Il turismo low cost è contro i poveri. I danni di Airbnb e della gentrification

MicroMega

Un libro della giornalista Sarah Gainsforth spiega, dati alla mano, come il business del portale online contribuisca all’espulsione dei ceti meno abbienti dal “centro vetrina”, favorendo un modello di città più diseguale. Sotto accusa quel turismo mordi e fuggi che devasta i territori e privatizza lo spazio urbano, tanto che in Europa già molte città si battono per regolarizzare il turismo di massa. Quando in Italia?

di Vincenzo Carbone e Giacomo Russo Spena

Si presenta come la principale success story del capitalismo delle piattaforme digitali: Airbnb è, oggi, un impero mondiale. Nata nell’ottobre 2007 a San Francisco con l’intuizione di creare un portale on line che coniuga domanda ed offerta del turismo low cost è diventata un colosso da 30 miliardi di dollari – solo nel secondo trimestre del 2019 ha realizzato oltre un miliardo – in costante espansione, si appresta ad acquisire nuove società con l’obiettivo di avere il monopolio del settore a livello globale. I numeri del boom sono impressionanti se pensiamo che il portale ha visto crescere gli annunci pubblicati dagli 8.126 del 2011 ai 400mila attuali. Utilizzato soprattutto tra i più giovani e gli squattrinati, da un lato è uno strumento comodo che permette di viaggiare a basso costo dall’altro è diventato per qualcuno un’attività semi-professionale dando la possibilità a chi ha una camera libera nella propria abitazione di affittarla per brevi periodi. Su ogni transazione effettuata, la piattaforma trattiene una percentuale: il 3 per cento dall’host, una percentuale variabile – può arrivare fino al 20 per cento – dal turista.

Nel suo frame narrativo Airbnb parla di “città condivisa” rivendicandosi il ruolo di competitor per le catene alberghiere e per il turismo di lusso. Si autorappresenta come l’opzione politicamente corretta: la rivincita del ceto medio e dei meno abbienti e un nuovo modo di viaggiare tramite lo home-sharing. Il boom delle stanze in affitto porterebbe benefici diffusi finanche per i territori, dal ripopolamento dei centri abbandonati alla riqualificazione di intere aree.

Ma è tutto oro quel che luccica? Qual è idea di città che si nasconde veramente dietro il business di Airbnb? Dopo anni di studio, Sarah Gainsforth, ricercatrice e giornalista, ha prodotto il libro “Airbnb città merce” (DeriveApprodi, 189pp) nel quale effettua un’attenta disamina di questa florida società – “prodigio” della Silicon Valley – focalizzandosi sulle conseguenze urbane del turismo low cost. Il testo non risulta né ideologico né manicheo. “La retorica fasulla di Airbnb va combattuta con dati reali e storie vere di origine e resistenza” si legge nella prefazione. Dietro il comodo strumento di Airbnb, si celerebbe un modello di città escludente e diseguale. Innanzitutto il suo business avalla il fenomeno della gentrification, ovvero la riqualificazione estetica dei quartieri impoveriti ma, nello stesso momento, l’aumento dei prezzi e dei valori immobiliari che provoca un ricambio di popolazione e l’espulsione, diretta o indiretta, degli abitanti meno facoltosi.

Airbnb contribuisce a tale trasformazione urbana perché gli affitti temporanei di alloggi – i dati rivelano che l’home-sharing è in calo rispetto all’utilizzo di interi appartamenti messi a rendita – generano contrazione dell’offerta di case in affitto e, quindi, rialzo dei valori immobiliari e dei canoni di locazione. Secondo l’autrice, Airbnb non è altro che “uno strumento di concentrazione della ricchezza proveniente dalla rendita immobiliare: fa profitti imponendo un modello di città sbagliato dove persiste un centro turistico e vetrina e la contemporanea espulsione degli abitanti verso le periferie”. Quelle periferie urbane spesso abbandonate, bistrattate e contenitori dell’emarginazione sociale. “Che Airbnb favorisca la classe media è una favola – spiega Grainsfort in una recente intervista su Left – se lo fa è soltanto nel mascherare gli effetti delle politiche neoliberiste che sono alla base del suo stesso successo. Peraltro, il ceto medio è vittima principale delle prassi urbane attivate dall’azienda, in quanto soggetto principale che subisce gli effetti della gentrification”.

