Impeach Trump?

Elisabetta Grande

Dietro l’impeachment di Trump, che prende le forme di un’accusa per interferenze straniere nelle elezioni federali americane, c’è in gioco la sopravvivenza di quel sistema di pesi e contrappesi che sta al cuore della democrazia nordamericana.

Trump ha davvero superato il segno? Il rischio di uno suo impeachment è oggi concreto? La questione è delicata perché come si sa l’impeachment, ossia la messa in stato di accusa del Presidente (o di altro funzionario federale) da parte della camera dei rappresentanti (la House of Representatives) non è un atto dai riflessi soltanto giuridici. Si tratta di una mossa dalle implicazioni anche e soprattutto politiche e morali, il cui successo o insuccesso in termini di rimozione finale dall’incarico, può cambiare le sorti di un paese e rinforzare o indebolire pesantemente le fondamenta di un sistema democratico e le sue conquiste di civiltà.  

Impeach Warren! Urlavano coloro che trovavano scandaloso che la Corte Suprema da lui presieduta nel 1954 avesse desegregato il sistema scolastico statunitense, permettendo ai bimbi neri della scuola di Topeka in Kansas di iscriversi nelle scuole dei bianchi. E certamente qualora Earl Warren fosse stato messo in stato d’accusa dalla camera dei rappresentanti e poi rimosso dal Senato la storia nordamericana sarebbe stata assai diversa.
D’altronde molto diverso, e per le ragioni opposte, sarebbe stato il cammino di civiltà giuridica, sociale e morale di quel paese se il Senato, per un solo voto, non avesse mandato assolto nel 1868 l’allora presidente Andrew Johnson dall’accusa di aver rimosso illegittimamente dall’incarico il segretario di guerra Edwin Stanton, violando una normativa federale da poco emanata che richiedeva il consenso del Senato per farlo. Andrew Johnson, succeduto ad Abraham Lincoln dopo il suo assassinio, era notoriamente poco favorevole all’eguaglianza razziale. Edwin Stanton, viceversa, era pronto a schierare l’esercito federale, sia per evitare che negli Stati del sud i gruppi del Ku Klux Klan prendessero il sopravvento, che per attuare il promesso piano di attribuzione di 40 acri e un mulo a ciascuna famiglia di neri finalmente emancipati dalla schiavitù. L’impeachment di Johnson era dunque motivato da una preoccupazione politica e morale di straordinaria importanza e la sua assoluzione dall’accusa mossagli dalla House of Representatives significò influenzare profondamente il corso della storia degli Stati Uniti. Johnson ritirò, infatti, subito l’atto con cui era stata promessa la distribuzione di terre ai neri. Agli stessi, negli stati del sud, fu invece riservata l’applicazione dei cosiddetti Black Codes, che vietavano soltanto ai neri di vagabondare, di rimanere disoccupati, di essere ubriachi, di possedere armi e via dicendo: pena la condanna alla reclusione e ai lavori forzati. Si trattò dell’inizio della carcerazione massiccia dei neri d’America, che ancora oggi riempiono le prigioni statunitensi in misura cinque volte superiore ai loro connazionali bianchi. 

Ecco perché si può ragionevolmente dire che la discriminazione razziale, proseguita alla fine dell’800 e all’inizio del ‘900 con la segregazione attuata delle cosiddette Jim Crow laws (ossia quelle leggi che impedivano ai neri di frequentare i medesimi luoghi dei bianchi) e ancora oggi dura a morire, si sia dispiegata come si è dispiegata, in buona misura a causa dell’assoluzione in Senato di Andrew Johnson, il cui impeachment aveva posto le basi per una diversa evoluzione della storia.

