In morte di un eretico. Un ricordo di Franco Cordero
Franco Cordero
Che si manifestava in un implacabile amore per la logica e un nauseato odio per ogni fumisteria metafisica. Il rasoio di Occam era la sua durlindana, ogni ipostasi la testa di turco da mozzare. La sua polemica era sempre senza perifrasi, per colpire il peccato indicava sempre il peccatore, esemplificando nei suoi ranghi più alti, scegliendo il nemico più potente. Inchiodando queste figure, questi figuri, a tutte le loro contraddizioni argomentative e miserie morali, senza mai confondere le une con le altre. La precisione chirurgica delle diagnosi sapeva accompagnarsi con una sontuosa capacità immaginativa, che le sintetizzava in nomina diventati emblematici: il Caimano, per ricordare un solo caso. La libertà senza compromessi, che gli si imponeva come ineludibile conseguenza al dovere della verità, aveva fatto dell’eresia il filo conduttore della sua vita, e di estraneità al milieu culturale più glamour, dove troppo spesso pascolano solo “eretici con licenza de’ superiori”.
Alcuni mesi fa, sul finire dello scorso anno, mi aveva annunciato che stava per terminare un romanzo filosofico, chiedendomi di presentarlo quando fosse uscito. Ne sarei stato felice. Da allora non l’ho più richiamato, per viltà, poiché in quella telefonata avevo avvertito distintamente sue difficoltà nell’udito, e per timore di scoprire un accentuarsi di decadenza fisica ho procrastinato di settimana in settimana, in questo periodo di quarantena, la telefonata che avevo in animo. Non me ne rammaricherò mai abbastanza. Quanto al dolore privato, per la sua morte, non parlerò.
Lo ricordiamo con l’ultimo saggio pubblicato su MicroMega, 1/2017, Almanacco di filosofia, e con “Il mistero dell’intervista scomparsa”, cioè l’intervista che doveva uscire sul “Venerdì” di “Repubblica” e che fu poi censurata per smaccati ma inconfessati motivi politici (si era in periodo di pre-referendum renziano contro la Costituzione). Cordero lo affidò a MicroMega per affinità etico-politica, premettendovi la ricostruzione dei fatti, per intransigente rispetto verso i lettori e in doveroso spregio di ogni diplomazia. Non vi fu nessuna reazione. Meno che mai solidarietà.
Il mistero dell’intervista scomparsa
Le premesse remote risalgono a quando scrivevo in «Repubblica». M’aveva invitato Ezio Mauro (novembre 2001): centinaia d’articoli e il Bagutta 2004, sul filo del rasoio perché Divus Berlusco regnava e i cautelosi rabbrividivano, ma non la direi mésaillance se bene o male è durata quindici anni. Due mesi fa esce Rutulia (Quodlibet), dove confluisce largo materiale d’allora. Il «Venerdì» manda qualcuno a intervistarmi, 24 ottobre: non so chi sia, né figura nel folto onomasticon del quotidiano e settimanale; ero sul chi vive, perciò lascio che parli a dirotto sfogliando il libro costellato da scarabocchi. Niente in contrario quando chiedo quesiti scritti. Arrivano e li sciolgo nella stessa forma. L’indomani canta genuflesso (26 ottobre): «Professore, grazie mille»; usciremo l’11 novembre; qualche giorno prima manderà l’intero testo affinché io lo riveda. La formula perentoria smentisce i sospetti ma il séguito rimane nella luna. L’ufficio stampa Quodlibet s’informa presso l’intervistatore: l’hanno spostata al 25 novembre; rinascono i dubbi, più gravi; e quel mattino non ne appare nemmeno l’ombra. Interpellato dall’editore, il predetto racconta un’historiette: le risposte erano nello stile dei miei articoli, quindi «non adatte» all’intervista (mai uditi argomenti simili), sicché lui e il direttore hanno deciso di non pubblicarla; in graziosa vece propongono una recensione. Il verbo “proporre” suona equivoco: l’homo in fabula accondiscenda e sarà benvoluto; altrimenti sibila la frusta recensoria. Forse erano servizi alla Leopolda, i cui adepti temono le lame affilate. Secondo questo canone, l’intervista, genus letterario, è ammissibile in quanto vi coli broda tiepida. Non interessano le opinioni cliniche sulla storia recente d’un paese afflitto da qualche tabe ereditaria.
Tali i fatti, ed ecco l’opus svanito in mano ai maestri stilisti del «Venerdì» (ogni capoverso risponde a uno o più quesiti).
Divus Berlusco regnabat. Ottant’anni gli pesano addosso, senza contare le gaffes accumulate nel quarto di secolo, ma resta temibile. Nello schieramento referendario sceglie “no”: è mossa tattica non sappiamo quanto credibile; niente lo fa supporre rassegnato alla vecchiaia quieta. L’animale biblico Leviathan nuota sott’acqua, sornione, cacciatore inesorabile: inganna le prede; lo servono uccelli parassiti; apre le fauci e gli puliscono i denti mangiando i residui del pasto. Nel caso suo è lacuna utile non avere l’organo pensante, nonché quello dei giudizi morali: risparmia fatica e dubbi tormentosi; operazioni d’istinto gli riescono a meraviglia.
