‘Imagine’, la globalizzazione economica e l’onorevole Meloni

Pompeo Della Posta



Confesso che mi aveva divertito sentire, diverso tempo fa, la parlamentare europea leghista Susanna Ceccardi, quando ancora ricopriva la carica di sindaco di Cascina (PI), definire “comunista” la canzone Imagine di John Lennon. Mi aveva poi fatto piacere che il bravissimo cantautore livornese Bobo Rondelli gliela avesse cantata con la sua voce potente, accompagnato solo dalla sua chitarra, sotto le finestre del Comune. Qualche giorno fa la Ceccardi, ora candidata alla presidenza della Regione Toscana, è ritornata sul tema, questa volta rispondendo però a Bobo con le note della bella canzone “E penso a te” e con un disarmante “a me piace Battisti”. Così facendo è riuscita magistralmente a spostare l’oggetto della discussione, come forse neanche un Berlusconi della prima ora avrebbe saputo fare.

Mi sono però sentito chiamato direttamente in causa quando l’onorevole Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, ha sostenuto in una intervista recente che Imagine di John Lennon sarebbe il manifesto della “omologazione mondialista”, che auspica che non ci siano religioni né nazioni e che, negando la nostra identità (anche familiare!) farebbe di noi “degli ottimi consumatori per le multinazionali che ci devono vendere lo stesso prodotto…”. (Ma in questa affermazione qualcosa non torna. Si dovrebbe ricordare, infatti, che nel 2001, in occasione del G8 che si tenne a Genova, il partito in cui la presidente Meloni a quel tempo immagino che già militasse difese con vigore quanto commesso nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto contro persone inermi che in piazza avevano avuto il torto di protestare proprio contro l’”omologazione mondialista” che oggi lei denuncia – i famosi “no global”, se li ricorda presidente Meloni?).

La ragione per cui mi sono sentito coinvolto è che le prime pagine del mio libro The Economics of Globalization, ETS, 2018, riportano proprio il testo della canzone di John Lennon. Una canzone che – sembra non averlo notato l’onorevole Meloni – dice che senza religioni e paesi non ci sarebbero ragioni per uccidere nel loro nome. Una canzone che esorta ad immaginare che le persone possano condividere in pace e fraternità il mondo… Sarebbe questa la canzone marxista, quella che metterebbe perfino in discussione l’identità familiare, chissà perché tirata in ballo dalla Meloni insieme alla minacciata identità nazionale e religiosa?

Certamente non ho riportato Imagine all’inizio del mio libro per lodare la globalizzazione economica e l’“omologazione mondialista”. Anzi tutt’altro! Fra i miei riferimenti intellettuali ci sono economisti come Dani Rodrik e Joseph Stiglitz, che le critiche alla direzione che la globalizzazione economica stava prendendo avevano cominciato ad avanzarle già una ventina di anni fa, come io stesso del resto avevo fatto in un libro di cui ero stato il curatore insieme alle colleghe Milica Uvalic e Amy Verdun e dedicato proprio alla globalizzazione: Globalization, Development and Integration: a European Perspective, Palgrave Macmillan, 2009.

La ragione per cui ho deciso di riportare quella canzone all’inizio del mio libro sull’economia della globalizzazione è che l’opposizione fra apertura economica e protezionismo, evidentemente entrambi deleteri se applicati senza la giusta misura, potrebbe essere ricomposta proprio in un contesto di pace, fratellanza ed empatia a livello globale, in cui le nostre ragioni sono contemperate con quelle degli altri e viceversa. È possibile pensare ad una “globalizzazione illuminata” o, se si vuole a un “protezionismo illuminato”, come già anni fa suggeriva Vittorangelo Orati, fatto di decisioni condivise e non unilaterali.

Una globalizzazione fatta di aperture economiche indiscriminate che non tenga conto delle conseguenze sui “perdenti” è chiaramente sbagliata, così come lo è la chiusura nazionalistica ed autarchica di cui forse abbiamo perso memoria, ma che ha caratterizzato il mondo fra le due guerre, creando le condizioni favorevoli allo scoppio della Seconda guerra mondiale.

Non si può pensare di chiudere le nostre frontiere ai prodotti altrui senza renderci conto che saremo ripagati con la stessa moneta, fatta di ritorsioni commerciali che danneggerebbero le nostre industrie esportatrici, spesso quelle più avanzate, proprio perché soggette alla concorrenza internazionale; così come non possiamo ignorare che l’apertura economica ha permesso di togliere dalla povertà larghe fasce di popolazione in aree geografiche lontane dalla nostra, ma di cui non per questo dovremmo disinteressarci. Ma è anche evidente che non possiamo lasciare che la globalizzazione economica diventi un fine, costi quel che costi, anziché un mezzo per migliorare le condizioni di vita delle persone, anche di quelle meno attrezzate ad affrontare il cambiamento e le novità.

L’onorevole Meloni, invece, è soltanto preoccupata per la presunta perdita dell’identità nazionale a favore della “omologazione mondialista”, come se MacDonald potesse davvero pensare di vendere i suoi hamburger “omologati” in India, dove venerano le mucche e quindi, a causa della minaccia “mondialista”, quel paese stesse perdendo la propria identità nazionale: sta accadendo esattamente il contrario, come in molte altre parti del mondo. L’onorevole vagheggia probabilmente il ritorno all’autarchia economica che sperimentammo nel ventennio fascista (quello della “perfida Albione” e del “Dio stramaledica gli inglesi”) per proteggere in maniera unilaterale la produzione nazionale, come se il risultato finale sulla nostra economia non dipendesse anche dalla risposta delle nostre controparti.

C’è una quantità enorme di errori che possiamo commettere. Cerchiamo di farne di nuovi, evitando quanto possibile di ripetere quelli vecchi.

* professore associato di Economia Politica all’Università di Pisa

(24 luglio 2020)




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