Imbarazzo o censura? Le immagini del Klan dipinte da Philip Guston diventano una mostra posticipata

Matilde Puleo



Studiosi e antropologi che si occupano d’arte contemporanea sanno che oggi l’immaginario figurativo dell’intero pianeta non è più rappresentato dagli artisti. Anzi, se ora gli artisti smettessero di creare le loro immagini, non risulterebbe intaccato in alcun modo il patrimonio figurativo dei nostri giorni. Semplicemente non se ne sentirebbe il bisogno.

È un dato di fatto e non è una novità: gli artisti se ne sono accorti negli anni Settanta, dopo la grande ubriacatura del Pop Art. Ciò che è davvero nuova e perfino poco postmoderna in questo 2020 è la rinuncia a realizzare una mostra antologica con motivazioni che – con grande imbarazzo – sono state condivise da quattro importanti direttori museali. Si rinuncia e si posticipa (e anche se non c’entra il Covid), è sempre la motivazione a risultare “allarmante”. Specie perché si tratta di un grande evento, programmato e progettato da esperti, in grado di coinvolgere quattro istituzioni museali prestigiose. Il virus è subdolo anche in questo caso e dunque è inedito e dannoso il timore e l’abdicazione alla missione civilizzatrice assegnata ai musei, così come vuole la carta della Conferenza dell’ICOM del 2014.

La notizia non ha avuto molta eco. Pochi perfino sono stati i critici d’arte e gli addetti ai lavori scandalizzati dall’annuncio di qualche giorno fa – realizzato dagli uffici stampa della National Gallery of Art di Washington, del Museum of Fine Arts, Houston, del Museum of Fine Arts, Boston e della Tate di Londra. La mostra in grado di suscitare così tanta prudente sottomissione al consenso, esibisce quanto scoperti siano attualmente i nervi dei direttori museali americani e inglesi. Nervi incapaci di gestire cioè un normale esercizio di pensiero critico e che ormai atterriti e disorientati sono incapaci di guardare il lavoro dell’artista canadese Philip Guston (1913-1980), protagonista dell’Espressionismo astratto americano.

Insomma, il figlio di una famiglia ebrea in fuga da Odessa nei primi anni del secolo, all’epoca dei pogrom e che negli USA trova e sperimenta l’odio dei Ku Kux Klan, è di nuovo un ragazzo scomodo. Un artista imbarazzante, specie da quando comincia a ritrarre il clan in pose ironiche e buffone. Dunque un artista da isolare un’altra volta, così come accadde negli anni ’70, all’epoca del suo passaggio dall’informale alla figurazione. Scelta quest’ultima, considerata poco ortodossa da critici e collezionisti.

La grande antologica che avrebbe dovuto – per ironia della sorte – intitolarsi “Philip Guston Now” è stata rimandata al 2024 perché i 4 musei hanno ritenuto che le immagini dell’artista abbiano bisogno – ora più che mai – di essere incorniciate da spiegazioni, "prospettive e voci aggiuntive" in grado di scongiurare il peggio[1]. Vista così, la notizia potrebbe perfino essere una manna per il buon nome dell’artista e sarebbe una retorica azione di marketing se non fosse espressione di una totale sottomissione alla legge del più forte e incapacità di concepire per l’arte un ruolo diverso da quello di oggetto d’arredo.

Vogliono aspettare – dicono nel comunicato stampa – che il “messaggio di giustizia sociale e razziale” al centro del lavoro dell’artista “possa essere interpretato più chiaramente”.

Ora che la rete ha già monopolizzato con ridondanza e disinvoltura il repertorio della storia dell’arte di tutte le civiltà, dal più remoto passato alla contemporaneità e che tutto è fruibile in maniera orizzontale e democratica, si stenta a credere che ci sia un’immagine che mostri in sé i segni di uno “scandalo” difficile da sopportare per i nostri occhi. Ora che il Partenone, la Gioconda o Picasso non sono più popolari dei selfie del blogger, o dei video dei soldati dell’ISIS nella loro furia distruttiva sui siti archeologici in Siria, ci sembra molto interessante che un “messaggio di giustizia” abbia bisogno di un apparato didascalico appesantito dalla possibilità che le immagini siano considerate pericolose. Facendo ritornare, ancora una volta, l’assurda idea che la violenza umana possa essere una diretta conseguenza dell’immagine istigatrice.

