Immunità va cercando… Sulla proposta di abolire la responsabilità amministrativa in caso di “colpa grave”

Dario Provvidera

Pubblichiamo due interventi di Dario Provvidera, Consigliere della Corte dei conti, e Alberto Mingarelli, Vice procuratore generale della Corte dei conti presso la Procura regionale per l’Emilia Romagna.

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In questi giorni, stimolati anche dalle anticipazioni sui prossimi provvedimenti governativi, sui quotidiani sono apparsi diversi articoli sul tema della “paura della firma” da parte dei dipendenti pubblici, indicata come principale causa della lentezza delle procedure amministrative, in particolare in materia di contratti pubblici. Tra le soluzioni proposte, la più radicale è quella di ridurre la responsabilità ai soli casi di dolo. Sono state poi ventilate alcune ipotesi di “limitazione” della colpa grave, di cui però ancora non sono chiari i termini.

Tentiamo allora di chiarire, in sintesi, le implicazioni e la portata effettiva della proposta più estrema. Partiamo da un dato di fatto. La cd. “paura della firma”, intesa come paura di incorrere nella responsabilità erariale per colpa grave, è una paura più agitata all’esterno che sentita all’interno della pubblica amministrazione: rappresenta un problema minore rispetto ai tanti che, al contrario, non sembrano adeguatamente evidenziati dal dibattito pubblico.

Lo strumento che dovrebbe orientare l’attività amministrativa è la norma. Eppure non si parla, o quasi, di qualità e quantità della produzione normativa nel settore dei contratti pubblici.

I soggetti protagonisti dell’attività amministrativa sono i funzionari e i dirigenti pubblici. Eppure non ci si interroga sul loro effettivo grado di motivazione, di preparazione, di capacità organizzativa e decisionale, di formazione ed esperienza nelle nuove tecnologie.

Da una ricerca del maggio 2017 effettuata da FPA sul tema della burocrazia difensiva emerge che la principale misura anti-burocrazia è individuata nella scelta meritocratica dei dirigenti e nella necessità di avere una dirigenza che abbia solide competenze, che sia valutata per i risultati e gli effetti che è in grado di produrre, che non sia legata alla politica sia dal punto di vista degli interessi personali, sia dal punto di vista del gioco di ruolo e del balletto delle responsabilità all’interno dei processi decisionali.

Eppure di queste esigenze non si discute sui media.

La Corte dei conti, nel rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica delle Sezioni riunite e nella relazione 2020 sulla gestione degli enti locali, ha puntualmente riferito al Parlamento e ai cittadini sulle cause di grave rallentamento delle procedure relative alle opere pubbliche. Al netto dello scempio erariale delle opere rimaste incompiute, i dati disponibili dimostrano che, in media, dal finanziamento all’esecuzione delle grandi opere pubbliche passano circa 13 anni. Risultano penalizzanti soprattutto gli intervalli di tempo che intercorrono tra le diverse fasi procedurali (ad esempio, tra la progettazione e l’affidamento dei lavori). E le analisi evidenziano l’estrema difficoltà di lavorare con norme che cambiano praticamente ogni giorno, la progressiva riduzione del personale degli uffici tecnici degli enti pubblici, che così si trovano privi della competenza per gestire appalti complessi.
Non è raro trovare enti che esternalizzano a privati la redazione dei bandi di appalto, aumentando così, oltre alla spesa pubblica (già incrementata da infiniti contenziosi che alimentano un ulteriore giro di incarichi legali esterni) anche il rischio di corruzione e infiltrazioni delle mafie. Siamo di fronte, come in altri (troppi) pezzi fondamentali del sistema Italia ad un problema strutturale. E una politica seria dovrebbe essere quella di rifuggire da slogan vuoti il cui contenuto concreto è, appunto, il nulla. Adottare per tutte le opere pubbliche la procedura seguita per la ricostruzione del ponte di Genova o eliminare la responsabilità erariale per colpa grave hanno lo stesso “sapore” delle soluzioni semplici e genuine, a portata di mano. Come dire: il chilometro zero del pensiero. E pazienza se poi qualcuno non capisce come si possa applicare una gestione commissariale come quella seguita a Genova, che è propria delle situazioni di emergenza e che quindi agisce “in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale”, all’intero universo delle opere pubbliche, senza che ciò comporti eliminare praticamente l’intero quadro normativo che regola la concorrenza, l’affidamento degli appalti, la tutela del lavoro, la congruità dei costi e altri piccoli dettagli di questo genere. Del resto, rendere ordinario lo stato di emergenza non è sempre stato la nostra peculiarità nazionale?

