In Europa i femminismi combattono le destre. Ma le destre scelgono le donne
Luisa Betti Dakli
È in atto una controffensiva di destra che ha come primi bersagli le donne e i diritti civili, in un disegno globale che mira alla cancellazione dello Stato di diritto. Quello che succede in Europa – con i governi di Polonia, Ungheria e Italia – ci dà la misura di quale sia la strada tracciata: un percorso che mira al ripristino della famiglia tradizionale (uomo/donna). Una prospettiva che porta con sé la negazione delle conquiste degli ultimi cinquant’anni tra cui il divorzio, l’interruzione volontaria di gravidanza, il diritto di famiglia, il contrasto alla violenza domestica e in generale tutto ciò che riguarda l’emancipazione delle donne e la libertà in materia di orientamento sessuale.
Partiti, gruppi e movimenti di destra che si muovono con una trasversalità non solo d’idee e azioni politiche ma anche di flussi di denaro. Soldi che servono appunto per organizzare in tutto il mondo campagne antiabortiste, contro i diritti civili e a sostegno della famiglia «naturale» e che, secondo l’inchiesta di Francesca Sironi e Paolo Biondani pubblicata dall’Espresso[1], dalla Russia vengono ridistribuiti in Italia, Spagna, Gran Bretagna, Polonia, Ungheria, e anche Stati Uniti, finanziando organizzazioni religiose di destra, come per esempio l’Istituto Dignitatis Humanae attraverso il quale Steve Bannon, teorico del sovranismo globale ed ex stratega di Donald Trump, sta progettando una scuola per formare giovani leader della destra europea.
Uno schieramento che vede evangelici, cattolici e ortodossi insieme a movimenti e partiti di destra anche filonazisti, che hanno nel mirino tutto ciò che mette in discussione il loro «ordine» basato sulla razza e il genere, e che per lo più si possono ritrovare in quel grande raggruppamento che è il World Congress of Families: un progetto ideato nel 1997 e finanziato dal miliardario ortodosso Konstantin Malofeev, uomo di Putin, e il cui leader è Brian Brown, uno dei più influenti attivisti americani anti-lgbt nonché grande amico del premier ungherese Viktor Orbán. Un raduno mondiale il cui prossimo appuntamento sarà a fine marzo proprio in Italia, a Verona, con il patrocinio di provincia, regione e ministero per la Famiglia, e dove è previsto l’intervento del presidente del Parlamento europeo Tajani, del ministro dell’Interno e vicepremier Salvini, del ministro dell’Istruzione Bussetti, nonché – ovviamente – del ministro Fontana.
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Ma le donne in Europa non sono rimaste a guardare, andando ad animare un autentico movimento di contrasto alle politiche razziste, xenofobe, misogine delle destre che continuano ad avanzare ovunque. Grazie anche alla spinta ricevuta dal Ni Una Menos argentino nonché dal #MeToo statunitense.
La loro presa si sta allargando anche a chi non ha mai fatto politica, sia tra le donne che tra gli uomini, con una capacità di aggregazione e di mobilitazione che non si vedeva da tempo. Anche – e forse soprattutto – in quei paesi in cui le destre più feroci sono al governo. In Polonia, dove il governo è guidato dalla destra ultracattolica del Prawo i Sprawiedliwość (PiS), le donne continuano a scendere in piazza per fermare i diversi tentativi di cancellare una legge sull’aborto già restrittiva (solo in caso di pericolo di vita, stupro o grave malformazione), ma sono anche le prime a protestare per l’indipendenza della magistratura e per la democrazia, contro ogni razzismo e fascismo, rappresentando una resistenza politica che non si era mai vista in questo paese. Attiviste che per questo vengono assalite e picchiate pubblicamente, come è successo due anni fa durante la festa nazionale del centenario dell’indipendenza, o perseguitate sul posto di lavoro. E sotto minaccia sono anche le associazioni per le donne vittime di violenza: il Women’s Rights Center, Baba e il Centro per i diritti delle donne di Łódź, sono state perquisite e i finanziamenti, per molte di queste ong, sono stati sospesi.
Sotto attacco non è solo l’aborto ma anche il divorzio, su cui il ministro della Giustizia, Zbigniew Ziobro, ha cercato d’imporre l’obbligo della mediazione a pagamento, esattamente come sta tentando di fare, in Italia, il senatore della Lega Simone Pillon con il ddl 735, rendendo così più difficile separarsi e divorziare.
