“Il Trumpismo ha già vinto”

Giacomo Russo Spena

intervista a Guido Caldiron

“Sebbene molti lo paragonano a Berlusconi, Trump assomiglia di più ad un mix tra il Cavaliere e Marine Le Pen per la sua capacità di agitare il tema di uno scontro tra l’élite e il popolo, tra le compatibilità del sistema e dei mercati e le condizioni materiali dei loro cittadini, la loro sensazione di scivolare sempre più verso il basso”. Il giorno del voto si avvicina. Un testa a testa: Donald Trump vs Hillary Clinton. Il giornalista Guido Caldiron – autore del recente libro “Wasp. L’america razzista dal Ku Klux Khan a Donald Trump” (edizioni Fandango) – ci aiuta a capire il fenomeno del tycoon statunitense: “Che vinca o che perda, del trumpismo non ci libereremo tanto facilmente”.

Miliardario, maschilista e razzista. Il suo linguaggio è becero, parla al ventre del Paese. Sembra incarnare l’americano medio. Come analizzi l’ascesa di Trump?

Il suo successo si può spiegare, innanzitutto, per la disastrosa situazione socio economica che sta attanagliando gli Usa. La crisi dei mutui subprime, che iniziò a sconvolgere il sistema bancario, e quindi quello finanziario, tra il 2007 e il 2008, come effetto dell’implosione della bolla immobiliare che si era creata nel corso di più di un decennio, e che avrebbe prodotto una recessione pressoché senza precedenti, per l’America è stata infatti anche e soprattutto un disastro sociale di proporzioni talmente vaste da far evocare il crollo di Wall Street del 1929. In seguito, l’amministrazione Obama ha cercato di ricreare i posti di lavoro andati persi, ma in tanti non hanno più ritrovato lo status di prima della crisi; si sono dovuti accontentare di stipendi più bassi e, spesso, di occupazioni precarie. Buona parte dei posti creati negli ultimi anni sono in settori che si caratterizzano per i salari bassi, come il commercio al dettaglio, i ristoranti, gli alberghi. Perciò, malgrado negli ultimi anni la ripresa ci sia effettivamente stata è andata in larga parte a vantaggio di una classe benestante che copre il 25-30% della popolazione, mentre dall’altra parte c’è la maggioranza degli americani che non solo non fa progressi nelle sue condizioni, ma spesso va addirittura indietro. In media il potere d’acquisto reale della popolazione è pressoché uguale a quello del 1979. Negli Usa c’è oggi un vero e proprio esercito di oltre 47 milioni di poveri, pari al 15% della popolazione. Un dato che non ha pari in nessun altro Paese sviluppato.

Si può semplificare dicendo che Hillary Clinton rappresenta l’establishment mentre Trump voce degli emarginati e dei delusi?

Malgrado si tratti di un miliardario la cui famiglia ha costruito la propria fortuna nel settore immobiliare fin dagli anni Trenta grazie ai rapporti che il padre di Donald, Fred Jr., intratteneva con i notabili del Partito Democratico che controllava allora strettamente sia la città che lo stato di New York, Trump si è presentato fin dall’inizio della sua campagna, come un "outsider", una figura estranea al mondo dei politici di professione. Inoltre, nella sua promessa di "tornare a fare di nuovo grande l’America" (Make America Great Again), il tycoon ha sempre parlato di creare posti di lavoro nel settore manifatturiero, addirittura di riaprire le miniere nella zona degli Appalachi, e non ha invece citato neppure una volta la Silicon Valley e la nuova economia dell’intelligenza o delle energie alternative a cui guarda invece Clinton: in altre parole, si è rivolto alla working class delusa, ai piccoli bianchi, a quelle famiglie ex operaie che vivono da tempo una situazione di crescente emarginazione, piuttosto che ai settori creativi o alla classe media acculturata.

Quindi mi confermi che paradossalmente il voto ad un miliardario, appartenente al cosiddetto 1% dei ricchi, rappresenta un “voto di rottura”?

Trump ha puntato esplicitamente ad un elettorato di protesta, ai "maschi bianchi arrabbiati" denunciando a più riprese il "politicamente corretto" come una sorta di linguaggio imposto dall’élite al popolo per rendere invisibili e indicibili i guasti della realtà sociale americana. Ha promesso di diventare una sorta di megafono del malessere e del malcontento. Il regista Michael Moore, che sosteneva Sanders, ha spiegato che agli occhi dei suoi sostenitori Trump rappresenta «la vostra Molotov personale da lanciare ai bastardi che vi hanno fatto questo! Mandate un messaggio ! Trump è il vostro messaggero!».

Qual è invece l’elettorato di Hillary Clinton? E’ vero che molti conservatori, e lobby, preferiscono lei a Trump?

