Il velo sulle parole
Natacha Polony
, da Repubblica, 22 agosto 2016
Il velo si è posato sulle nostre parole assai prima di comparire sulle nostre spiagge. L’alterco che da una caletta della Corsica si è riversato nei vortici di un’estate burrascosa è più interessante se si analizzano i termini usati per riferirlo. In grande maggioranza i commentatori, riportando testualmente una nota dell’Agenzia France Presse, hanno parlato inizialmente di «tensioni in Corsica dopo una rissa tra le comunità corsa e magrebina».
C’è una cosa che qualunque giovane giornalista sa: i fatti non esistono. Esiste il racconto dei fatti, e le parole usate per riferirli hanno il valore di un’interpretazione. Per di più, chi ne percepisce le sfumature dovrebbe rendersi conto che a volte sono veicolo di ideologie. E invece no. Nessun commentatore sembrava infastidito da questa frase, ripresa di peso come un’evidenza. Se la rissa in questione fosse esplosa a La Baule o a Paimpol, a Saint Rapahaël o al Lavandou, si sarebbe parlato di rissa tra «comunità» magrebina e bretone, o provenzale?
Il termine «comunità» ha invaso i media fino all’assurdo. Ma in questo modo si finisce per imporre l’idea che l’islam politico vorrebbe farci accettare: quella di una Francia composta da entità diverse, tutte ugualmente legittimate a seguire i propri costumi e a rivendicare dei diritti. Dunque, non più cittadini di confessione musulmana, ma una «comunità musulmana». Non più cittadini di confessione cattolica, ma una «comunità cattolica ». E neppure magrebini, o francesi originari del Maghreb, bensì una «comunità magrebina», mentre una «comunità corsa» prende il posto del popolo corso, parte integrante di quello francese. Tra un po’ non vi sarà più neppure il popolo francese ma una «comunità francese». E tutte quante alla pari, su un territorio neutro, governato in base a un diritto ridotto alla semplice espressione delle libertà individuali.
Ed è precisamente contro questo che insorgono i corsi, certo meno complessati dei francesi metropolitani, perché meno propensi a dimenticare chi sono. In Corsica non si tollera la pretesa di qualche piccolo caid di vietare l’accesso a una spiaggia perché le donne della tribù possano fare il bagno al riparo dagli sguardi, necessariamente concupiscenti, degli estranei «infedeli».
Eccolo, il senso di questa privatizzazione, così come del famoso burkini e delle lunghe vesti scure che dilagano in certi quartieri: le donne appartengono al clan, e lo sguardo degli altri uomini le sporca, perché nessuna mescolanza è possibile. E quanto più quei segni visibili saranno numerosi e consueti, tanto più lo spazio pubblico apparterrà alla «comunità».
Curiosamente, tutto ciò non sembra turbare gli abituali fautori del «
métissage » e della «mescolanza». C’è stato persino chi ha proclamato il diritto al burkini. Certo, tra i manifestanti corsi c’è stata anche qualche vociferazione razzista, che alcuni hanno visto come una gran bella occasione per attribuire un carattere «islamofobo» alla manifestazione, denunciando un «razzismo corso » pressoché congenito (dato che in quel senso è sempre permesso fare di ogni erba un fascio).Sì, le parole sono politiche; e usarle senza più conoscerne il senso vuol dire imporre, senza nemmeno pensarci, un modello politico. I paesani corsi che davanti ai media hanno dato voce al rifiuto di comportamenti inaccettabili sulla loro isola si sono espressi con semplicità, senza girare intorno alla questione. Hanno usato le parole che vengono spontanee quando si è sicuri di sé, della propria storia, della propria identità. Le parole di chi non accetta di essere ridotto al silenzio. Piaccia o no, questa reazione esprime un senso di cittadinanza, largamente condiviso — c’è da scommetterlo — dal popolo francese.
L’autrice è editorialista del quotidiano francese Le Figaro. Traduzione di Elisabetta Horvat
(22 agosto 2016)
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