Il Titanic del capitano Trump
Fabrizio Tonello
La settimana dal 23 al 27 marzo era iniziata con una borsa di Wall Street traumatizzata dalle perdite delle settimane precedenti: lunedì l’indice Dow Jones aveva toccato quota 18.308, ovvero il 11.000 punti in meno rispetto al suo valore del 20 febbraio: in un mese si era volatizzato il 38% dei valori azionari americani. Poi erano arrivate le promesse di un megasalvataggio dell’economia e, martedì, la borsa era schizzata in avanti del 10%, giornata “storica” seguita da un’altra brillante performance il mercoledì e da un’ulteriore crescita il giovedì, quando il Dow Jones aveva toccato quota 22.500. Si ballava sul ponte del Titanic.
Nel frattempo, però gli ottimismi si erano un po’ afflosciati perché il Congresso non aveva ancora definitivamente varato i provvedimenti anti crisi (895 pagine, quattrini per tutti o quasi) e il venerdì si era chiuso con una perdita, sia pure modesta. Questo nonostante il fatto che la Camera avesse approvato il testo e Trump l’avesse immediatamente firmato con un’opportuna cerimonia dove comparivano soltanto deputati e senatori repubblicani. Lo scorso weekend si parlava già del prossimo bail-out e i lobbisti di K Street a Washington preparavano freneticamente i loro grafici e tabelle per ottenere una fetta della torta. Il 1 aprile i mercati azionari avevano tentato di risalire ma le terrificanti mappe del contagio e le previsioni sul numero dei morti avevano immediatamente spaventato (giustamente) gli operatori.
La Fed, la banca centrale, promette di creare denaro come per magia ma negli uffici di JP Morgan Stanley si fanno già previsioni apocalittiche sui prossimi mesi, con un’economia sostanzialmente colpita da infarto e una disoccupazione che potrebbe salire al 10%, al 20%, forse al 30%, superando i limiti raggiunti nel 1930 durante la Grande depressione. L’alternativa sarebbe rinunciare a drastiche misure di contenimento dell’epidemia e accettare decine di migliaia, probabilmente centinaia di migliaia di morti. Sembra impossibile ma è così: di fronte al Covid-19 il neoliberismo offre queste due alternative. Del resto, i milionari sembrano considerare il loro destino e quello delle loro famiglie come indipendenti dai destini delle società da cui estraggono le loro ricchezze: resta da capire se il sistema politico potrà reggere senza andare verso la disintegrazione o una qualche forma di brutale dittatura.
A questo punto sarà forse opportuno fare un passo indietro e cercare di capire perché il capitalismo degli ultimi 40 anni ci ha portato a questo punto. Wolfgang Streeck ha scritto qualche anno fa: “Il capitalismo è sempre stato una formazione sociale improbabile, piena di conflitti e contraddizioni, quindi permanentemente instabile e in movimento, fortemente condizionato da eventi e istituzioni che fornivano un sostegno storicamente contingente, precario e limitativo”. La più importante, ed efficiente, stampella del sistema sono gli stati nazionali, a condizione che l’oligarchia al potere li controlli senza troppe difficoltà e possa usarli per accumulare profitti.
Per quanto strano possa apparire, la crisi attuale viene da lontano: dagli anni Settanta quando le élite americane e inglesi denunciarono unilateralmente il “compromesso storico” post-1945 e cercarono di recuperare margini di profitto mettendo sotto accusa il (modesto) welfare state che la Seconda guerra mondiale e le lotte operaie avevano imposto. Potremmo riassumere la storia degli ultimi 45 anni in tre fasi: l’inflazione degli anni Settanta, poi l’indebitamento pubblico degli anni Ottanta e Novanta e infine l’indebitamento privato, sfociato nella bolla finanziaria del 2008 (mutui immobiliari inesigibili). In questi anni il capitale ha acquisito una posizione sufficientemente forte per fare un salto di qualità attraverso lo svuotamento delle istituzioni democratiche e lo smantellamento dei diritti sociali, permesso dal trasferimento del potere politico in sedi supercontrollate (come il Congresso negli USA) oppure in sedi sopranazionali non rappresentative come l’Unione europea, gestite da élite tecnocratiche assolutamente fedeli.