Ma il chilometro zero del pensiero fa diventare particolarmente appetitosa anche la dieta dimagrante a cui andrebbe sottoposta la responsabilità erariale.

Evitiamo l’approfondimento sui concetti di “dolo” e di “colpa grave” per non tediare con tecnicismi indigesti, anche se, qualche volta, prima di cucinare un prodotto, e darlo in pasto all’opinione pubblica, sarebbe opportuno conoscerlo bene o altrimenti ascoltare anche chi per professione lo coltiva. Tuttavia davvero non si comprende per quale ragione si dovrebbe privare la pubblica amministrazione – rispetto a qualsiasi altro ente di natura privata – delle possibilità di vedersi rifondere danni causati da propri agenti o dipendenti per colpa grave (dopo avere già scaricato sulla collettività quelli per colpa lieve), vale a dire dovuti ad una negligenza così grave del dipendente che in qualsiasi ente privato porterebbe al suo licenziamento. Senza dimenticare che, dal punto di vista della collettività, il danno sarebbe doppio: non solo quello diretto dei ritardi, degli sprechi e dell’inefficienza, ma anche quello indiretto dei risarcimenti che i privati potrebbero ottenere dall’amministrazione e che finirebbero per gravare su tutti noi.

Occorre allora chiarire una distinzione che può essere comprensibilmente sfuggita ai non esperti di diritto (un po’ meno comprensibilmente a chi il diritto lo insegna): il giudice contabile non è il giudice penale. La Corte dei conti deve perseguire sprechi, gravi negligenze nella gestione dei beni pubblici, omissioni e ritardi che determinano ingenti danni economici al paese. L’incapacità e l’inerzia non sono crimini, ma costano. La stragrande maggioranza del personale amministrativo non agisce con dolo, ma abbiamo alcuni funzionari e dirigenti poco preparati, negligenti e che non dimostrano quella professionalità che è presunta nel fatto di essere selezionati con un concorso pubblico e la cui mancanza non può ricadere a danno della collettività. E, d’altra parte, abbiamo tanti dirigenti e funzionari capaci che lavorano bene e non vorrebbero essere confusi nella notte (della deresponsabilizzazione) dove tutte le vacche (ormai magre) saranno nere.

Definiamo allora questa proposta, che speriamo non venga accolta dal decisore politico, per quello che è, con un termine che mai come ai tempi del Covid-19 suona bene alle orecchie dell’opinione pubblica: immunità.

La parola immunità, come in un bel saggio di Roberto Esposito ci viene ricordato, ha un’etimologia latina che merita la massima attenzione: immunitas è il termine contrario a communitas ed entrambi derivano dal termine munus, che significa ufficio, obbligo, dono nei confronti degli altri. I membri della communitas sono uniti nel vincolo reciproco, chi è immune ne è esonerato. L’equilibrio tra comunità e immunità è delicatissimo. E anche nel corpo sociale potrebbe verificarsi quanto avviene nel corpo fisico con le malattie autoimmuni: un sistema immunitario troppo sbilanciato potrebbe distruggerlo. Se vogliamo esserne consapevoli, non nascondiamo questa parola dietro slogan come “semplificare”, “sburocratizzare”, e altre parole d’ordine ripetute come poesie mandate a memoria, scritte da qualcuno che, credendo di aver trovato la strada per uscire dalla nostra “selva oscura” amministrativa, così parafraserebbe maldestramente il sommo poeta: “Immunità va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei firma rifiuta…”.
*Consigliere della Corte dei conti

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Considerazioni sulla proposta di abolire la responsabilità amministrativa in caso di “colpa grave”

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Da alcuni giorni si sono succeduti interventi sui quotidiani nazionali di alcuni docenti universitari che mettono in correlazione la c.d. “paura della firma”, che sarebbe il motivo (o uno dei motivi) della lentezza e dunque dell’inefficienza della P.A. italiana, con la responsabilità amministrativa cui sono sottoposti davanti alla Corte dei conti.

