morale che ci viene offerta, in successive, folgoranti illuminazioni, una risposta all’interrogativo posto all’inizio. Quella malinconia, il senso doloroso dello scorrere del tempo –apprendiamo di essere vivi perché lentamente moriamo, nel fascio transeunte e mutevole dei nostri affetti e accidenti- si ritrova nelle ragioni del linguaggio visivo di questo artista che, alla fine della sua vita, scrisse: “La vita è sempre stata una incomprensibile negazione, per me; tanto più lo è ora che sono vecchio. Ci si può difendere con un sortilegio, con un miracolo di assidue assurdità, di evanescenze. La pittura è un modo per esorcizzare questa orribile corsa alla distruzione, alla cancellazione”. Esorcizzare la distruzione con la pittura.
Facciamo un passo indietro. Non mancano gli autori italiani che si sono dedicati alla scrittura e alla pittura: basti pensare a Carlo Levi, Alberto Savinio, Emilio Tadini. Interessanti e fecondi sono gli studi sul rapporto tra arte e pittura: tra questi si segnalano i più recenti di Michele Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale (Raffaello Cortina, 2012) e Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e cultura visuale (con Danilo Mariscalco, Quodlibet, 2017) mentre, a proposito della liaison di scrittori come Moravia, Pasolini, Morante, Calvino e Celati con il fatto visivo, si veda il recente volume di Alessandra Sarchi, La felicità delle immagini, il peso delle parole (Bompiani, 2019). Ma il doppio talento di Scialoja non è semplicemente nella felice convivenza tra opzioni espressive alternative, bensì scaturisce da una genesi più riposta e oscura. C’è un’originale tensione tra metricismo poetico e informale pittorico, tra la durata bergsoniana in cui scorrono la coscienza e il pensiero, la parola che li insegue, e successivi momenti fotografici di cesura, di memoria, impressi con il gesto fisico dell’opera d’arte; infine il ritmo, la ripetizione, l’allitterazione tanto in poesia quanto sulla tela: un incantesimo che impiglia temporaneamente il flusso angosciante registrandone la traccia. Impronte, non a caso, è il titolo di una serie di opere di Scialoja troppo semplicemente accostate all’informale (a questo proposito il volume fornisce un’acuta analisi del rapporto di questo artista con la superfice, diverso da quello, ad esempio, di Jackson Pollock).
Così, lo Scialoja degli funambolici limericks lodati da Calvino, delle scenografie dei programmi per bambini della RAI come Le fiabe dell’albero (1974) e Fantaghirò (1975), e delle raccolte di poesie per l’infanzia come Amato topino caro (1971), La zanzara senza zeta (1974) e Una vespa! Che spavento (1975); lo Scialoja dei libri d’arte e dei geniali e rivelatori calembours da lessico familiare sui versi canonici della letteratura italiana (C’è un ramo che sporge sul lago/di Como, sospeso a quel ramo/un ragno si specchia nel lago/ma l’onda morente di un remo/increspa, col ragno, nel lago/quel ramo del lago di Como: in pratica un lenticolare ingrandimento e isolamento analitico su uno scenario noto al nostro immaginario), sarà anche l’autore, più tardi, di questa splendida poesia che, evocando immagini (o ricordi?) oniriche e surreali, riflette sulla morte senza mai nominarla:
Rapide e lente amnesie conviene chiamarle frangenti
irrompono su una sabbia colore di lampada all’alba
il mare rovescia gli occhi scopre il bianco per pochi istanti
il crepuscolo cresce luce alla schiuma che non si calma
fragore certo è conoscersi dare via libera al dubbio.
La spiaggia è quasi deserta sempre qualcuno vuol f
ar tardi
tu ancora calpesti l’acqua mi confidi che non fa freddo
resta una bimba acrobata non ha mai distolto lo sguardo
a un tratto socchiude gli occhi sulle mani salta all’indietro
poi s’inginocchia e conficca la sua forcina nella sabbia.
Sembrerebbe, senza anticipare qui la impeccabile analisi del testo offerta da Valeria Eufemia usando come grimaldello Eliade e Jung, che Scialoja abbia tra gli altri il talento di emulare con i versi –impregnando la sua parola di umori ora algidi e sabbiosi, ora bruni e vellutati; o estraendo relitti mentali dalla polvere che il tempo deposita sulle cose assediate dall’oblio- gli stili artistici più atti ad ambientare le sue sensazioni e illuminazioni estetiche e filosofiche. Se Rapide e lente amnesie può ricordare ampie vedute laterali in cui compaiono figure funzionali, ministre del sogno e del significato come in un dipinto di Dalì, in un’altra poesia Scialoja si avvicina a Marcel Duchamp, da lui considerato “un genio del male”. La poesia si intitola, appunto, Nuda che scende le scale:
Si schiude l’uscio vetrato dove il giallo su tutto abbaglia
proveniva dalla scala il ticchettio secco dei tacchi
risuonava il ticchettio dei tacchi sempre più deciso
discendeva da quella scala ripida per apparire
nella sala dove apparve dove regnava il batticuore
la nuda dai tacchi rossi il pelo del pube giallastro.
La poesia cita, dunque, il celebre dipinto Nu descendant un escalier di Marcel Duchamp. Ma perché evocare colui che, secondo Scialoja, aveva “tentato di distruggere lo spazio virtuale, simbolico, su cui l’arte fonda e celebra se stessa” e “fatto sì che una qualsiasi cosa potesse e possa essere proposta come arte”? Semplice avversione al ready-made? Nel suo intervento, Federico Francucci insiste, piuttosto, sul già menzionato rapporto del nostro artista con il tempo e la durata: tra le pagine di Merleau-Ponty, filosofo studiato e amato da Scialoja, si legge un giudizio assai riduttivo su Duchamp, le cui immagini “non si muovono: offrono una rêverie zenoniana del movimento. Si vede un corpo, rigido come un’armatura che fa giocare le sue articolazioni, è qui ed è là magicamente, ma non va da qui a là”. Ecco, dunque, che Scialoja mette in scena un’azione circolare in cui, in un’attesa colma di desiderio ed erotismo, il corpo moltiplicato dell’immagine –proveniva, risuonava, discendeva– finalmente va “da qui a là”. Un’opera topica della storia dell’arte viene, insomma, appropriata e reinterpretata, “geneticamente” mutata di valore fino a farne argomento di una sottile e crudele critica artistica estesa, come Francucci dimostra, anche a un altro luogo fatale duchampiano, Étant donnés, ed entrare così nel cuore del rapporto tra visione e opera d’arte.
Questi esempi sono forse sufficienti a suggerire come il rapporto tra poesia e pittura in Scialoja sia un’organizzazione del pensiero, modo naturale e spregiudicato di condurre una riflessione teorica, e affondi le radici nell’anima stessa dell’immagine che, proprio come la parola poetica, è riattivata aprendosi a molteplici, imprendibili intenzioni. Imprendibile, ineffabile è talvolta la stessa ispirazione di questo artista filosofo: questo volume riesce, grazie alla sensibile capacità interpretativa e all’aderenza meticolosa e amorevole dimostrata da tutti i suoi autori, a dare corpo, dinanzi ai nostri occhi, ad alcuni fantasmi che si agitano nell’opera di un artista raffinatissimo del nostro Novecento.
Paesaggi di parole. Toti Scialoja e i linguaggi dell’arte
Carocci editore, 2019
143 pagg., €16,00
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