Il velo, la ‘stella gialla’ della condizione femminile nell’Islam
Luciana Piddiu
Islamabad, primavera 2007
Assorta nella lettura di un libro sull’elaborazione del lutto, aspetto sulle panchine del campus universitario la fine della sessione mattutina della conferenza di Fisica, in cui è impegnato il mio compagno. Tutto intorno un tripudio di fiori e un sole tiepido che mi consola.
Ogni tanto mi interrompo a riflettere, quando un giovane studente mi viene accanto e rivolgendomi la parola mi chiede qualcosa che non capisco. Dopo di lui, nel giro di un’ora, sono abbordata da altri due ragazzi. Penso di aver frainteso la richiesta, formulata in lingua inglese, quando una giovane donna mi si avvicina e con rispetto mi spiega che non è sufficiente che io sia coperta interamente né che abbia una certa età (potrei essere la madre di quegli studenti): se non voglio essere disturbata e dar luogo a equivoci devo coprire i miei capelli.
Da diverso tempo, dalla madrasa attigua alla moschea rossa*, le giovanissime custodi del pudore femminile – nerovestite dalla testa ai piedi – escono a ranghi serrati armate di bastoni e pattugliano le strade in cerca delle donne che non si adeguano alle norme della sharia che si vorrebbe introdurre in Pakistan.
I capelli scoperti sono come essere nude e quindi è meglio coprirli, mi dice. Solo ora, incredula, capisco il senso delle richieste di quei giovani dallo sguardo insinuante. Con questa ragazza parlerò a cuore aperto per l’intera mattinata e le sarò sempre grata per la sua generosità.
Isfahan, 2009
Questa volta mi sono attrezzata. Come ha notato un collega di Guido, sono più iraniana di un’iraniana: lunga gonna nera, casacca larga nera che scende sui fianchi e velo nero a coprire i capelli. Girerò indisturbata per diversi luoghi di questa magnifica città, da sola.
Ma ciò non toglie una certa inquietudine da quando mi è stato comunicato che anche in albergo, all’interno della stanza che occupo, mi devo attenere rigorosamente al codice di abbigliamento previsto dalla legge.
In ogni momento le guardie islamiche della rivoluzione possono fare irruzione e controllare. Del resto l’hanno già fatto all’interno della conferenza che si svolge nei locali dell’albergo! Così ogni volta che sento bussare alla porta ho un trasalimento per paura di dimenticare che devo coprire la testa.
No, non metterò il velo islamico nella giornata indetta per il primo Febbraio, neanche per solidarietà. Non posso con tutta la buona volontà del mondo cambiare di segno a quello che rimane il simbolo dell’alienazione psichica dell’uomo (che fonda il suo onore sul controllo dei corpi delle donne di famiglia, considerate proprietà personali) e della complicità/sottomissione della donna.
Il velo – il cui uso risale alla notte dei tempi e ha interessato a lungo anche il mondo cristiano – è simbolo denso di significati e non manca di fascino. Ma occorre rendersi conto che oggi, sull’onda dello scontro tra potenze regionali sunnite e sciite e sotto la spinta delle incalzanti ondate migratorie in Occidente, cerca di rifarsi la verginità, una sorta di nuova giovinezza per farsi passare per quello che non è.
Ma l’etimologia non inganna e ci dà la chiave per capire. HIJAB dalla radice araba h-j-b significa letteralmente rendere invisibile allo sguardo, nascondere.
Che cosa e perché nascondere, dissimulare (le benpensanti dicono ‘proteggere’)? La donna: occorre tenerla al riparo dallo sguardo maschile perché fin dall’infanzia (9 anni è l’età di passaggio alla maggiore età in diversi paesi di religione islamica) suscita il desiderio, anzi lo crea. Questa è la sua colpa.
I corpi femminili sono colpevoli perché fonte di inquietudine, angoscianti, sporchi, impuri, sorgenti di malattie e di peccato. In poche parole questi corpi desiderati e proibiti, dissimulati o esposti sono una minaccia: possono circolare tra gli uomini solo come ombre. Il corpo femminile in sé è tabù, a partire da quello della madre desiderata e interdetta.
Perché non si velano i ragazzi? Non possono essi suscitare analogo desiderio nelle ragazze? Niente affatto: le donne non sono fatte per avere desideri ma solo per essere oggetto dei desideri degli uomini.
Il velo abolendo la promiscuità dello spazio, materializza la separazione radicale tra il mondo che appartiene agli uomini e lo spazio riservato alle donne. Il velo salva l’uomo dai suoi stessi inconfessabili desideri.
Per questo deve rendere la donna invisibile, esso deve nascondere questa macchia originaria: la vergogna di essere nata donna e l’umiliazione di non essere uomo. Questo non essere come l’uomo rende la donna mancante, inferiore.
Il velo – in tutte le sue incredibili varietà (chador, burqa, hijab, niqab ecc) – condanna la donna a essere incarcerata per salvare l’onore maschile che si radica nel corpo delle ‘sue’ donne che deve essere protetto dagli sguardi rapaci degli altri maschi: ne va della sua identità di uomo virile. “La donna non velata può scuotere dalle fondamenta l’edificio dell’identità maschile nell’Islam” (Chahdortt Djavann).
E’ semplicemente questo il motivo per cui la donna non può circolare liberamente sotto gli sguardi illeciti degli altri uomini nello spazio pubblico. Il suo essere sotto tutela va di pari passo col suo statuto di oggetto sessuale.
Malgrado ciò, stupri, prostituzione e pedofilia sono largamente diffusi anche nel mondo islamico. Qualunque sia il grado di copertura, esso non mette davvero al riparo dalle aggressioni.
E qui da noi come non accorgersi che le donne velate finiscono per attirare gli sguardi? il velo impedisce di guardare ma non di immaginare e fantasticare. Lo scopo raggiunto è l’esatto contrario del passare inosservate!
In ogni caso, e lo ripeto, non si può assumere il velo come simbolo di libertà adducendo le proprie convinzioni religiose o la rivendicazione identitaria di appartenenza, o la protesta contro la politica occidentale.
Concordo e sottoscrivo l’affermazione di Chahdortt Djavann, “il velo è la stella gialla della condizione femminile delle donne di cultura islamica”.
Le nostre interminabili discussioni sull’argomento, condotte in questa parte di mondo dove non c’è l’obbligo di portarlo, sancito da una legge dello stato (con relative punizioni corporali in caso di trasgressione) hanno il sapore delle controversie di natura accademica. Sono inevitabilmente astratte, inficiate per cosi dire dal non aver noi vissuto o esperito la condizione di totale illibertà delle donne a cui non è stato consentito scegliere. Parlo di Ayaan Hirsi Ali, Taslima Nasreen, Chadhdortt Djavann e tante altre che non so. Ascoltiamole quelle donne e fidiamoci di loro.
Velarsi significa – che si sia o no consapevoli – concepirsi come oggetti sessuali destinati agli uomini a cui si riconosce il diritto di disporre dei nostri corpi.
*la Moschea rossa Lal Masjid e la madrasa attigua sarebbero state di lì a poco attaccate e demolite dall’esercito di Pervez Musharraf.
(8 giugno 2016)
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