Le «larghe intese» erano l’obiettivo d’una politica quirinalesca d’impronta monarchica, tenacemente perseguìta.
Sarebbe enorme la grazia pretesa dal pirata dopo «l’attentato alla democrazia» che la Corte ha perpetrato applicandogli le norme. Qualche cortigiano ventila «guerra civile» e lascia pochi dubbi la fulminea nota con cui il Quirinale manda lodi al condannato, chiedendo riforme giudiziarie.
L’attuale presidente sta agli antipodi del predecessore. Temporibus illis (giovedì 26 luglio 1990) s’era dimesso con quattro ministri quando l’impudente Andreotti poneva la fiducia sulla legge Mammì, intesa al profitto parassitario d’un Re Lanterna già padrone delle Camere, sebbene non avesse ancora identità politica.
I 101 voti tolti a Prodi nel coup de scène 19 aprile 2013 gonfiano d’euforia l’Olonese: «meno male che Giorgio c’è», canta al microfono e dal complotto notturno nasce un governo a due teste, presieduto da Letta junior, nipote del mellifluo plenipotenziario d’Arcore; il séguito sarebbe diverso se la parola contasse qualcosa nel conclave politicante.
Storia tenebrosa d’una prigionia. Il recluso era Aldo Moro, nel «carcere del popolo». L’hanno rapito le Brigate Rosse abbattendo i cinque della scorta, tamquam non esset. Al Viminale, sotto Francesco Cossiga, tiene banco la P2, ferocemente ostile al sequestrato, fautore d’una cauta apertura al PCI e presidente della Repubblica in pectore. Le messinscene poliziesche durano 55 giorni, incluso lo scandaglio d’un Lago della Duchessa. Dovevano salvarlo. Fallite le ricerche, trattino. Lo Stato non può, dicono rigoristi ignoranti del codice penale (art. 54, stato di necessità). L’introvabile scrive lettere disperatamente lucide, spiegando che delitto sia lasciarlo lì. «Non è più lui», dicono i santoni, nella cui favola il misteriosamente recluso è succubo dei terroristi; muoia com’erano morti i cinque della scorta. I brigatisti hanno l’occasione d’un colpo formidabile (lo suggeriva caritatevolmente Paolo VI), quale sarebbe restituirlo senza contropartite scatenando una crisi nel sistema, ma inviluppati in formule subintellettuali, non sanno risolversi; alla fine l’ammazzano con intuibile sollievo degli «imperialisti» contro cui declamano. Assente il cadavere, Tartufi sanguinari fingono lutto in San Giovanni. Hanno vinto, Andreotti, P2, Cossiga, il quale non cambia mestiere vergognandosi dell’inettitudine: nient’affatto, vola ad sidera; successore d’Andreotti in due governi, presiede il Senato e da Palazzo Madama sale al Quirinale; poi infesta le acque politiche, caso clinico e mina vagante. Che vita rimarrebbe al povero «irriconoscibile» se rapitori con la testa sul collo, senza disegni occulti, l’avessero liberato, guidandolo in salvo perché ormai incuteva paura agli pseudolegalisti eroi sulla pelle altrui? Vita cattiva, da homo sacer, esposto al malanimo pubblico. Eventi simili lasciano segni indelebili nel corpo sociale. L’Italia esce marchiata come paese infetto.
Enrico Letta difendeva con le unghie l’innaturale premiership costruita dal Colle sull’asse berlusconoide Pd-Pdl: l’unico possibile, salmodiavano cercatori d’ingaggio; la «ripresa» è dietro l’angolo ma svanisce se il governo cade (dopo quattro anni l’aspettiamo ancora). Reduce dal Golfo Persico, vantava 500 milioni lasciati cadere nel cappello dagli Emiri. In via Arenula custodiva i sigilli l’ex prefetto Anna Maria Cancellieri, cara al Colle e puntuale nel sostegno della famiglia Ligresti. Eventi esterni rompono l’immobilità verbosa.
Lo sottovalutavano: in scena appare «veloce» (un Filippo Tommaso Marinetti senza insegna letteraria); è scaltro, insonne, famelico, ingordo, sicuro d’essere predestinato, molto pragmatico, pronto a muoversi in ogni verso. I suoi mondi mentali ignorano le ideologie. L’evanescente Letta apriva larghi spazi, ormai derelitto dal Quirinale, sicché una lieve spinta lo manda ai pesci. Agl’italiani piacciono i numeri da palcoscenico e i notabili Pd hanno poco appeal. Così ribalta le prospettive seminandosi un futuro nell’area postberlusconiana dalla quale l’adocchiano (gli elettori, non i gerarchi, spaventati dal concorrente). Nessuno lo supera come possibile erede del monarca logoro. Figura, gesti, parola, egotismi lo candidano al «partito nazionale». Saltano all’occhio due precedenti. Nella Roma medievale orfana del papa inscena mirabilia l’omonimo giovane notaio latinista, Nicola, abbreviato in Cola, figlio dell’oste Rienzi: s’è qualificato Spiritus Sancti miles, liberator Urbis, et cetera; sfoderata la spada in San Giovanni, taglia il mondo in tre fette, esclamando ogni volta «è mia» (1 agosto 1347). Ed è ancora giovane l’oratore imperioso Benito Mussolini, presidente del consiglio dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943. Non nominiamo Savonarola, il cui pathos tragico è assente nel fiorentino a Palazzo Chigi.
