In Europa si specula sulla pelle dei lavoratori
Michele Bollino
La nuova legge sul lavoro fatta approvare dal premier ungherese Orban è solo l’ultimo atto di una folle corsa verso il basso che i paesi membri dell’Unione Europea stanno giocando sui diritti dei lavoratori.
“Non chiamatela riforma del lavoro, chiamatela legge sulla schiavitù” ripetono gli operai ungheresi, scesi a migliaia per le strade di Budapest per manifestare contro l’ultimo provvedimento fatto approvare dal premier Orban.
Con la nuova legge, infatti, dal primo gennaio 2019 le ore di straordinario aumente-ranno da 250 a 400 l’anno, 8 ore a settimana, e per i lavoratori sarà difficile dire ‘no’: i sindacati saranno esclusi dalla contrattazione, che avverrà direttamente con il datore di lavoro. Anche per il pagamento bisognerà aspettare: le aziende avranno fino a tre anni di tempo per remunerare il lavoro extra.
Uno scenario da incubo per i lavoratori ungheresi: la ‘legge sulla schiavitù’ apre infat-ti la strada alla settimana lavorativa da 6 giorni o alla giornata lavorativa da 10 ore, mettendoli in posizione di completa subordinazione nel rapporto con il datore di lavo-ro. Un ritorno ai tempi del Patto di Varsavia, “forse anche peggio” commenta qualche manifestante: stando alle prime rilevazioni, l’81% degli ungheresi è contrario alla ri-forma.
Nel mirino delle proteste, però, non solo le politiche illiberali del premier Orban: sul banco degli imputati sono finite direttamente le principali case automobilistiche inter-nazionali, ritenute dai manifestanti la vera regia dietro questo attacco ai diritti dei la-voratori.
Il ‘Miracolo’ ungherese
L’automotive è la spina dorsale dell’industria ungherese: occupa circa 150mila addet-ti, rappresenta oltre il 30% dell’intera produzione manifatturiera ed una fetta pari al 20% del totale delle esportazioni. Le auto prodotte in Ungheria, infatti, non sono de-stinate al mercato interno: il 93% della produzione viene esportata, in particolar modo verso gli altri paesi dell’Unione Europea (87%).
Audi A3, Mercedes Classe A, Opel Astra ma anche Tata, General Electrics, Suzuki e, da ultimo, Bmw che, la scorsa estate, ha annunciato un’investimento di oltre un miliardo di euro per un nuovo stabilimento industriale. Un vero e proprio ‘miracolo’ per l’economia ungherese, che ha polarizzato verso Budapest gli investimenti dell’industria automobilistica all’interno del Mercato Unico.
Per raggiungere questo obiettivo, Orban ha messo in campo fin dal 2013 una strate-gia spregiudicata. Agevolazioni fiscali, ingresso delle multinazionali nelle università per creare manodopera adatta alle esigenze delle aziende ma soprattutto salari tra i più bassi dell’Unione Europea: lo stipendio minimo netto in Ungheria è di 285 euro.
Ma non tutto è andato secondo i piani e la manodopera ha iniziato a scarseggiare: meglio emigrare, cercar fortuna in un altro paese dell’Ue piuttosto che vivere in mise-ria a casa propria. “Così le grandi multinazionali si sono lamentate pubblicamente della carenza di lavoratori- hanno dichiarato i vertici dei sindacati ungheresi all’emittente Bloomberg durante le proteste- e il parlamento ha approvato una legge dettata dai lobbisti tedeschi contro gli interessi degli ungheresi”.
Lavoro malato
I lavoratori ungheresi non sono gli unici ad aver subito questo trattamento. Dal 2000 ad oggi, l’Organizzazione Mondiale del Lavoro ha contato oltre 400 interventi di ri-forma del mercato del lavoro nei soli paesi dell’area Ocse. Secondo questo studio, tutte le riforme sono incentrate sugli stessi principi: flessibilità, introduzione di con-tratti a termine, indebolimento delle tutele e del potere contrattuale dei sindacati, pre-ferenza per la contrattazione aziendale.
