Il virus e le sue ideologie: destra, sinistra e l’orientalismo di Boris Johnson

Fabrizio Battistelli



In questi giorni il dibattito internazionale sul coronavirus si è arricchito dell’improvvida uscita del premier britannico Boris Johnson, che pure di motivi per riflettere seriamente ne ha avuti in questo periodo. Interpellato sulla recrudescenza della pandemia nel Regno Unito e sulla migliore tenuta di paesi come l’Italia e la Germania, Johnson ha dichiarato ai Comuni che il lockdown non ha funzionato per gli inglesi perché sono uomini liberi mentre ha funzionato per altri. L’implicazione che questi evidentemente non sono altrettanto liberi ha meritato la puntuale replica del presidente Mattarella. Ulteriori commenti, polarizzati sulla bizzarra personalità di Johnson, non hanno dato abbastanza risalto alla dimensione politica del BoJo-pensiero, un modo di ragionare che non è individuale ma emblematico di pulsioni ideologiche molto diffuse.

La forsennata velocità dell’informazione e la spietata obsolescenza del prodotto mediatico (statisticamente 48 ore di vita per una notizia) non costituiscono una strategia inventata dai giornalisti per spiazzare i colleghi o per bloccare l’accesso al discorso pubblico da parte dei profani (obiettivo quest’ultimo reso sempre meno praticabile per colpa dei social), bensì un inevitabile esito del cortocircuito spazio-temporale del mondo globalizzato. Tale circostanza, comunque, non giustifica la riluttanza a valutare le esternazioni dei politici al di là delle loro sindromi psicologiche, ad esempio collegandole al quadro ideologico che le ispira. Anche se non lo sanno, o dichiarano il contrario, tutti i politici possiedono un quadro ideologico. A meno di non credere alla favoletta, cui sono rimasti affezionati soltanto i più sprovveduti tra i Cinquestelle, che il pensiero politico è ormai ideology-free come certi spaghetti lo sono dal glutine e certi biscotti dall’olio di palma.

Tutto il dibattito sulla pandemia, che notoriamente comporta colossali implicazioni politiche, gronda di ideologia. La direttrice più ovvia e, nonostante gli svariati tentativi di metterla a tacere, insopprimibile, è la collocazione sinistra/destra. L’interesse di una delle due parti (la destra) a mettere il silenziatore a una differenza che, resa pubblica, la porrebbe in una luce sfavorevole, è comprensibile. Così quanto lo è l’analoga tendenza da parte di un movimento che, come l’M5S, del superamento delle ideologie aveva fatto il suo slogan. Meno comprensibile è il prevalere di questa tendenza nei talkshow. Il tormentone che scandisce i dibattiti televisivi si basa su un ricorrente scambio di accuse. Da una parte, i politici di sinistra e i conduttori progressisti criticano i politici di destra per sottovalutare i rischi della pandemia e, dall’altra, i politici di destra e i conduttori conservatori criticano gli altri per esagerare gli stessi rischi e (ma questo è più banale) di non porvi rimedio abbastanza.

Nessuno sembra in grado di ricordare agli spettatori che le strategie della destra e della sinistra non sono casuali, ma provengono da un consolidato modo di ragionare che è (legittimamente) differente. Proprio come accade in un ambito apparentemente scollegato come quello economico, in tema di salute i politici di centro-sinistra sono keynesiani, dunque favorevoli a un intervento dello Stato per regolare, bilanciare e correggere i fenomeni (misure di prevenzione come distanziamento, mascherine, divieto di assembramenti ecc.). Sul fronte opposto, invece, i politici di centro-destra sono liberisti, quindi a favore del laissez faire, laissez passer dei capitali, delle merci ed eventualmente anche delle malattie. I primi sono gli eredi dei giacobini che vedevano la società come un giardino da coltivare, potare e indirizzare come dicevano loro, i secondi sono gli eredi dei teorici del libero scambio che vedevano la società come una radura selvaggia dominata dalla lotta per la vita tra le specie vegetali e animali (anzi come una foresta pluviale da disboscare per vendere il legname e piantare cereali adatti ai bovini.) Fuor di metafora, questa è la posizione-base dei Bolsonaro, dei Trump e dei Johnson, che affida la prevenzione del coronavirus al miracolo dell’immunità di gregge, così come Charles Darwin affidava l’evoluzione della specie alla sopravvivenza del più adatto e Adam Smith l’equilibrio del mercato alla mano invisibile.