Per cui, a loro avviso, sarebbe necessario ridurre i rischi per funzionari e dirigenti pubblici di rispondere dei danni da loro prodotti davanti alla Corte dei conti o di subire processi penali per abuso d’ufficio per facilitare le decisioni e migliorare l’efficienza amministrativa.

Si legge in un documento pubblicato in rete tra le “Proposte per rilanciare l’economia attraverso gli investimenti pubblici locali” dell’ANCI Toscana del 17.4.2020 per quanto riguarda l’ambito della Giustizia amministrativa:

Si chiedono semplificazioni nei ricorsi alla giustizia amministrativa per i contenziosi sorti in fase di gara, prevedendo una norma per gli anni 2020-2022 limiti la responsabilità contabile e amministrativa del RUP, oggi ritenuta eccessiva rispetto alle esigenze preminenti di speditezza amministrativa ed eviti il blocco alle procedure di appalto in conseguenza dei ricorsi al TAR sulle procedure di gara. In particolare:

·-responsabilità erariale del RUP solo in caso di dolo”.

Anche il documento sulle Iniziative per il rilancio Italia 2020-2022 (c.d. Piano Colao) prevede il “Superamento della “burocrazia difensiva”. Intervenire per riformare la responsabilità dei funzionari e dirigenti pubblici per danno erariale in casi differenti dal dolo, e/o prevedere che il premio assicurativo (compreso quello per l’assistenza legale da parte di un professionista scelto dal dirigente) venga pagato dall’amministrazione di appartenenza.

Prescindendo dagli approfondimenti sulla “paura” dall’abuso d’ufficio in sede penale, quella connessa alla responsabilità erariale si lega a considerazioni molto generiche ed al limite del pretestuoso.

La responsabilità amministrativo-contabile non è una creazione di poco tempo fa; essa risale ai primi decenni dello scorso secolo, sviluppandosi parallelamente alle funzioni dello Stato e della Pubblica Amministrazione.

Chi ha un rapporto di servizio con una Pubblica Amministrazione o un incarico elettivo presso la stessa e nell’esercizio di attività gestionali compie un danno alla stessa ha il dovere di risarcirla.

Si tratta di un principio molto semplice che dovrebbe essere pacifico in ogni moderno Stato di diritto.

Si deve rispondere dello sperpero delle risorse dei contribuenti, non esistendo privilegi di funzione che desterebbero i ricordi sgradevoli dell’ancien regime anteriore alla Rivoluzione francese.

La particolarità italiana è che nel nostro Paese esiste una magistratura specializzata che è incaricata attraverso un suo pubblico ministero di perseguire la responsabilità amministrativa con un regolare processo, che recentemente è stato disciplinato con il d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile), codice che ha previsto una serie di modifiche delle norme preesistenti, soprattutto a tutela dei soggetti indagati (invitati a dedurre) e poi chiamati in giudizio.

La risarcibilità del danno erariale e la competenza della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica sono state ritenute così rilevanti da essere contemplate in disposizioni costituzionali come gli artt. 28 e 103.

Ma le particolarità rispetto alla risarcibilità dei danni causati dai dipendenti al datore di lavoro privato non si limitano alla giurisdizione specializzata e alla presenza di un pubblico ministero.

Già nella formulazione originaria della responsabilità amministrativa risalente ai primi decenni dello scorso secolo esisteva il c.d. potere riduttivo, un istituto attraverso cui i collegi giudicanti potevano discrezionalmente ridurre l’entità della condanna richiesta dal pubblico ministero (in considerazione di difficoltà obiettive, inesperienza del funzionario, scarsità di personale disponibile etc.).

