In lotta per esistere e partecipare

MicroMega

di Andrea Bagni

Entri a scuola e la gente ti chiede. Che facciamo domani in piazza, e per la notte? E la mattina la scuola aperta, avete chiesto alla preside. Il volantino? Lo facciamo un coordinamento permanente? Non sono i soliti ex militanti, un passato di lotte alle spalle, un presente di depressione negli occhi – sono i colleghi “normali”. Addirittura i più giovani, quelli che mi sembravano selezionati fra i già morti. E poi genitori, mamme soprattutto. Ti invitano a un’assemblea ad Empoli che ti dicono deve essere informativa, per le famiglie, “apolitica”. Arrivi e ti sembra che siano scemi a prendere una sala così, anche con cento persone apparirebbe vuota. Ma di colpo si riempie completamente, 500 forse 600 persone. Gli interventi hanno una passione dentro straordinaria, altro che apolitica: chiaro che volevano dire apartitica, senza competizione velenosa di sigle (e però il disastro del lessico dà da pensare, significa qualcosa). Si sentono brucianti la rabbia e l’amore – per figli e figlie, per la scuola pubblica, per la vita collettiva e i diritti degli individui. C’è anche il saluto di un operaio della Sammontana che legge la mozione votata dai lavoratori per la difesa della scuola pubblica. Per la democrazia e la libertà dei ragazzi. Io lo sento un brivido sulla pelle, una commozione antica; lo so che è una cazzata ma non c’è niente da fare. Sembra di tornare indietro nel tempo. O di essere noi della scuola adesso l’articolo 18. Sembra solo, però, perché la verità è che non c’entra più di tanto il passato. È tutto nuovo nell’energia e negli sguardi, quasi aurorale. Il giorno dopo leggo sul quotidiano locale che le rappresentanze sindacali operaie della Toscana hanno dichiarato che se Berlusconi manda la polizia contro i giovani ci penseranno loro a difenderli. Lui smentisce, ha parlato solo di forze dell’ordine, ma poi spiega bene il matto del villaggio istituzionale, presidente emerito: infiltrare provocare, massacrare, che corrano le ambulanze e il sangue – che c’entra la polizia con l’ordine?, esattamente quello che è stato fatto a Genova. Ma bisogna essere molto vecchi e non avere più freni per dirlo proprio chiaro chiaro.

Adesso comunque si sente un paese intorno alla scuola. A Firenze la fiaccolata notturna (senza fiaccole perché l’assessore sceriffo dice che non si può nel salotto cittadino) è una festa anche quella mai vista. Bandiere slogan cartelli arrangiati, artigianali, ingenui a volte, creativi – non i simboli di partito tutti prestampati sulle bandiere tutte uguali, distribuite a pioggia l’11 ottobre. Volti nuovi, anche quelli dei vecchi. L’atmosfera che si respira dà un’altra volta i brividi, è già una vittoria, è già politica. Polis. Ma che è successo dunque? Io in classe domando. Una ragazza mi dice, professore forse non ho capito tutto quello che sta scritto nella 133 e 137. Però voglio dire la mia, voglio che mi vedano, voglio contare. Esserci. Sento già qualche collega che mi dice, vedi non hanno la pazienza di studiare, non si informano, vogliono solo fare festa, casino. Ma mi sembrano loro i superficiali. Il sapere nasce da un desiderio o non esiste proprio. E la voglia di esserci è la radice della democrazia, di quella che rimane, di quella da cui si può ripartire. È rivendicare il proprio diritto a esistere – e a esistere non da solitudine triste ed egoistica, impaurita e competitiva. Esistere attraverso gli altri, per gli altri. Hanno capito perfettamente le ragazze che in gioco è questa esistenza politica, collettiva. Lo spazio pubblico come luogo di vita e non di telecomandi. Vorrebbero ridurli a presenze da supermercato, audience televisivo, target pubblicitario – e nella scuola contenitori da riempire di nozioncine coperte da grembiulini e controllate da voti in condotta. Leggere scrivere fare di conto, come fosse la stessa cosa oggi di cinquant’anni fa. Come il dio-patria-famiglia di Tremonti. Grandi Valori sul vuoto delle esistenze e nel deserto delle relazioni. E loro sembrano ricominciare proprio daccapo nel far sentire la propria voce. Lo spettacolo lo si fa, come allegri situazionisti, non lo si subisce – ecco allora un mucchio di studenti dentro enormi cervelli di gomma che fuggono nel centro storico in mezzo ai turisti, inseguiti da altri in camice bianco. Sono la fuga dei cervelli. I cartelli a scuola che hanno spesso una connotazione involontariamente buffa. I grandi di quinta cercano di educare i piccoli delle prime, gli dicono che devono partecipare alle riunioni e non sono mai contenti: trecento persone che ascoltano al mattino esperti e politici pallosissimi senza fiatare gli sembrano poche, perché siamo più di mille prof, non è serio. Non hanno mezze misure, gli adolescenti. E scrivono sul cartello all’ingresso, dobbiamo partecipare tutti, essere uniti, siamo noi il futuro, spargete la voce. Casomai qualcuno non l’avesse capito. E inoltre, non si portano a scuola alcol e droghe durante l’occupazione. Non è mica la scuola normale, che ci sono le regole degli altri e le trasgressioni nostre. L’occupazione è libertà, cioè autonomia, cioè autonormazione.