Eppure è noto che la centralità che ha acquisito la vista rispetto agli altri sensi ha finito per identificare le cose esclusivamente con la loro pelle visiva e ciò ha fatto perdere di centralità l’arte stessa all’interno di una società ormai “secolarizzata” dalla tecnica, che si appropria senza limiti delle immagini grazie alle nuove gestualità e funzioni dei device, dallo swipe, al tap, dal “copia e incolla”, al “salva sul drive”.

L’arte, nel suo cammino discendente, occupa ormai un luogo marginale all’interno di una postmodernità che ha raggiunto il suo totale compimento. Oggetto lontano dai nostri interessi, l’arte contemporanea appare ridotta a ornamento, a tempo libero o a segno socialmente rappresentativo di auto-promozione sociale. Le cifre da capogiro del mercato dell’arte non fanno che allontanare il pubblico e in questo ghetto nel quale si trova confinata e protetta, l’arte non fa altro che sparire. Si compie così la profezia di Baudrillard circa l’occultamento e invisibilità dell’arte proprio nell’epoca della massima diffusione dell’immagine e si arriva fino all’attuale indifferenza generale. Alla fine del secolo scorso cioè, abbiamo dovuto fare i conti con una difficile verità: l’opera d’arte a forza di esporre e di esporsi è diventata non solo invisibile, ma anche incapace di minaccia.


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Quando Philip Guston lavorava ai suoi quadri, questo triste destino era ancora impensabile: l’artista seppure non più vate o profeta, poteva ancora dirsi osservatore di un mondo in declino. Anzi, all’inizio degli anni 70 circolavano sentimenti di moderato ottimismo circa le istituzioni americane, in quanto gli eventi gravi come le dimissioni di un presidente come Nixon sembravano indicare che le azioni dell’opinione pubblica o l’impegno dei giornali potevano determinare la politica ufficiale. Su questo sfondo di irrequietezza e speranza si muoveva Philip Guston con immagini volte a descrivere gli echi di quella crisi d’identità che colpiva la società nel suo complesso. Nelle sue opere si dissolvevano l’unità di forma e di contenuto, così come accadeva nei fumetti underground di cui si nutriva, ma rimaneva la speranza di parlare con la parte ragionevole del paese. Le sue opere sono annotazioni di una mente attenta tanto all’arte quanto alla vita materiale delle strade e personificano il passaggio dall’artista istintivo interprete della condizione umana a muto osservatore sociale che dà forma ai simboli trovati. I cappucci bianchi dei suoi buffi membri del KKK occupano lo spazio delle sue opere con l’implicita intenzione di aggredire l’ingiustizia e l’immobilità sociale e parlano ancora di diritti civili a chi voglia intendere. Philip Guston e i suoi sodali cioè, oltre a cambiare il significato dell’arte trasformarono anche il modo di considerare l’osservatore, chiedendo partecipazione. Ecco perché suona male o eccessivamente paternalistica questa necessità di tutelare il visitatore, temendo per lui che possa interpretare male il messaggio dell’artista.

Forse questi personaggi un po’ goffi che guidano automobili sempre un po’ strette, che fumano sigari attraverso il cappuccio e che tramano alle spalle della democrazia americana non sono solo membri incappucciati del Ku Klux Klan. Ora queste immagini espongono un razzismo sistemico e offrono uno specchio nel quale è difficile guardarsi. Il pericolo quindi, quello da censurare, non sta nel guardare il suo lavoro, ma nello sconsigliare, tutelare e cercare di edulcorare lo sguardo, aspettando tempi migliori per parlare dell’identità americana o di quanto il mondo dell’arte commerci il proprio marchio di ipocrisia.

[1] https://www.nga.gov/press/exh/5235.html
(19 ottobre 2020)





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