Una vera e propria ondata globale di precarizzazione del mondo del lavoro. Le con-seguenze sono fotografate dai dati Eurostat: dei 5,5 milioni di posti di lavoro creati nell’Unione Europea dal 2012 ad oggi, quattro su cinque sono a termine o rientrano tra i così detti part time involontari o lavori sottopagati.
“Tutte queste nuove forme di lavoro sono estremamente costose, sia per i lavoratori che per l’intera società”, ha affermato Olivier Blanchard, già capo economista del Fondo Monetario Internazionale. Mentre la banca di investimenti Merrill Lynch avver-te i propri clienti: la ripresa dalla crisi dell’economia europea è basata “su lavori di bassa qualità”.
Più precariato, più investimenti
Per Emmanuel Macron, invece, il precariato è un’opportunità di crescita. Davanti ad un’economia Francese stagnante la prima mossa del neo inquilino dell’Eliseo è stata quella di approvare la contestata ‘Loi du Travail’, la versione transalpina del ‘Jobs Act’ del governo Renzi.
La Francia, grazie a un solido sistema di contrattazione sindacale, era il paese dove il precariato aveva trovato meno spazio e con il minor numero di lavoratori sottopa-gati di tutta l’Unione Europea. Una situazione definita “un problema” da Macron, che la vedeva come “un vincolo per la competitività del paese rispetto ai suoi vicini” ed un incentivo “per far fuggire le imprese all’estero”.
La soluzione era scontata: per risolvere questo presunto ‘gap competitivo’, Parigi ha introdotto nel suo ordinamento la contrattazione aziendale in deroga a quella nazio-nale, maggiore facilità nelle procedure di licenziamento e lo stop ai vincoli temporali sui contratti a termine.
Per attirare i capitali, ormai liberi di muoversi liberamente dentro i confini del mercato unico, gli stati dell’Unione Europea si sono così avvitati in una vera e propria corsa verso il basso, cercando di assicurare agli investitori le migliori condizioni ed i costi più bassi per i loro affari. Il tutto, sulle spalle dei lavoratori. In una parola, dumping.
Il mercato unico verso la disintegrazione?
In economia il dumping sociale viene definito come “la pratica di indebolire o evadere le norme esistenti, con l’obiettivo di guadagnare un vantaggio competitivo sui concor-renti” (Social dumping and the EU integration process — M. Bernaciak, 2015). In al-tre parole, il dumping è quella pratica per cui un paese è portato a tenere le tasse ed i diritti dei lavoratori ad un livello più basso di quello dei paesi vicini per attirare gli in-vestimenti esteri.
Nel mercato unico europeo, la libera circolazione dei capitali rappresenta una delle quattro libertà fondamentali che sorreggono l’intero sistema. Impossibilitati a regolare questo sistema, gli stati membri si sono così trovati in competizione tra loro, inizian-do una vera e propria corsa all’erosione dei livelli esistenti di welfare. Il problema è poi esploso con l’ingresso nell’Ue dei paesi dell’Est, caratterizzati da livelli salariali e standard di protezione sociale nettamente più bassi di quelli del resto del continente.
Secondo la teoria economica neoclassica, sulla quale si basa il mercato unico euro-peo, questo non sarebbe stato un problema: l’aumento della crescita dovuto all’allargamento dell’area di libero scambio avrebbe dovuto compensare questa cor-sa verso il basso. Ma con la crisi economica cominciata nel 2008 ed il rallentamento dell’economia globale degli anni successivi, questo non è avvenuto.
Al contrario, con la complicità dell’austerity, le politiche di concorrenza sleale tra stati membri si sono moltiplicate ed un sentimento di profonda ostilità verso l’Unione Europea si è diffuso in tutto il continente. Le pratiche di dumping, sostengono ormai numerosi studiosi, sono desti
nate a indebolire significativamente gli effetti benefici della crescita e, minacciando la coesione sociale, potrebbero rivelarsi l’innesco per causare la disintegrazione del mercato unico.
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