Imu, la Chiesa la pagherà mai?
Maria Mantello
La bocciatura del Consiglio di Stato è il risultato di un governo "tecnico" timoroso di gestire in maniera ferma la questione e di scontentare il Vaticano. E intanto incombe una multa dell’Europa se l’Italia non legifera entro il 2012 in materia: la Chiesa benedice, i cittadini meno.
Quando a dover pagare i tributi allo Stato è la Chiesa vaticana, sembra proprio che l’evangelico “date a Cesare quel che è di Cesare” resti lettera morta.
Tanto più se Cesare fa di questa Chiesa la sua grande miracolata, elargendole strutturalmente fiumi di denaro e franchigie d’ogni sorta; inventando finanche meccanismi truffaldini, come per l’8‰, o per l’esenzione Imu.
Tranne poi, dover fare i conti con la Commissione Europea, che ci multa proprio per l’Imu non fatta pagare alla Chiesa sugli immobili commerciali.
Il governo Monti, suo malgrado, si è trovato a dover affrontare questa ultima questione per via della salatissima multa che incombe sul’Italia, ma che può essere sospesa se lo Stato provvederà entro la fine del 2012 ad emanare i decreti per far pagare anche la Chiesa.
Questa manna di risparmio plurimiliardario per il Vaticano per l’Imu non pagata, e di ammanco di miliardi per il pubblico erario (6 miliardi l’anno, secondo l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani), è stata introdotta dal governo Berlusconi nel 2005, che estendeva l’esenzione dall’Ici (ora Imu) già prevista per i luoghi di culto «anche nei casi di immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura …. pur svolte in forma commerciale se connesse a finalità di religione o di culto». Una furbata che sacralizzava questa evasione fiscale.
Il governo Prodi nel 2007 cercò di eliminarla, ma di fronte alle coorti dei parlamentari-chierichetti, schierate anche nel suo seno, alla fine la mantenne con l’ambigua ipocrita dicitura del «non esclusivamente commerciale». Insomma gli enti religiosi gestori di alberghi, ristoranti, case di cura, agenzie turistiche, piscine, ecc… purché abbiano un qualche spazio di preghiera annesso, possono bellamente continuare a non pagare l’Imu; oltre ad usufruire degli ingenti sgravi fiscali sugli utili che da queste attività incamerano, pagando così alla fine pochi spiccioli di Ires.
Una concorrenza commerciale sleale, condotta per giunta col favoreggiamento dello Stato. E per la quale l’Europa ci ha condannato.
L’attuale Governo, le cui frequentazioni oltre Tevere sono note, avrebbe fatto volentieri a meno di mettere mano a questa patata bollente.
L’idea di presentare qualche piccolo conto (tecnico) anche al Vaticano non l’avrebbe mai neppure sfiorato, sebbene si trovasse a dover gestire, nel dopo Berlusconi, un Paese sull’orlo del precipizio.
A tal proposito, vale appena ricordare la conferenza stampa del 4 dicembre 2011, dove al giornalista che chiedeva: «Avete pensato ad estendere il pagamento dell’Ici anche alla Chiesa Cattolica?» il Presidente del Consiglio Monti rispondeva: «È una questione che non ci siamo posti».
Meglio tartassare i lavoratori e anemizzare lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori.
Ce lo chiede l’Europa, ha ripetuto per mesi il ministro Fornero! Ma il nesso tra ripresa economica e arbitrio di licenziamento resta del tutto infondato ad ogni verifica (tecnicamente) razionale.
Ma l’Europa sull’Imu batte cassa davvero. La Chiesa vaticana deve dare a Cesare quel che a Cesare spetta. Scadenza 2013. L’anno in cui il mandato Monti giunge a naturale scadenza.
Una congiuntura temporale questa che, a pensar bene, induce a sospettare come nei giri di valzer tra il 91-bis per ridefinire l’esenzione Imu, il decreto applicativo e la bocciatura del Consiglio di Stato qualche olezzo di strumentale attendismo ci sia.
Ma entriamo un poco più nel merito della vicenda.
Il 24 marzo 2012 sulla G.U. n.71 è pubblicato il decreto-legge sulle liberalizzazioni del 24 gennaio 2012 a cui Monti ha aggiunto l’art.91-bis, quello che dovrebbe servire a far pagare anche alla Chiesa l’Imu.
In Parlamento la maggioranza è ancora quella berlusconiana e le quinte colonne vaticane purtroppo sono spalmate anche nelle fila di chi alla destra dovrebbe opporsi.
Il Vaticano protesta contro lo spauracchio dell’Imu, afferma di pagare già tutto. Le scuole cattoliche sono già sul piede di guerra. Di tasse non vogliono sentire neppure parlare. Loro dallo Stato i soldi li prendono, con buona pace di quel “senza oneri per lo Stato” previsto all’art. 33 della Costituzione, e che grida vendetta.
I bacia scarpette rosso-prada sono agitati soprattutto in Senato. Monti lo sa, e per questo, a sorpresa, il 27 febbraio 2012 si presenta alla Commissione industria al Senato che sta discutendo il decreto sulle liberalizzazioni.