Poi la legislazione negli anni ’90, (in particolare leggi 19 e 20 del 1994) all’indomani di “Tangentopoli” ha previsto il decentramento della giurisdizione della Corte dei conti in tutte le regioni italiane (prima la struttura giurisdizionale era quasi solo nelle sedi centrali a Roma) per rendere più effettiva la possibilità di agire dei pubblici ministeri contabili.

Ma nel 1996 sempre per la c.d. paura della responsabilità il legislatore riformò la responsabilità amministrativa prevedendo delle fortissime attenuazioni.

In particolare: si stabilì che la responsabilità sussisteva solo nei casi di colpa grave e non di semplice colpa (o colpa lieve), si escluse la trasmissibilità agli eredi del credito dell’Erario (salvo in caso di dolo ed arricchimento ingiustificato, da provare dal PM), si escluse la solidarietà tra più soggetti responsabili se chiamati congiuntamente (c.d. principio di parziarietà), inoltre – cosa non da poco – venne abbreviato il termine di prescrizione per l’azione erariale da 10 a 5 anni, dal momento in cui era stato commesso il fatto causativo del danno.

La giurisprudenza della Corte dei conti ha identificato l’elemento soggettivo della colpa grave con l’“intensa negligenza”, la “sprezzante trascuratezza dei propri doveri”, l’“atteggiamento di grave disinteresse nell’espletamento delle proprie funzioni”, la “macroscopica violazione delle norme”, il “comportamento che denoti dispregio delle comuni regole di prudenza”, tutte situazioni che devono essere dimostrate dal Pubblico Ministero.

Non basta quindi essere incorsi in un errore qualsiasi per realizzare l’elemento soggettivo della colpa grave.

Forse non è inutile ribadire che tutte queste limitazioni non esistono nel caso in cui il datore di lavoro chiede i danni al proprio dipendente in ambito privatistico.

Ma non è finita. Nel 2009 il legislatore è intervenuto circoscrivendo la possibilità di aprire procedimenti di danno erariale prevedendo la nullità delle citazioni per danno erariale se non precedute a monte da denunce specifiche e concrete, a prescindere dall’istruttoria e dal fondamento o meno delle accuse incluse poi nello stesso atto di citazione.

Con la stessa legge nel 2009 è stata ridotta l’area della perseguibilità da parte delle procure della Corte dei conti del danno all’immagine della PA, anche qui con notevoli differenze rispetto al danno all’immagine dei soggetti privati dove non esiste alcuna limitazione.

Il legislatore ha infatti preteso che per aversi il danno all’immagine risarcibile vi fosse una sentenza penale definitiva di condanna e che si rientrasse nei c.d. reati contro la PA, escludendo tutti gli altri casi.

C’è poi un altro ambito che il legislatore ha precluso alla giurisdizione per danno erariale della Corte dei conti ed è quello delle società partecipate da enti pubblici c
he nel nostro Paese sono circa 10.000 e rappresentano spesso luoghi di sperpero delle risorse pubbliche senza controlli da parte degli enti pubblici soci.

Qui se gli amministratori o dipendenti delle società partecipate compiono danni ad un patrimonio – pur sempre pubblico, al di là della forma privatistica delle società – l’unica possibilità è data dall’azione di responsabilità della stessa società o del socio pubblico che risultano essere rarissime e sostanzialmente improbabili.

In questo quadro normativo non sembra esservi spazio per questa “paura” della azione di responsabilità amministrativa, che non si sa bene quali firme paralizzerebbe.

Se il dirigente o il funzionario di una PA non firma o non procede celermente nel procedimento, ciò si deve per lo più alle carenze nella capacità programmatoria dell’ente, alla incompetenza di chi deve decidere, o alla presenza di normative stratificate, farraginose e spesso contrastanti (pensiamo all’ultimo esempio da tutti noi osservato delle ordinanze di emergenza dei governatori regionali in contrasto con i decreti legge o i DPCM del Governo).