Qual’è oggi la preoccupazione di ordine politico e morale, ma direi anche istituzionale, di lungo termine che sta dietro l’avvio della procedura volta a mettere in stato di accusa il Presidente Donald Trump?
In base alla costituzione degli Stati Uniti perché la camera dei rappresentanti possa votare a maggioranza semplice la messa in stato di accusa occorre ipotizzare che il Presidente abbia commesso “tradimento, corruzione, o altri gravi reati e misfatti” (“treason, bribery, or other high crimes and misdemeanors”: così l’art. II, sez.4).
Quando nel 1787 i padri fondatori redassero la legge suprema del paese, l’eventualità di un impeachment del Presidente degli Stati Uniti non si presentava per nulla scontata. “The king can do no wrong” era in fondo il principio che gli inglesi, dal cui sistema giuridico quello statunitense derivava, per secoli avevano rispettato.  I 55 delegati dei 12 stati (su 13) che si riunirono nella torrida estate del 1787 a Philadelphia, però, di fronte alla scelta fra mantenere in carica fino alla fine del proprio mandato un Presidente che avesse dimostrato di abusare del proprio potere o – come solo in parte scherzosamente ebbe a dire Benjamin Franklin – esporlo all’assassinio politico, scelsero di attribuire al legislativo la facoltà di rimuoverlo dall’incarico. Nasceva così uno dei due contropoteri attribuito al legislativo nei confronti dell’esecutivo. Accanto al potere di non erogare fondi per iniziative del governo che non fossero condivise dai rappresentanti del popolo, questi ultimi avrebbero infatti potuto rimuovere un Presidente il cui comportamento fosse considerato lesivo degli interessi del paese.
Ed è proprio perché nella decisione della messa in stato di accusa da parte della camera dei rappresentanti (che l’approvano a maggioranza semplice) e nel giudizio che ne segue di fronte al Senato (che invece condanna con la maggioranza qualificata dei due terzi dei presenti) si gioca una partita non tanto giuridica, ma anche e soprattutto politica, che nell’indicare per quali comportamenti del Presidente ciò sia possibile la costituzione americana è particolarmente vaga. 
I misdemeanors, di cui parla la sezione 4 dell’art. II della costituzione, non sono infatti i reati che appartengono alla categoria giuridica di cui portano il nome (i reati si dividono infatti negli States fra felonies e misdemeanors a seconda della loro gravità), ma, come è pacificamente riconosciuto, si tratta di un termine che fa riferimento alla diversa categoria dei “misfatti” politici, che non sono tassativamente previsti da nessuna legge. 
È noto come Trump sia oggi sottoposto a indagini, divenute recentemente pubbliche a seguito dell’apertura della procedura che dovrebbe portare ad una decisione sul suo impeachment da parte della camera dei rappresentanti, per aver condizionato alcuni aiuti economici al governo ucraino all’investigazione che quest’ultimo avrebbe dovuto intraprendere contro il figlio di Joe Biden, suo probabile oppositore alle prossime elezioni presidenziali.  

Ora, che esista una legge che proibisce al presidente di ricevere contributi o donazioni di tipo elettorale, non c’è alcun dubbio: si tratta della sezione 30121 del titolo 52 dello USC (United States Code).  Altrettanto assodato è che i padri fondatori avessero in mente, fra altri possibili casi, proprio le interferenze di potenze straniere negli affari di casa, quando decisero di inserire la clausola dell’impeachment del Presidente in costituzione.

La questione non è però giuridica, non si tratta di capire cioè quale fosse l’intenzione dei padri fondatori nel redigere un articolo della costituzione e quindi di interpretarlo correttamente, né se Trump abbia violato o meno una norma.  La questione è prettamente politico-istituzionale. Dietro l’impeachment di Trump, che prende le forme di un’accusa per interferenze straniere nelle elezioni federali americane, sembra in realtà esserci in gioco la sopravvivenza stessa del sistema democratico statunitense come lo si è conosciuto finora: sembra esserci, cioè, la messa in pericolo di quella dinamica di pesi e contrappesi che sta al cuore della democrazia nordamericana.