Più debole il movimento femminista della vicina Ungheria dove il governo dell’ultrareazionario Viktor Orbán vorrebbe vietare l’aborto e chiudere in casa le donne a fare figli contro la minaccia migratoria. Un certo seguito lo ha avuto il movimento #MeToo ma ciò non ha fatto sì che – dopo lo scandalo di József Balogh, deputato di Fidesz che aveva picchiato così violentemente la moglie da fratturarle il cranio e diverse ossa – il governo si piegasse a ratificare la Convenzione di Istanbul per il contrasto alla violenza maschile sulle donne: la Convenzione per il governo è infatti «un attacco alla famiglia tradizionale». Stesso esito in Bulgaria.
In Italia, i movimenti femministi sembrano godere di buona salute. Non una di meno ha portato in piazza più di 200 mila persone, sia l’anno scorso che quest’anno, contro la violenza maschile sulle donne ma anche contro le politiche razziste e xenofobe del vicepremier Salvini e il disegno di legge Pillon.
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Eppure, malgrado la forza dei movimenti femministi (pensiamo anche all’Irlanda, dove il 25 maggio scorso un referendum ha cambiato la legge sull’aborto), in Europa la sinistra sembra confidare poco nelle donne, che fanno più carriera a destra.
In generale l’attuale Parlamento europeo è composto al 63 per cento da uomini e in dieci Stati membri (Bulgaria, Repubblica ceca, Estonia, Cipro, Irlanda, Lettonia, Ungheria, Malta, Romania e Slovacchia), gli uomini costituiscono l’80 per cento dei rispettivi parlamenti nazionali. La partecipazione delle donne alla politica varia nei diversi paesi: se si contano le donne che sono capo di governo, vice prime ministre, ministre o semplici parlamentari, in testa troviamo Francia, Svezia, Slovenia, Danimarca, Norvegia, Finlandia e Spagna. Ma la maggioranza di quelle che occupano posti ai vertici, istituzionali o di partito, sono le donne che scelgono di stare con la destra: dai conservatori fino alla destra estrema. Vediamone alcune.
Quattro delle donne più potenti dello scacchiere politico europeo sono di destra: Angela Merkel, cancelliera tedesca considerata una delle donne più potenti al mondo che ha lasciato la guida della Christlich Demokratische Union Deutschlands (Cdu) a un’altra donna, Annegret Kramp-Karrenbauer; Theresa May, prima ministra inglese, leader del Conservative Party, che sta guidando il Regno Unito nella difficile fuoriuscita dall’Ue; Erna Solberg, la presidente norvegese nonché leader del partito conservatore Høyre che non solo ha proposto di restringere la legge sull’aborto (uno scambio richiesto dal piccolo partito cristiano-democratico norvegese con cui il governo ha una maggioranza assoluta) ma porta avanti convinte politiche anti-immigrazione con un’altra donna di ferro, la ministra delle finanze Siv Jensen, leader del Fremskrittspartiet diventato con lei uno schieramento di estrema destra omofobo; e Beata Szydło che è stata alla guida del governo di destra ultracattolico polacco e che ora, sostituita dal ministro delle finanze Mateusz Morawiecki, è comunque al governo come vicepremier con delega alle questioni sociali.
Szydło –
euroscettica e omofoba che ha dichiarato di ispirarsi all’ungherese Orbàn – tiene ben strette anche le redini del primo partito in Polonia, il Prawo i Sprawiedliwość (Pis) di cui è vicepresidente, e in questi anni ha portato avanti politiche molto dure riguardo i diritti delle donne, primo fra tutti l’aborto.