D’accordo, roba da seminari all’università, l’esatto contrario rispetto ai codici televisivi tarati sulle storie e sui personaggi, meglio se espressi a un alto numero di decibel. Per fortuna l’altra direttrice ideologica è molto più immediata da capire, sebbene anch’essa parta da un concetto accademico: l’orientalismo. Secondo Edward Said, l’orientalismo è una sottile forma di razzismo che individua in una parte diversa del mondo (storicamente l’Oriente per gli europei) il regno del pittoresco, del pre-moderno, del barbarico. Lontana da me la tentazione di chiamare a raccolta lo spirito nazionale degli italiani (fortunatamente vissuto con un sano scetticismo dalla maggioranza di essi) ma, facendo un bilancio di nove mesi di pandemia, è da rilevare che l’Italia e gli italiani sono stati destinatari di forme più o meno garbate di orientalismo da parte di osservatori e politici internazionali, di cui Johnson è soltanto l’ultimo e più macroscopico esempio. Parlando dell’Italia e degli italiani parliamo del paese e della popolazione che cronologicamente sono stati i primi a sperimentare la morsa dell’epidemia al di fuori del continente asiatico. Trovandosi quindi ad assumere decisioni senza precedenti come il lockdown, l’Italia non poteva non suscitare all’estero, in particolare tra gli altri membri dell’Unione Europea, commenti e comportamenti sia empatici sia critici, così come stimolare comportamenti sia imitativi[1] sia alternativi (con l’onere, nel caso di questi ultimi, di doverli paragonare e giustificare nei loro criteri e nei loro risultati tutt’altro che univoci).

Tra i primi a parlare di noi nella fase crescente della pandemia è stato uno scrittore, lo svedese Fredrik Sjöberg[2]. Nell’aprile 2020 i suoi riferimenti al nostro Paese bloccato dal lockdown sono stati non soltanto rispettosi ma anche affettuosi, compreso l’inevitabile citazione del “sole della primavera italiana” e l’altrettanto inevitabile nostalgia dei soggiorni nella campagna toscana. Nel merito però è opinabile il suo raffronto con una Svezia che “non combatte la pandemia come fanno gli altri” e saggiamente, secondo l’autore, aspetta due mesi prima di portare il divieto di assembramento da cinquecento a cinquanta persone. Rispetto alle misure “draconiane” adottate in Francia, Spagna e Italia, la Svezia appare a Sjoberg “diversa” in quanto “preferisce la libertà di scelta alle costrizioni”. A sua volta questa è un’opzione praticabile in quanto storicamente gli svedesi sono disciplinati e hanno fiducia nei poteri pubblici e nell’amministrazione.

Non è nostro compito una valutazione della strategia liberista intrapresa in materia dal governo svedese del socialdemocratico Stefan Lofven, comprendente la direttiva di non curare gli ottantenni né i settantenni con altre patologie o le tensioni determinatesi con gli altri paesi nordici (tutti sostenitori invece del lockdown); tantomeno metterla in rapporto con i numeri, proporzionalmente assai elevati, di contagi e di vittime che hanno sinora caratterizzato la Svezia. Tutto ci&ograve
; mentre il bilancio del lockdown in Italia può essere definito accettabile quanto all’azione del governo (avrebbe potuto essere migliore se non ci fosse stato l’esiziale rinvio della zona rossa in Valseriana)[3] e più che soddisfacente quanto al comportamento della popolazione, complessivamente mostratasi capace di disciplina e autocontrollo.

A essere oggetto di riflessione, piuttosto, è l’orientalismo come atteggiamento inconscio che può condizionare il giudizio, ad esempio facendo di più paesi un unico aggregato sulla base di supposte caratteristiche antropologiche. Fa pensare il fatto che – in un’Europa nella quale il versante Sud gioca il ruolo stigmatizzato proprio dell’Oriente – degli stessi tre paesi latini citati da Sjöberg, ciascuno tende a sentirsi meno meridionale degli altri. La difficoltà di evitare gli stereotipi emerge dallo sguardo francese, in una fase acuta per noi ma non ancora tale per i nostri vicini. Lasciamo da parte l’infelice gag del pizzaiolo italiano che tossisce ed espettora sulla pizza, proposta (e poi ritirata) dal programma satirico di Canal +. Anche le descrizioni benevole sono alquanto prevedibili, come la socievolezza in cui gareggiano italiani e spagnoli durante il confinamento. In particolare gli italiani che – scrive su Le Monde Alessandra Tarantino – “tentano di salvaguardare i legami di socialità senza mettere in pericolo le persone vicine. Tornano a ‘fare società’ per qualche minuto e cercano di tenere su il morale socializzando a distanza ragionevole, anche se non cantano sempre molto bene”[4].


