Il volto di Gesù e l’integralismo della Chiesa

Adriano Prsoperi

, da Repubblica

Lo spettacolo del regista Romeo Castellucci, “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”, è un dialogo tra un figlio e un padre anziano colpito da dissenteria: il dialogo si svolge sotto una grande riproduzione di un celebre volto di Cristo.

È il volto dipinto da Antonello da Messina: un Cristo vero e bellissimo uomo. Un Gesù dall’espressione dolce e intensa, un’immagine lontana da quella tradizione di origine francescana che ha insistito sugli strazi della Passione, il sangue, le spine, l’allucinata magrezza. Questa versione ha vinto nella storia della religiosità cattolica e segnatamente italiana perché ha dato espressione al bisogno di accostarsi a Cristo come uomo, di trovare in lui una figura fraterna, un mediatore dolce e rassicurante col Padre Eterno. Ma in questo spettacolo è proprio quella perfezione fisica che viene presentata come una provocazione intollerabile per chi sta sperimentando il degrado e l’umiliazione estrema del corpo di un padre nell’estrema decadenza della vecchiaia. La reazione a questo conflitto è l’iconoclastia, l’offesa all’immagine: un gruppo di giovani sporca quell’immagine, le scaglia contro sassi e granate.

È una drammatica sfida, una maniera di chiedere una spiegazione a Dio, dunque qualcosa che appartiene in profondità all’esperienza religiosa. Si può chiamare a testimone un sacerdote che fu anche un intellettuale cattolico e un grande organizzatore di cultura, don Giuseppe De Luca. Nella sua definizione della pietà era inclusa anche l’offesa a Dio, la bestemmia, l’esecrazione, l’empietà: tanti segni, secondo lui, di un rapporto vivo tra l’uomo e Dio, di un atteggiamento diverso dall’indifferenza e dal distacco di chi non si sente minimamente interrogato dal messaggio religioso. Questa scena aveva suscitato reazioni polemiche di gruppi cattolici tradizionalisti francesi durante le rappresentazioni parigine nell’ottobre scorso. Ora il dramma è in cartellone a Milano al Teatro Franco Parenti a partire dal 24 gennaio. Il regista ha annunciato che la scena delle offese all’immagine non ci sarà. Fa parte della sua libertà di decidere in materia. E fa parte della libertà degli spettatori il diritto di andare a teatro e di giudicare il dramma in base alla loro sensibilità e alla loro cultura. Anche di protestare, se si sentono offesi nei loro sentimenti.

Invece in questo caso non si vuole che il dramma sia rappresentato. Rispolverando toni intransigenti e scandalizzati che riportano ai tempi delle condanne del teatro da parte di San Carlo Borromeo. Un comitato che non a caso si intitola proprio al nome del santo milanese ha chiesto al teatro milanese di «voler cancellare questo spettacolo» perché è una «offesa a Cristo e, con lui, a tutti i cattolici». Ed è giunta, insieme ad altre reazioni dello stesso tipo, una lettera di monsignor Peter Wells della Segreteria di Stato vaticana che accusa il dramma di Castellucci di essere un’opera «offensiva nei confronti di Nostro Signore».

Milano non è Parigi, evidentemente. Né i cattolici italiani possono godere dei diritti dei cattolici francesi. In Italia non si può vedere, non si può giudicare con la propria testa. Questo è il punto. Alla Chiesa cattolica non si può muovere a cuor leggero l’accusa di essere un’agenzia dell’intolleranza religiosa: in tempi come i nostri ben altre sono le manifestazioni dell’intolleranza che destano preoccupazione. Lo scatenarsi della violenza da parte di chi si ritiene obbligato a vendicare l’onore del suo Dio o del suo profeta ha riportato all’ordine del giorno fenomeni che speravamo di avere lasciato in un remoto passato. La Chiesa cattolica ha dimostrato di saper aprire un confronto col mondo moderno all’interno di una accettazione del principio della libertà delle coscienze e della tolleranza: una tolleranza che si somma spesso alla saggezza politica. Talvolta eccessivamente politica a giudizio di molti, che preferirebbero una proposta religiosa capace di distinguere i veri credenti dal cattolicesimo sociologico della maggioranza.

Se ne è avuto un esempio nella non dimenticata controversia giuridica sull’affissione del Crocifisso nei luoghi pubblici quando le autorità ecclesiastiche ne hanno sottolineato il carattere di “arredo” mettendo in ombra quello di sconvolgente simbolo religioso. Resta il fatto che l’Italia per questa Chiesa è una provincia speciale dove si deve ancora sfoderare all’occasione il volto severo: come si fa coi bambini, come non si fa con gli adulti. Ritroviamo in questo episodio la conferma di una tradizione antica e la riprova di quello speciale stile della Chiesa di Roma che un esperto studioso di queste cose, il professor Jeffrey Haynes della London University, ha definito come l’esercizio di un “transnational soft power”: un potere dolce, capace di adattarsi alle differenze locali e di modulare diversamente la voce a seconda dei destinatari. Con gli italiani, la voce è severa, per loro vige ancora la censura preventiva.

(26 gennaio 2012)

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