Venendo al caso del RUP, ossia il responsabile unico del procedimento, figura centrale nei lavori pubblici, unico su cui viene individuata in modo un po’ più preciso la presenza del timore da firma (da parte dell’ANCI Toscana), può osservarsi quanto segue.

Il RUP, a partire dalla legge n. 109/1994 (c.d. “legge Merloni”) in materia di appalti – ma ancor prima con la legge 241/1990, che istituiva la figura, generale e prodromica del responsabile del procedimento – e nella successiva evoluzione normativa (caratterizzata da una tale stratificazione di disposizioni da richiedere successive codificazioni, estremamente complesse) ha assunto un ruolo sempre più essenziale, in quanto garante della trasparenza ed efficienza dell’azione amministrativa, in procedimenti spesso farraginosi, ambito elettivo di illeciti penali (quali corruzione, concussione o abuso d’ufficio, per citare i più ricorrenti), e caratterizzati da incertezza proprio nell’attribuzione delle competenze e delle consequenziali responsabilità.

Sembra, dunque, un controsenso voler “deresponsabilizzare” proprio l’organo preposto ad assicurare quella trasparenza ed efficienza che anche il “Piano Colao”, in altra parte, dice di voler perseguire.

In pratica in tutto il procedimento che riguarda i lavori pubblici, le forniture di beni o di servizi pubblici, il RUP rappresenta un presidio di legalità, che persegue l’interesse pubblico alla miglior prestazione ottenibile nei tempi e nei modi stabiliti dalla stazione appaltante, nell’interesse dell’intera comunità.

L’art. 31, co. 4, del Codice dei contratti individua le competenze principali del RUP, rinviando ad altre disposizioni (interne al Codice stesso) per la previsione di ulteriori compiti.

Trattasi di una funzione obbligatoria e non rifiutabile da chi riceve l’incarico.

Tali funzioni sono molteplici ed investono l’intero arco della procedura per l’esecuzione d’un intervento (un elenco è reperibile al § 5 delle linee guida n. 3 dell’ANAC).

Se già nominato, il RUP svolge un ruolo attivo nella fase di programmazione, potendo formulare proposte o fornire informazioni utili alla preparazione degli atti di programmazione dei contratti pubblici (come il programma triennale delle opere pubbliche).

Durante la fase di progettazione dei lavori, il RUP propone, se del caso, l’utilizzo del concorso di progettazione o del concorso d’idee, coordina le attività necessarie alla redazione del progetto di fattibilità tecnica ed economica, del progetto definitivo ed esecutivo, provvedendo alla validazione dei risultati dell’attività di verifica dei progetti, oppure effettuando egli stesso tale verifica in relazione ai lavori di importo inferiore al milione di euro.

Il RUP ricopre un ruolo attivo anche nella fase di individuazione del contraente attraverso la scelta della procedura d’affidamento, del criterio d’aggiudicazione, della tipologia del contratto da stipulare e provvedendo, infine, a vigilare sul corretto e razionale svolgimento della selezione.

Anche nella delicatissima fase esecutiva dove sopravvengono le c.d. varianti, o ci possono essere sospensioni dei lavori che portano al contenzioso con le ditte esecutrici il RUP ricopre un ruolo assolutamente decisivo.

Ma proprio questo stato della normativa rende estremamente pericoloso lo svuotamento delle responsabilità del RUP che si propone, sia pure per un periodo di tre anni.

Tutte quelle funzioni di garanzia e di vigilanza nell’interesse pubblico, che certamente non possono garantire altri soggetti ma sono convogliate nella figura del RUP perderebbero il loro riferimento ormai naturale.

A questo punto gli enti (più di quanto non lo abbiano fatto già fino ad ora nei casi patologici) nomineranno sempre più spesso un soggetto privo di competenze, facilmente manipolabile ed irresponsabile.