Altrettanto di polso ma con posizioni più liberali sono Dalia Grybauskaitė, presidente della Lituania eletta come indipendente ma sostenuta dai conservatori con un passato nel Partito comunista lituano e soprannominata a seconda dei casi la Thatcher baltica, Iron Lady o Steel Magnolia; Kersti Kaljulaid, presidente della Repubblica estone, una conservatrice liberale aperta ai diritti lgbt e all’immigrazione che nel 2017 è apparsa nella lista stilata dalla rivista Forbes delle 100 donne più potenti del mondo e tra i leader politici femminili più influenti; e Kolinda Grabar-Kitarović, presidente della Croazia tra le fila dell’Hrvatska demokratska zajednica (Hdz), partito conservatore fondato da Franjo Tudjman: Grabar-Kitarović (classe 1968) è la persona più giovane che abbia mai ricoperto la massima carica dello Stato, e anche lei figura nell’elenco di Forbes come una delle donne più potenti del pianeta. Conservatrice e cattolica, Grabar-Kitarović sostiene la famiglia tradizionale ma non si è opposta alla legge che riconosceva alle coppie omosessuali gli stessi diritti delle coppie etero, fatta eccezione per le adozioni, mentre sull’aborto ritiene che la cancellazione non risolva la questione e che quindi per prevenire gravidanze indesiderate sia meglio puntare su informazione ed educazione.
Più estremiste sono invece le tedesche. Tatjana Festerling, ex leader di Pegida, che può vantare di essere stata definita da Merkel come «la donna più pericolosa d’Europa», nell’agosto del 2015 ha visto bloccato il proprio profilo Facebook per i continui commenti xenofobi e razzisti; e nei suoi fronti nell’ottobre del 2017 il tribunale di Dresda ha emesso un ordine di condanna per istigazione e insulto.
Frauke Petry è invece leader del Die Blaue Partei ed ex capo di Alternative fur Deutschland, di cui ha contribuito a cambiare il volto trasformandolo da partito euroscettico a gruppo politico xenofobo, antiabortista e populista.
A prendere in mano AfD è stata Alice Weidel, attuale vice presidente del partito, che è dichiaratamente filonazista ma anche omosessuale. È sposata con una regista di origine asiatica, con cui cresce due figli adottivi, ma è a favore del matrimonio tradizionale e per una politica razzista e fortemente anti-immigrazione.
In Nord Europa abbiamo Anke Van dermeersch, miss Belgio nel 1992 e concorrente per Miss mondo e Miss universo, che è tra i leader del partito conservatore Vlaams Belang del blocco fiammingo; la danese Pia Kjærsgaard, che è la co-fondatrice del Dansk Folkeparti, il partito anti-immigrazione di estrema destra che ha guidato dal 1995 al 2012 di cui ancora oggi fa parte; e infine Ebba Hermansson, 22 anni, che è la più giovane deputata al parlamento svedese e una delle portavoce del Sverigedemokraterna, partito nazionalista conservatore: una paladina delle politiche contro i migranti al fine di mantenere le donne «al sicuro da violenze sessuali».
Nel Regno Unito una che promette di dare battaglia è Diane James, la neo leader dell’UK Independence Party (Ukip) di Nigel Farage, ma è in particolare Jayda Fransen, ex vice dell’ultradestra fascista di British First, quella che si è distinta per le sue azione xenofobe e i cui tweet con video anti-musulmani sono stati condivisi da Donald Trump. Arrestata più volte per i suoi discorsi offensivi e per le sue condotte pubbliche, Fransen è stata condannata nel marzo 2018 a 36 settimane di carcere per aver molestato una donna che indossava il velo.
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Secondo una ricerca della Friedrich Ebert Foundation (FES), si tratta di leader spesso più radicali dei colleghi maschi e che attraggono l’elettorato femminile sul terreno delle politiche di sostegno alla famiglia (welfare, bonus economici) e su quello delle politiche migratorie, essendo l’immigrazione spesso percepita come una minaccia sul piano della sicurezza personale.
Basti pensare a Marine Le Pen, leader del Rassemblement National ex Front National, la quale, pur rifiutando la definizione di femminista, si sta presentando come paladina dei diritti delle donne indicando nell’islam e nell’immigrazione i maggiori pericoli per quante vogliono essere libere di indossare pantaloncini o minigonne.
Sulla stessa lunghezza d’onda, come noto, l’italiana Giorgia Meloni, leader del partito di destra Fratelli d’Italia ed ex ministra del quarto governo Berlusconi, che pretende di difendere le donne dall’islamizzazione e propugna la famiglia tradizionale.