Come forse non mai nella storia statunitense, infatti, il legislativo è oggi in procinto di essere esautorato da una delle sue due fondamentali prerogative di controllo sull’esecutivo: il potere di limitarne l’attività stabilendo per quali attività vadano allocati i fondi dello stato.
Occorre tornare per un momento al febbraio di quest’anno e ricordare come, a seguito di uno scontro fra esecutivo e legislativo di inedita durata sulla questione della costruzione del muro al confine con il Messico, il Congresso decidesse infine di allocare alla sua edificazione un miliardo e 375 milioni. Troppo poco per ciò che Trump aveva in mente! Egli ricorse, quindi, alla dichiarazione dello stato di emergenza per spostare dal dipartimento della difesa a quello della sicurezza interna una cifra assai più consistente. Senza qui ripercorrere le tappe della battaglia legale che ne è seguita (su cui si veda Micromega online Trump, il muro con il Messico e l’inquietante decisione della Corte suprema, 23 agosto 2019) è importante sottolineare come il giudiziario, incaricato di dirimere il conflitto, si sia infine schierato a favore dell’esecutivo. 

Nonostante la così detta Appropriations Clause della Costituzione federale americana attribuisca “solamente” a “una legge del Parlamento” il compito di “consentire l’uso del denaro da parte del tesoro” (art I, sez. 9 cl. 7), nel luglio di quest’anno una Corte suprema federale a maggioranza conservatrice ha infatti permesso a Trump, contro il parere di due corti federali inferiori, di utilizzare per la costruzione del muro una somma che il Parlamento aveva ripetutamente escluso che potesse essere utilizzata a quello scopo (così Donald J. Trump, President Of The United States, Et Al. V. Sierra Club, Et Al.,on Application For Stay, July 26, 2019).

È in questo quadro di inquietante possibile scippo da parte di Trump di una delle due fondamentali prerogative costituzionali spettanti al Parlamento (la così detta “borsa”) che, a parere di chi scrive, si spiega l’odierno tentativo di un suo impeachment. Con esso il Congresso metterebbe in campo il secondo dei contrappesi, di cui per Costituzione dispone, al fine di contenere gli eccessi di un esecutivo debordante.

Se, dietro le accuse di interferenze illecite con potenze straniere, la vera posta in gioco dell’odierno tentativo di messa in stato di accusa di Trump è, dunque, la ben più importante questione della tenuta del sistema di pesi e contrappesi ideato dai padri fondatori nel 1787 a garanzia dell’equilibrio democratico, perché il Congresso e in particolare il Senato non dovrebbe prendere posizione a difesa delle proprie prerogative? Perché appare invece così difficile ipotizzare che 20 senatori repubblicani possano schierarsi con i democratici in modo da raggiungere il numero magico di 67 richiesto per condannare Trump?

La maggioranza qualificata dei due terzi al Senato per un verdetto di colpevolezza è alta e la maggior parte dei senatori americani, come ogni politico contemporaneo, ha a cuore il proprio interesse personalissimo prima dell’interesse della propria istituzione e del sistema costituzionale in cui opera. È più importante, insomma, la propria poltrona qui e ora che la sconfitta del parlamento tutto e delle sue prerogative domani. Per questo motivo le audizioni pubbliche di chi accusa Trump di aver fatto affari con l’Ucraina e la Russia, mettendo a repentaglio la sicurezza del paese, restano determinanti.

Si tratta di accuse per così dire di facciata, ossia di un paravento dietro cui si nasconde una questione assai più seria, la cui importanza non va però sottovalutata. Solo se sostenuti da un ampio consenso popolare contro il Presidente, i senatori potrebbero infatti far combaciare la prospettiva lunga e quella breve.  Dichiarando colpevole per la prima volta nella storia degli Stati Uniti il suo Presidente, essi salverebbero allora se stessi, l’istituzione di cui fanno parte e il sistema democratico, così come pensato dai padri fondatori più di due secoli fa.

(26 novembre 2019)




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