In tal modo il nuovo RUP potrebbe avallare qualsiasi decisione contro l’interesse dell’ente committente che gli venga richiesta dai soggetti controinteressati ed i danni derivanti dalle scelte o dalle non scelte del nuovo RUP rimarrebbero tutti impuniti a carico dell’Ente, non recuperabili nemmeno con l’azione della Procura della Corte dei conti.

Il nuovo RUP sarebbe scelto per incompetenza o per capacità di acquiescenza alle pressioni di professionisti, imprese private e amministratori opportunisti o corrotti, senza che vi siano per lui (nè per altri) rischi di azioni di recupero a favore dell’ente salvo che le procure penali riescano a provare la corruzione, ma l’ipotesi è sempre assai remota. E comunque i procedimenti penali non hanno come obiettivo il risarcimento dell’ente pubblico danneggiato.

Ritengo poi che la deresponsabilizzazione del RUP (che suona già cacofonica in sé, trattandosi di un responsabile non responsabile e dunque una figura inutile) causerebbe, di fatto, un enorme squilibrio e caos nella gestione degli appalti. Non si saprebbe più chi deve fare cosa.

Nessuno assumerebbe scelte sgradevoli anche quando assolutamente necessarie, il che finirebbe per aumentare lo scontento ed i contenziosi con la conseguenza di maggiori spese e ulteriore lentezza nello svolgimento delle procedure.

Che questa deresponsabilizzazione acceleri la conclusione delle opere (ammesso che sia questo l’obiettivo) è una pura illusione.

L’aumento delle competenze e responsabilità del RUP (voluto dal legislatore del Codice dei contratti e dalle Linee guida dell’ANAC) aveva un senso con la riduzione del numero delle stazioni appaltanti (meno stazioni appaltanti con meno RUP necessari ma più qualificati) ma la riduzione delle stazioni appaltanti prevista con il nuovo codice è stata fortemente osteggiata da Regioni ed enti locali e probabilmente sarà rimessa in discussione.

Se si vuole limitare la responsabilità del RUP si può spezzare la sua competenza in più figure come era prima dell’ultima legislazione, oppure si può limitare la responsabilità da un punto di vista quantitativo (come accaduto con la normativa sulla responsabilità erariale dei medici) ovvero imporre un ausilio degli stessi RUP da parte di organi esterni a livello provinciale o regionale.

La soluzione della deresponsabilizzazione deve ritenersi senz’altro la peggiore, tale da non risolvere il problema della lentezza delle procedure di appalto, ma sicuramente in grado di generarne altri anche più gravi.


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Peraltro, la temporaneità della norma legata al c.d. periodo ricostruttivo, a parte la tendenza italiana a trasformare in definitiva ogni riforma nata come provvisoria, non ne riduce gli effetti negativi.

La presenza della responsabilità per colpa grave – come precisò la Corte Costituzionale all’indomani della riforma del 1996 – rappresenta un minimo per garantire l’impegno e la professionalità del funzionario e dirigente pubblico.

Essa appare indispensabile non solo per risarcire dei danni subiti dalle Pubbliche amministrazioni ma per perseguire gli obiettivi della legalità e del buon andamento nella PA previsti dall’art. 97 della Costituzione.

Non sono sufficienti gli incentivi e i premi di produttività, che pure hanno il loro peso, ma che dipendono da tante variabili e spesso vengono distribuiti in modo scorretto come dimostrano molte sentenze della Corte dei conti e di altre giurisdizioni.

Nella mia esperienza più che ventennale di procuratore della Corte dei conti ho conosciuto molti segretari comunali, funzionari, dirigenti pubblici ed anche amministratori politici, che hanno visto nell’azione di responsabilità della Corte dei conti un ausilio indispensabile per mantenere all’interno dell’ente pubblico la rotta della legalità e dell’efficienza, non uno spauracchio che induce all’inazione come viene rappresentato da coloro che ora sostengono la sostanziale soppressione della responsabilità erariale, senza proporre alcuna alternativa.
* Vice procuratore generale della Corte dei conti presso la Procura regionale per l’Emilia Romagna
(13 giugno 2020)





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