Molte città in Europa – da Barcellona a Lisbona passando per San Francisco – stanno correndo ai ripari per arginare quel turismo di massa che sta devastando il volto dei propri centri palesandosi come il principale strumento di gentrification e di marketing della città, diventate al tempo stesso imprenditrici e merce di consumo, la risorsa e il prodotto finale, in vendita sul mercato globale. Se il mantra dei nostri tempi è “il turismo genera ricchezza”, la domanda è: per chi? “Questo modello di marketing turistico concentra i profitti nelle mani di pochi operatori privati, principalmente le compagnie aeree, i tour operator e i proprietari immobiliari – sostiene il ricercatore Augustin Cocola-Gant, intervistato nel libro – Tutti gli altri ne sono esclusi, quella che inizialmente poteva sembrare un’opportunità per la città si sta rivelando una dimensione drammatica”.

In Italia ne sappiamo qualcosa con Firenze, Napoli e Venezia, in primis, che stanno cambiando volto per l’invasione del turismo di massa. Nel capoluogo toscano oltre 8200 annunci per case vacanze su 11200 sono nel centro storico e ciò sta portando all’abbandono dal centro di molti residenti.

Le recenti declinazioni assunte dalle forme di sfruttamento, tuttavia, non si configurano esclusivamente sul confezionamento delle esperienze urbane delle città-merce, rese disneyland tematiche o vetrine per il consumo turistico massificato. Il processo produttivo, incentrato sulla monocultura turistica, sfrutta (rendendolo merce esperienziale) ogni valore territoriale, ogni aspetto delle culture materiali: dal patrimonio enogastronomico, alle relazioni sociali nei contesti di vita, dalle sagre ai mercatini tipici, dalle rievocazioni storiche alle più arcaiche pratiche delle culture tradizionali. Tutto ricompreso nell’immaginario sul bel paese che nel tempo è stato prodotto e riprodotto, articolato sul buon vivere e su la dolce vita, sulla dieta mediterranea e le tipicità delle tradizioni contadine, sulle produzioni artigianali, il design e la moda che configurano il sistema di qualità del made in Italy (prodotto altrove).

La massificazione dell’industria turistica, persino nella variante individualizzata assunta dalle forme polverizzate non governate (immediatamente) dai grandi tour operator, rendendo “merce” le esperienze urbane e dei territori ha trasfigurato le zone interessate dal consumo turistico massivo e quelle prossimali (turistificazione). Siti d’interesse turistico, territori e città, hanno visto progressivamente mutare funzioni e significati; intere aree urbane subiscono trasformazioni nella composizione degli abitanti, nelle attività economiche e commerciali, nei tempi di vita, esclusivamente scanditi su quelli del consumo.

I panorami sociali di queste aree sono spopolati, pochissimi i residenti stabili, mentre le classi meno agiate e le fami
glie di ceto medio vengono espulsi dalla desertificazione dei servizi di prossimità, oltre che dai costi crescenti, o attratti da altri modelli di residenzialità e di insediamento urbano. Dall’altro lato appartamenti di rappresentanza o di proprietà delle classi affluenti e dei professionals sono usate per pochi giorni l’anno. Case senza abitanti e abitanti senza casa rappresentano un altro stridente paradosso dei territori turistificati nei quali si generano conflitti sull’uso dello spazio e sui significati attribuiti ai luoghi tra chi li vive quotidianamente e chi, invece, semplicemente, li consuma.