Dopo aver avuto dalla loro Wall Street, oggi i democratici possono contare sul sostegno dei big della Silicon Valley. A questo si aggiunge l’appoggio di diversi settori del mondo conservatore, ad iniziare dai neoconservatori che sono preoccupati del fatto che Trump annuncia una nuova era di isolazionismo degli Stati Uniti e un possibile disimpegno da molti fronti di guerra, oltre ad un confronto decisamente più pacato con la Russia di Putin. Negli ultimi giorni sono apparse sulla stampa americana anche delle inchieste che spiegano che i più ricchi tra gli elettori repubblicani sono pronti a votare Clinton perché preoccupati dalla possibile instabilità che farebbe seguito all’elezioni di Trump. Se però la candidata democratica dovesse perdere non sarà probabilmente dovuto a tutti questi elementi, certo inquietanti, quanto piuttosto al fatto che le verranno a mancare i voti di molti appartenenti alla comunità nera e a quella ispanica delusi da Obama che aveva promesso molto più di quanto è riuscito a mantenere ed ora sostiene fortemente Clinton.

Da un lato il partito di Wall Street, dall’altro il populismo xenofobo. Poi gli Stati Uniti non sono così lontani dall’Europa di Angela Merkel e Marine Le Pen?

Se “il fenomeno Trump” appare per certi versi come il prodotto specifico di due crisi maggiori, e tra loro spesso intrecciate, con cui l’America si trova a fare i conti, una di natura sociale cui si è già fatto ampio riferimento, e l’altra dal profilo almeno in apparenza “identitario”, vale a dire l’annuncio del declino dell’egemonia Wasp, vale a dire dei discendenti dei primi coloni bianchi, anglosassoni e protestanti che sono destinati a non essere più la maggioranza nel paese, sembra rimandare anche a quel populismo di destra europeo i cui esponenti guardano non a caso con malcelata speranza a queste elezioni presidenziali. La sua promessa di un muro da erigere alla frontiera con il Messico evoca le barriere che vorrebbero fermare i migranti nel Vecchio Continente, la sua idea di cacciare gli stranieri e isolarsi da mondo rimanda in modo pressoché esplicito alla Brexit.

Obama non ha fatto troppo poco per contrastare il razzismo, ancora presente, nel Paese?

Ha fatto troppo poco per far uscire il Paese dalla crisi economica e sociale, dentro la quale si annida almeno in parte anche il motivo del ritorno del razzismo. Comunque si deve tenere conto del fatto che Obama è un centrista, è legato a quell’area dei cosiddetti "nuovi democratici" guidata fin dagli anni Novanta da Bill Clinton, e ora da Hillary Clinton, su posizioni paragonabili a quelle della "terza via" europea di Tony Blair. Quindi, malgrado la destra americana lo abbia presentato come un "socialista" il suo approccio a ogni tematica è stato se
mpre molto cauto e moderato, dall’altro il razzismo è una costante della storia americana a cui le politiche seguite dalle amministrazioni repubblicane, da Nixon a Reagan fino a George W. Bush hanno garantito una sorta di perennità grazie al varo di norme che hanno trasformato la "questione razziale" in un questione "sociale e razziale".

Le carceri americane sono piene di afroamericani e rappresentano un luogo dell’emarginazione sociale…

Lo stillicidio di morti violente di uomini neri per mano della polizia inaugurata negli ultimi anni dall’omicidio del diciassettenne Trayvon Martin, avvenuto nel 2012 in Florida, e a cui ha per certi versi risposto la nascita del movimento Black Lives Matter, “le vite dei neri contano”, non è che l’elemento più visibile e terribile di una condizione diffusa. Afroamericani e latinos che rappresentano il 30% della popolazione degli Stati Uniti, costituiscono il 60% dei detenuti. Oggi un nero su 35 e un ispanico su 88 sono in carcere; tra gli uomini bianchi la percentuale è di uno su 214. Inoltre un bambino nero su 9 ha il padre in prigione. Il New York Times ha scritto che nella vita quotidiana del paese mancano qualcosa come 1 milione e mezzo di maschi afroamericani che sono in carcere o sono stati uccisi. Cambiare questo stato di cose ha a che fare con una riforma profonda della società americana sia sul piano sociale che su quello dell’ordine pubblico e, complessivamente, su quello della mentalità e della cultura.

Quindi, in soldoni, una bocciatura per Obama?

Il bilancio è in gran parte deludente quanto alle politiche sociali ed economiche, per non parlare della mancata chiusura di Guantanamo o del ruolo ambiguo giocato in Siria e Iraq che ha favorito la nascita del sedicente Stato Islamico, ma sul terreno della lotta al razzismo bisogna tener conto che si è dovuto misurare con un’opinione pubblica in gran parte recalcitrante e, anzi, con una recrudescenza dei movimenti identitari, razzisti e di estrema destra che hanno visto proprio nell’arrivo di un nero alla Casa Bianca il realizzarsi dei loro peggiori incubi. Movimenti a cui Trump ha continuato a dar voce nell’ultimo anno e mezzo con la sua campagna elettorale, prima per le primarie repubblicane e poi per la corsa alla Casa Bianca, e che continueranno a far parlare di sé in ogni caso, sia che il miliardario newyorkese vinca le elezioni sia che le perda di misura.

(7 novembre 2016)



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