Il potere del denaro ha permesso il passaggio dallo stato che tassava allo stato che si indebitava, dipendente dai propri potentissimi creditori come è apparso limpidamente nella gestione della crisi iniziata nel 2008, che è stata affrontata trasferendo risorse dei contribuenti a istituzioni finanziarie (le banche d’affari internazionali) che avevano sempre versato tasse minime, estraendo nel frattempo consistenti rendite dalla proprietà di titoli di stato. “I costi della crisi sono stati scaricati sulla gran parte dei cittadini, in modo da evitare le ire dei mercati, ovvero degli stessi rentiers del debito. In questo quadro, nella diplomazia finanziaria internazionale, il sostegno internazionale a uno stato debitore diventa un atto di solidarietà ai suoi creditori e al ceto superiore dello stato debitore, che trae anch’esso benefici dalle politiche di austerity” aveva scritto nel 2013 Paolo Feltrin.
La diminuzione della capacità dei governi di controllare l’economia, insieme all’incapacità sistemica di limitare la mercificazione del lavoro (si pensi solo alla gig economy) aggiunte all’onnipresenza della corruzione di ogni tipo hanno creato una società deistituzionalizzata o sottoistituzionalizzata, in cui i problemi possono essere stabilizzati solo per brevissimi periodi di tempo, in genere grazie all’improvvisazione locale. Un “interregno” (Gramsci) in cui gli individui sono privati delle difese collettive e lasciati a se stessi, indotti a cooperare con altri individui su una base ad hoc, guidata dalla paura, dall’avidità e da interessi elementari nella sopravvivenza individuale.
Questa situazione era precedente alla rivelazione portata dall’epidemia, che agisce come una “epifania” in cui possiamo vedere cose prima nascoste dall’ideologia o mascherate dalla miracolosa creazione di denaro da parte delle banche centrali. Gli interessi zero o il Quantitative easing sono semplicemente le etichette di una politica di creazione di moneta che ha avvantaggiato chi già possedeva beni mobili o immobili, senza concedere nemmeno le briciole a chi vive esclusivamente del proprio salario e paga un affitto.
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Le cifre sono semplici: nel 2009, l’indice Dow Jones stava a quota 8.885, nel 2019 era triplicato, chiudendo l’anno a quota 28.538. Le altre borse mondiali avevano seguito, con minore successo, mentre l’abbondanza di moneta creava una nuova bolla immobiliare non solo a New York ma anche a Los Angeles, a Londra e a Parigi. A San Francisco, sassaiole accoglievano i pullman dei tecnici di Google che avevano fatto lievitare il mercato immobiliare a livelli insostenibili per i cittadini qualsiasi. La gentrificazione delle città turistiche, da Firenze a Barcellona, arricchiva chiunque avesse ereditato una dimora di famiglia (o avesse comprato a basso prezzo nei centri storici) mentre operai, studenti, artigiani e lavoratori precari venivano espulsi sempre più lontano.
Il Coronavirus ha dato il segnale della “grande svalorizzazione” dei prossimi mesi: è facile prevedere che tutte le categorie di beni sopravvalutati, dai fondi di investimento ai palazzi londinesi degli oligarchi russi caleranno brutalmente di valore. Quanto e come lo si può chiedere solo alla sfera di cristallo perché l’esito delle politiche di distribuzione di denaro a pioggia non è prevedibile.
Sappiamo, però, che non esiste al mondo denaro sufficiente per rianimare economie intubate come quelle dei paesi dove l’epidemia sta dilagando a ritmi impressionanti. “Chiudere” economie basate su complesse catene di valore che partono dalla California, passano dalla Cina e fanno approdare i prodotti finiti a Dubai piuttosto che a Berlino è inattuabile. Confinare in casa decine di milioni di persone per lungo tempo, oltre che probabilmente impossibile se non ricorrendo ai carri armati nelle strade, significa cancellare le compagnie aeree, le crociere, gli alberghi, i ristoranti e i bar. A soffrire saranno prima di tutto i poveri, i marginali, gli emigrati ma l’impatto sarà devastante anche per le classi medie occidentali, che la casa in proprietà, o almeno un lavoro a tempo indeterminato, avevano illuso.
La domanda, adesso, è: i sistemi politici che ci ostiniamo a definire “democrazie” benché la loro trasformazione in oligarchie abbia almeno trent’anni, quanto potranno reggere?
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