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Ben più freddo lo sguardo che ci raggiunge da Oltre Manica, in bilico tra i due canoni narrativi del caos da un lato e della precauzione esagerata dall’altro. Secondo Ross Clark del conservatore The Daily Telegraph, all’annuncio di Conte “io resto a casa”, gli italiani hanno reagito “precipitandosi fuori e affollando tutti insieme i supermarket del paese, ignorando il distanziamento che gli era stato detto di osservare”[5]. Viceversa Sema Kotecha della BBC, “scendendo dall’aereo nel caldo sole di Roma”, viene “colpita da una gelida esplosione di paura e, mentre il personale dell’aeroporto invita a non porsi troppo vicini gli uni dagli altri, le persone evitano il contatto visivo e quasi ognuno indossa la mascherina”[6]. Circa gli episodi di accaparramento di alimentari nei supermercati, Sean Coughlan ancora della BBC esibisce un’oggettività etnografica. È vero che nell’emergenza le priorità che si impongono sono: “cibo, salute, famiglia”, ma anche i comportamenti di panico cessano una volta che la gente constata che non c’è l’esaurimento delle scorte e che gli scaffali vengono regolarmente riforniti[7]. Più partecipi le conclusioni di Sally Lockwood di Sky News: “il caratteristico calore degli italiani sembra sostituito dall’ossessione per lo spazio personale. Lo stesso atto fisico di indossare la mascherina sembra aver ridotto al silenzio lo spirito delle persone. Ciò sarebbe apparso inconcepibile un paio di mesi fa. Ma è difficile immaginare la vita come era prima. Il trauma nazionale del primo scoppio del contagio è ancora troppo pesante”[8].

Senza nessuna pretesa di essere esaurienti, questi flash su come il lockdown italiano è stato raccontato all’estero mostra che spesso la valenza attribuita ai fatti è non solo nella natura degli stessi ma anche nello sguardo dell’osservatore. Come nel caso della dicotomia destra/sinistra, pure la dicotomia orientalismo/universalismo condiziona la narrazione e il giudizio. Lo sappiamo bene anche noi italiani, che abbiamo visto crescere negli anni una forza politica come la Lega, basata su un aggressivo orientalismo interno che scavava un fossato tra una parte e l’altra del Paese, per approdare poi a un ancora più ostile orientalismo rivolto contro le differenze esterne. Gli schematismi impiegati nei confronti dell’Italia nella pandemia da portavoce che si esprimono con condiscendenza ci aiutano a riflettere sul diverso suono dello stereotipo e del pregiudizio quando lo applichiamo noi agli altri e quando gli altri lo applicano a noi. Senza contare che, oltre che politicamente non corrette, posizioni come queste si rivelano spesso errate sulla base dei fatti.

NOTE
[1] Sul ruolo di apripista rivestito dall’Italia nella gestione della pandemia, v. lo studio comparato di De Vries C.E., Bakker B.N., Hobolt S., Arceneaux K. (2020), Crisis Signaling: How Italy’s Coronavirus Lockdown Affected Incumbent Support in Other European Countries, May 20, 2020.

[2] Fredrik Sjöberg. Perché la Svezia ha scelto di lasciare tutto aperto, https://rep.repubblica.it/pwa/ generale/2020/04/01/ news/perche_la_svezia_ha_scelto_di_lasciare_tutto_aperto-252881804/.

[3] Sul gioco del cerino tra governo e Regione Lombardia, entrambi pressati da Confindustria per non dichiarare il lockdown ad Alzano e Nembro, v. l’eccellente ricostruzione di Francesca Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale, Laterza, Bari-Roma, 2020.

[4] https://www.lemonde.fr/big-browser/article/2020/03/16/as-du-confinement-creatif-les-italiens-et-les-espagnols-rivalisent-d-inventivite-face-au-covid-19_6033312_4832693.html.

[5] https://www.telegraph.co.uk/politics/2020/03/10/italys-chaotic-lockdown-proves-draconian-pandemic-measures-dont/.

[6] https://www.bbc.com/news/world-europe-52005287.

[7] https://www.bbc.co.uk/news/extra/dj3jonuhi1/coronavirus-year-of-the-mask.

[8] https://news.sky.com/story/coronavirus-italy-is-traumatised-and-normality-is-only-a-distant-dream-11982030.
(1 ottobre 2020)




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