Il premier tecnico ne difende la bontà tecnica, non dimenticando di perorare il suo gioiellino, il 91bis sull’Imu, specificando che le scuole cattoliche non debbono preoccuparsi: per non pagare l’Imu «devono preservare in modo chiaro la modalità non lucrativa». E suggerisce anche il modo: reinvestire gli avanzi di bilancio nella stessa scuola: «eventuali avanzi non devono rappresentare profitto, ma un sostegno destinato alla gestione delle attività didattiche».
Vale per le scuole, tranquillizza Monti, ma anche per le altre attività commerciali religiose, infatti «non si tratta di circoscrivere a uno specifico settore, quale quello scolastico, ma l’iniziativa serve a consolidare una giurisprudenza e una prassi».
Insomma ogni gestore cattolico di scuole, alberghi, case editrici, librerie, agenzie di viaggio, ecc. potrà reinvestire gli utili pro domo sua , con il sovra mercato – ci permettiamo di aggiungere noi –
dell’Imu legalmente sottratta a Cesare.
Il 91bis passa liscio come l’olio in entrambe le Camere.
Ma lo spauracchio che quelle attività commerciali non siano più scudate dalla presenza di qualche cappella di culto annessa, resta. Del resto il 91bis fa esplicito riferimento proprio a quelle unità immobiliari che hanno un’utilizzazione mista tra culto e commercio.
Si tratta di una formula un poco farraginosa, ma prevede di tassare dal 1 gennaio 2013 la proporzione commerciale «in quanto dotata di autonomia funzionale e reddituale permanente».
E per individuare l’esenzione dall’Imu della «frazione di unità nella quale si svolge l’attività di natura non commerciale» sempre a decorrere dal 1° gennaio 2013, la sua applicazione va «in proporzione alla sua utilizzazione non commerciale».
Per dichiarare e determinare «gli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale» il 91bis rimanda a un decreto attuativo che sarà cura del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) redigere.
Il tutto è molto confuso, e certamente i margini per farla franca per la Chiesa ci sono. Come sarà possibile infatti stabilire con chiarezza i rapporti proporzionali tra utilizzo commerciale e non commerciale se non si supera la promiscuità tra commerciale e non commerciale? Come potrà un decreto risolvere quello che la legge non stabilisce e sembra (opportunamente?) lasciare all’arbitrio dell’ente dichiarante?
Intanto g
li italiani pagano le rate dell’Imu. Il Vaticano continua a non pagare, manca infatti il ministeriale decreto applicativo. L’indignazione dell’opinione pubblica rimonta. Credenti compresi.
Ecco allora che in tutta fretta, il Mef con un suo comunicato stampa, fa sapere che il 5 settembre ha trasmesso il regolamento attuativo al Consiglio di Stato, costituzionalmente preposto a stabilire la congruità dei decreti amministrativi.
Questo sull’Imu evidentemente non lo è, perché il 4 ottobre il Consiglio di Stato lo boccia.
Il Governo, invece di limitarsi ad indicare modalità procedurali per calcolare la porzione di immobile in cui si svolgono le attività commerciali, distinte da quelle religiose, anche lì dove c’è compresenza delle due, ha assunto su di sé competenze non previste dalla legge.
Il Governo – affermano i giudici di Palazzo Spada – non può prendere il posto del legislatore, che è richiamato a stabilire con chiarezza cosa è commerciale e cosa non lo è.
In assenza di questo – si legge nelle motivazioni del Consiglio di Stato – il decreto del Mef stabilisce «profili che esulano dal potere regolamentare attribuito», e dà indicazioni non omogenee, infatti, in alcuni casi «è utilizzato il criterio della gratuità», in altri quello del «carattere simbolico della retta», in altri ancora si introduce un calcolo di «importo non superiore alla metà di quello medio previsto per le stesse attività svolte nello stesso ambito territoriale con modalità commerciali».
Un pasticcio che invita all’arbitrarietà, e che non è certamente la strada da seguire «in presenza del procedimento della Commissione europea, avviato in data 12 ottobre 2010 – continuano i giudici – una indagine al fine della valutazione della sussistenza di un aiuto di Stato», e che tanto più «impone estrema prudenza nell’individuare lo strumento idoneo a fare chiarezza sulla qualificazione di una attività come non commerciale».
Al Ministero delle Finanze hanno dato ragione al Consiglio di Stato. «Un parere giusto di cui terremo conto» lo ha definito il sottosegretario all’economia Polillo. Una dichiarazione che al cittadino comune (non tecnico) fa venire spontanea questa considerazione: Ma allora, se già sapevano di sbagliare, perché non ci hanno pensato prima?
Fatto sta che tra scappatoie, deleghe, ritardi, intrecci e scavalcamenti di competenze (voluti o casuali), e soprattutto in attesa della legge (se verrà mai) che il tutto dirima, non può non rafforzarsi il sospetto che l’intento del Governo su questa materia, sia stato quello di guadagnar tempo in attesa della sua naturale scadenza.
Una sola cosa è certa: Per dare a Cesare quello che è di Cesare c’è tempo! il Vaticano benedice!
(9 ottobre 2012)
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