Una nuova “trappola” dell’economia delle piattaforme digitali si è costituita nell’incontro tra dispositivi tecnologici e meccanismi di autoimpresa: accogliere turisti è rappresentato come un’attività facile (smart), persino divertente mentre le tecnologie digitali consentono di intercettare agevolmente la domanda di ospitalità e di personalizzare i servizi turistici a bassa complessità. La condivisione dello spazio domestico costituisce così una modalità creativa per l’integrazione del reddito.

L’affitto a breve per il consumo turistico rappresenta un sistema stratificato, perché diversificati sono gli attori imprenditoriali, i contesti territoriali e i modelli di consumo turistico particolarmente multiformi e dinamici.

L’idea di abitare è mutata dalla molecolarizzazione dell’impresa turistica contemporanea: fare soldi con il turismo, significa non solo condurre lo sciame dei turisti e vendere ai turisti ma, sempre più spesso, vendere i turisti: una preziosa merce da mobilitare per carpirne l’attenzione e per estrarne capacità di spesa.

La città e il territorio costituiscono un mezzo di produzione, una risorsa estrattiva per questa forma di produzione. I luoghi sono rendite da cui trarre profitto. La trasformazione della città in spazi alberghieri (anche la Curia mette a rendita il proprio patrimonio immobiliare) presenta un aspetto rilevante nella diffusione polverizzata dell’affitto breve di stanze e di appartamenti e di case e ville nei contesti rurali.

Nel chiantishire, ad esempio, il marketing territoriale delle esperienze immersive dei luoghi, basate sull’integrazione di eccellenze alimentari (vini e olio), impresa agricola e poli della moda, è imperniato su potenti narrazioni che profilano gli interessi della domanda turistica. La configurazione dell’offerta, tuttavia, deriva dall’attivazione imprenditoriale che può consistere nella predisposizione di uno spazio autonomo da riservare agli ospiti, continuando a condividere il resto degli spazi domestici, e che può rimandare a situazioni più complesse di presa in affitto di immobili o di ristrutturazione (giardino e piscina) per la loro destinazione ad attività di ospitalità.

Il marketing del territorio e delle città utilizza tutte le potenzialità delle comunicazioni ipermediali (compreso il mercato dei commenti e delle valutazioni degli ospiti). Un segmento di attività che mette a valore non solo gli spazi domestici, opportunamente predisposti per l’accoglienza, ma la conoscenza delle lingue, degli interessi degli ospiti e delle opportunità del territorio per il consumo turistico. Una produzione che allude alla complessa disposizione di tempo e di lavoro relazionale dell’host, che concerne la piccola accoglienza, la messa in scena rituale e la selezione delle informazioni e la disponibilità incessante verso ogni esigenza del turista, perché corrisponda al profilo di benessere e di ricchezza dell’esperienza promessa. Nelle attività più organizzate, invece, i lavori di relazione e di cura sono solitamente affidati a giovani e migranti, assumono le tonalità del grigio e del nero e le declinazioni delle 5p (poveri, precari, poco remunerati e prestigiosi, pericolosi).

Ritornando al libro, l’autrice mostra con evidenza il ruolo agito dalla finanza che “ha ridisegnato le città non più soltanto facilitando l’acquisto delle case attraverso i mutui ipotecari, ma attraverso l’ascesa delle grandi corporazioni immobiliari sostenute dai mercati di capitale internazionale e del capitalismo delle piattaforme come Airbnb”.

Per anni, invece, siamo stati abituati a politiche che hanno lasciato mano libera ai privati. È la fine dell’urbanistica e, dunque, della città pubblica. Già esistono, in Europa, modelli per “regolamentare” la sharing economy. Il turismo è un fenomeno complesso che modifica il senso della città ed è necessario governarlo. Non si può più relegare all’economia predatoria delle piattaforme digitali come Airbnb. Ci vogliono scelte politiche innovative, radicali e coraggiose. In Italia quando?
(15 novembre 2019)





MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.