Ma quella che oggi appare come la vera novità è probabilmente Vox, il partito spagnolo fondato nel 2013 che ha vinto le elezioni in Andalusia lo scorso dicembre e che si oppone all’immigrazione e al femminismo ed è favorevole a uno Stato centralizzato come quello di Franco. Il partito non solo vuole cancellare l’aborto ma disconosce la violenza maschile sulle donne, è contro l’educazione alla differenza nelle scuole, e vuole togliere i finanziamenti alle associazioni femministe. In particolare il nuovo governo andaluso – composto da Vox, Partito popolare e Ciudadanos – propone sostegni alla famiglia tradizionale e un piano che dissuada le donne dall’idea di abortire, e la prima richiesta di Vox è stata quella di abrogare la legge regionale sulla violenza contro le donne in quanto non garantirebbe protezione a tutti i soggetti che possono subire maltrattanti in famiglia. Una proposta caduta nel nulla, anche grazie alle migliaia di donne che il giorno d’insediamento della giunta per l’elezione del presidente Moreno, si sono radunate in protesta davanti al parlamento locale.
Ebbene, nella segreteria del presidente di Vox, Santiago Abascal, troviamo Mazaly Aguilar, vice-segretaria per le relazioni istituzionali che ha più volte ribadito nei suoi interventi come la violenza non abbia alcun genere, mettendo sullo stesso piano la storica e sistemica violenza maschile contro le donne con quella subita – con numeri molto meno allarmanti – dagli uomini in ambito domestico. Negando che esista una specificità che riguarda la violenza maschile sulle donne, Aguilar sostiene di non voler eliminare alcuna legge che protegga le vittime di abusi anche se «l’attuale legislazione dà rifugio solo a una parte della famiglia». Stesse dichiarazioni di Salud Anguita, vice segretaria dell’organizzazione.
Portavoce del Comitato elettorale e presidente di Vox a Madrid, nonché vice segretaria per gli affari sociali, è invece Rocío Monasterio, un’architetta felice di combinare la sua vita professionale con il suo ruolo di madre di 4 figli. Antiabortista convinta e sostenitrice della famiglia naturale, Monasterio è contro quello che chiama «business dell’ideologia di genere», ed è contro le quote rosa viste come una umiliazione per le donne.
Nella segreteria del partito troviamo poi Alicia Rubio, un’omofoba che ha scritto un libro dal titolo Cuando nos prohibieron ser mujeres… y os persiguieron por ser hombres, che ha venduto 4.000 copie e ha ispirato il discorso del presidente Santiago Abascal contro la cosiddetta ideologia gender. Professoressa di educazione fisica, oltre ad aver scritto l’anti-bibbia femminista, è convinta che l’aborto sia un omicidio e vi
è contraria anche in caso di stupro.
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Esiste insomma una sorta di «populismo femminile» che fa centro tra quelle donne non abbienti che sono a rischio povertà e che sono colpite dalle politiche indifferenti ai bisogni delle donne, come l’esclusione dal lavoro, la mancanza di welfare, una più ampia tutela alla violenza maschile, e che vedono in questi interventi un sostegno a problemi materiali da affrontare ogni giorno.
Posizioni che sono spesso il frutto della delusione per come la politica si è consumata nei partiti di sinistra, di solito guidati da uomini, che non sempre hanno valutato con serio impegno le esigenze delle donne e il loro potenziale politico.
Pensiamo per esempio all’islam, rispetto al quale la sinistra ha pensato che attraverso il politically correct potesse risolvere tuti i mali, senza cogliere la problematicità di una religione non certo «progressista» in materia di diritti delle donne e vissuta da molti (non tutti) come un pilastro della propria identità.
Una miopia e un vuoto che la destra ha cavalcato con tutte le sue forze unendo le politiche anti-migratorie ai diritti delle donne.
Inoltre, a destra si è compreso che avere donne in ruoli apicali avrebbe potuto tradursi in una presa maggiore su una parte dell’elettorato – quello femminile – che nel frattempo si è emancipato, anche se soprattutto grazie alle lotte del movimento femminista. Un paradosso insomma se si pensa che invece a sinistra le dirigenze di partito continuino a tentennare in questo senso.
Ma considerata la capacità delle donne di prendere il posto che spetta loro senza che qualcuno (uomo) glielo conceda, le cose probabilmente sono destinate a cambiare. Lo abbiamo visto in maniera dirompente alle elezioni di mid term negli Stati Uniti, quando le donne, sorrette anche dal movimento #MeToo, hanno lottato apertamente con i propri colleghi di partito, arrivando a 272 candidature (185 democratiche e 52 repubblicane), su un totale di 964, e sono state elette in 117, alzando di due punti la percentuale di donne al Congresso (22 per cento).
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