In fiamme la “Fortezza Europa”: brucia il campo profughi di Lesbo

Valerio Nicolosi

Nel campo di Moria la situazione era già invivibile da mesi. Oltre ventimila persone assembrate in un luogo disumano che ne doveva contenere al massimo tremila. Da oggi, in questo scenario già impossibile, si apre un nuovo, drammatico capitolo: l’incendio lascerà in strada le migliaia di persone che stavano nel campo profughi. “È la fine”. E “domani conteremo morti e feriti”.

“È la fine di Moria, domani conteremo morti e feriti”. Il messaggio di Giovanna Scaccabarozzi, una dottoressa che da quasi un anno si trova a Lesbo, arriva nel cuore della notte ed è il primo di una serie che raccontano quello che sta succedendo nel più grande campo profughi d’Europa: Moria è stata bruciata. Il luogo simbolo della Fortezza Europa è andato in fiamme dopo che per anni il sovraffollamento è stata la norma e da pochi giorni i 13mia profughi presenti nel campo erano stati messi in quarantena forzata dopo che uno di loro era stato trovato positivo al Covid.

“Se facessero i tamponi a tutti troverebbero una quantità di positivi che le autorità greche si dovrebbero vergognare” racconta Nawal Soufi, attivista italo-marocchina che vive a Lesbo da anni e che spesso dorme proprio nel campo insieme ai profughi. “Le condizioni di vita qui sono disumane, come pensano che, con questo sovraffollamento, non ci sia il contagio?” aggiunge Nawal.

In pochi giorni i casi positivi identificati sono stati 35 e uno di loro è “il paradigma del fallimento di tutto il sistema della (non) accoglienza” dice Giovanna che in questi giorni è tra le poche persone autorizzata a entrare nel campo. “Un uomo somalo di 40 anni e diabetico che aveva ottenuto lo status di rifugiato. Una volta lasciato il campo e l’isola è andato ad Atene, dove però si è perso tra gli altri neo rifugiati che oggi sono abbandonati a se stessi, anche dalle organizzazioni internazionali” racconta la dottoressa. “L’unica soluzione che ha trovato è stata quella di tornare a Moria, dove almeno conosceva altre persone, però non sapeva che stava ‘portando’ il Covid”.

A Moria c’è un bagno ogni 150 persone circa, l’acqua non basta per tutti e per le donne e i bambini è pericolosissimo girare di notte . Stupri e violenze nei confronti delle donne e addirittura tentativi dei suicidi dei bambini sono purtroppo una realtà che da anni. Basta una corda appesa ad un albero o una lametta per tentare di finire una vita breve ma già abbastanza infernale. La clinica di Medici Senza Frontiere che da anni si trova proprio davanti l’ingresso del campo di Moria ha dovuto soccorrere molti di loro.

Le cause del rogo ancora non sono chiare: all’inizio sembrava che gli isolati per il Covid avessero preso d’assalto i cancelli e poi incendiato una parte del campo. La polizia per il momento smentisce.

Quel che è certo è che l’incendio non arriva come un fulmine a ciel sereno, anzi. Da mesi l’isola di Lesbo è stata abbandonata dal governo centrale che ha ridotto al minimo i trasferimenti a terra e soprattutto ha rigettato oltre il 95 per cento delle richieste di asilo, lasciando le persone in un limbo giudiziario per cui non possono tornare in Turchia o nei Paesi d’origine visto che non sono luoghi sicuri per i respingimenti, però al tempo stesso non hanno i documenti per stare in Europa. La frustrazione è tanta tra i profughi e le condizioni mentali sono allo stremo da mesi. “Tra i siriani la percentuale di rifiuto dell’asilo è di circa l’80 per cento, un dato assurdo se si pensa alla condizione in cui si trova la Siria” dice ancora Nawal Soufi. I siriani, così come in passato gli afghani, sono teoricamente tra i più tutelati visto che il prossimo marzo saranno dieci anni dall’inizio della guerra.


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Il rigetto delle richieste d’asilo e i mancati trasferimenti hanno portato al sovraffollamento record di Moria nello scorso marzo, quando Erdogan per fare pressione sull’Europa ha aperto le frontiere della Turchia. Si è così raggiunto lo spaventoso numero di oltre ventimila persone assembrate in uno spazio pensato per tremila. Da quel momento il governo di Atene e le autorità di Lesbo hanno iniziato una vera e propria guerra contro le ONG e i volontari presenti sull’isola.

L’ultimo episodio in ordine cronologico è quello che ha visto quattro persone fermate e condotte in commissariato per otto ore, dove sono state interrogate e dove gli sono stati confiscati tutti i dispositivi elettronici. I quattro sono attivisti della ONG tedesca “Mare Liberum” che dal marzo del 2018 opera nelle acque tra Lesbo e la Turchia con lo scopo di monitorare la violazione dei diritti umani.

Nei mesi scorsi un’altra ONG ha dovuto chiudere la propria missione di ricerca e soccorso in mare, “Refugee Rescue”, che dal 2015 operava insieme alla Guardia Costiera ellenica, la stessa che oggi respinge i migranti verso la Turchia e che nelle settimane scorse ha usato delle zattere per respingere dei migranti dalla terra ferma, lasciandoli in mare senza possibilità di muoversi, aspettando che la Turchia venisse a prenderli.

Questo clima ostile è stato poi alimentato dai continui attacchi di persone appartenenti a gruppi di estrema destra, e apparentemente tollerati dalla polizia locale, che negli ultimi mesi hanno avuto come obiettivi la clinica da campo di Medici Senza Frontiera, attivisti e le loro macchine e i migranti stessi.

Da oggi, in questo scenario già impossibile, si apre un nuovo capitolo per l’isola di Lesbo: l’incendio lascerà in strada le migliaia di persone che stavano all’interno, con un carico che l’isola non può gestire da sola.

(9 settembre 2020)





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