L’incontro di noi insegnanti con i genitori della scuola è un’altra serata di mamme straordinarie. Neanche loro parlano più di tanto dei decreti e disegni di legge. Parlano dei loro figli e delle loro figlie. Di come il tempo sia un casino organizzarlo oggi, di come la scuola sia uno spazio che chiede attenzione, cura e ascolto – non calcoli economici. Basta per mandare a quel paese Tremonti e Gelmini. Che si può apprendere di significativo se l’anima la si lascia fuori dalla scuola? Le mamme ce la mettono l’anima, e ci lasciano di stucco. Chiedono come possono partecipare e per organizzarsi con i ritmi della vita quotidiana propongono di mettere una tenda fissa in piazza; qualcosa di permanente e poi lì si potranno scegliere dei turni, organizzare delle lezioni, portare il materiale. Loro si iscriveranno. Come in una banca del tempo da dedicare alla scuola. Alle ragazze e ai ragazzi. Cioè alla collettività. Si sente caldo questo fare della scuola una cellula della vita del paese, un bene comune, una cosa che ci riguarda.

E gli insegnanti? Una collega neolaureata parla nell’assemblea del precariato, dice di come non si vive con l’insicurezza, ma aggiunge anche che vuole fare all’aperto la sua lezione su Cicerone: far capire chi è lei, cosa fa e cosa è il suo lavoro. La forma di lotta è mostrare quanto lo ama quel lavoro, quanto l’appassiona, quanto è fatto di domande dubbi, dialogo, ricerca. Alla fine si decide di fare qualcosa al mattino, ma anche nel pomeriggio e poi di riempire la notte. Sconfinare, invadere la notte. Forse in onore del tempo pieno. Forse perché è la sfera del desiderio. Forse perché bisogna essere fuori misura. Durare nel tempo. Nelle università si organizzano lezioni a ciclo continuo. Professori con nome e cognome che indicano il titolo della loro lezione e l’ora, per 24 ore. Alle 02.30 si parla di "Chi ha paura di Darwin ovvero a cosa servono le zanzare", 03.30 "Temperamento: un enigma musicale da Pitagora a Bach", a seguire (04.30) "In cerca dei numeri primi", alle cinque e mezzo "Mentire con la statistica", poi "La fisica sotto il naso”.

Quando una mamma ha domandato in assemblea, diteci che cosa possiamo fare, un’altra ha proposto continuiamo a venire, voi raccontateci, raccontiamo. Il governo cancella il parlamento da qualsiasi ruolo, emana decreti poi pone la fiducia sulla conversione in legge (e vorrebbe insegnare la Costituzione); lo rende uno degli enti più inutili del paese. E il parlamento in democrazia è una spe
cie di metafora: il luogo del confronto e della discussione che vive per esprimere una società che si confronta e discute. Non c’è democrazia rappresentativa se muore quella partecipata, diretta: ormai l’abbiamo capito. Allora resistere è proprio esserci, restare in contatto, fare tessuto, riempire le piazze. E contro questo governo che cancella lo spazio pubblico, inventare una lotta che possa essere a modo suo di presenza a oltranza – anche se la parola nella scuola è quasi impronunciabile (che si può fare a oltranza, lo sciopero?, figuriamoci). Ma qui conta davvero durare nel tempo, dal 31 ottobre in poi. Perché la lotta sarà lunga, e anche la notte.

PS: Chissà poi che anche la nostra sinistra divisa fra chi vorrebbe offrire altre sigle al pubblico e chi pensa di ripartire dai partiti che coordinano le lotte – come la società fosse sempre altro dalla politica e chiedesse a quella la sintesi, la rappresentanza – non capisca che da questa festa di movimento si può imparare qualcos’altro. Che la soggettività che attraversa i movimenti, malgrado tutte le crisi, quella che nomina di nuovo le cose, chiede di riconoscere che la politica oggi non può essere roba da politici di professione e orgoglio di sigla: deve essere capace di inaugurare luoghi e regole diverse, dare voce alle voci, tessere rapporti, fare spazio…

(27 ottobre 2008)



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