S’è identificato con l’Italia e racconta che la salus Rei publicae stia nel sì al referendum. Se il colpo gli riuscisse, sommando riforma costituzionale e Italicum o norme elettorali equivalenti avremmo in sella l’uomo che decide. Non è prospettiva consolante perché le sventure italiane dipendono da un malaffare economico nel quale l’eredità berlusconiana impedisce ogni serio intervento repressivo (vedi come lobbies industriose sabotino la raccolta delle prove).
p.s.
L’homo ecclesiasticus, armato di dogma, sa essere belva feroce che si accanisce contro chi compie il delitto più intollerabile: mettere in discussione l’autorità, servirsi autonomamente del proprio intelletto. La storia delle Chiese cristiane – cattolica e protestanti – ne è piena. E nessuna religione che si faccia istituzione ne è esente: l’assunto è che si debba estirpare l’eretico, lasciarlo vivo significa ammettere dubbi sulla parola divina. Oggi come ieri.
La fede cristiana è fatto d’eterogenesi. Gesù Nazareno, sul quale le fonti dicono poco, predicava l’imminente avvento del Regno ossia mondo nuovo e giusto sotto lo scettro divino: l’ingresso a Gerusalemme mira lì ma le autorità romane reprimono i moti sovversivi; l’incauto va sul patibolo; gli adepti spariscono. Qualcuno dirà d’averlo rivisto: allora è risorto e presto torna, luogotenente del sovrano: basta poco a trasformarlo in ente divino; l’attesa resiste alla delusione quel che basta ad alimentare una comunità credente, dove più della cellula germinale ebraica contano i neocristiani della diaspora mediterranea. L’impronta è ellenistica. L’evento cosmico s’allontana sine die e prende corpo la Chiesa configurandosi in gerarchia, riti, dottrina: parla greco e latino; mutua strutture dall’Impero; diventa centro politico; elabora dogmi ossia soi-disant verità incontrovertibili. Dissensi o dubbi sono variamente repressi, dalla blanda censura a pene terrificanti. Qui sta il punto debole del fenomeno ecclesiocratico, molte e vistose essendo le premesse vulnerabili in sede logica, storica, morale: che siamo mortali perché i protoplasti avevano violato un tabù alimentare nel paradiso terrestre, donde la tabe trasmessa ai discendenti, salvi o dannati secondo disegni concepiti ab aeterno; in mente Dei l’inferno, ancora vuoto (lo gestiranno angeli caduti), preesiste al mondo; vigono testi da intendere al lume delle glosse che detta lo Spirito santo, essendo uno e trino quel creatore. La gabbia dogmatica sviluppa dialettiche adoperabili in furiose contese. Ai ferri corti con verità empiriche, gli ecclesiasti invocano misteri oltre l’umanamente intelligibile (vedi Lutero contro Erasmo sul «servo arbitrio»: perché Dio predetermini le sorti individuali, è questione oscura; sarà disvelata nel lume della visione beatifica). Quando poi saltano fuori cognizioni mistiche negate al laico, l’espediente dista poco dalla frode. La casistica espone scenari penosi. Da notare come i sofismi teologali siano tutto fuorché sentimento religioso, se così definiamo lo sgomento dei caduti nell’abisso terreno. Quando li aiuta, Mater Ecclesia rende servizi caritatevoli. Siamole grati. Chi cerca una teologia in regola col pensiero legga Meister Eckhart, nel cui orizzonte speculativo Dio è inconoscibile, né ha senso chiamarlo creatore. Sembra più verosimile che il mondo esista ab aeterno (l’ammette anche san Tommaso, piegandosi malvolentieri al credo imposto).
Il caso archetipico è un aragonese incline all’avventura intellettuale e vi eccelle, maledetto dai concorrenti. A vent’anni irrompe in Europa con i centoventi fogli dei De Trinitatis erroribus libri septem nominandosi Michael Servetus: restano occulti editore e luogo (Haguenau 1531), pour cause; vi disintegra i feticci trinitari a colpi d’analisi logica tirandosi addosso le Chiese cattolica e riformata; l’anno dopo ripetono lo scandaloso colpo i Dialogorum de Trinitate libri duo, nonché de iustitia regni Christi capitula quatuor; e chiede ironicamente scusa del latino barbaro. Chierico vagante senza chiesa, disputa in Renania. Giovanni Ecolampadio era avversario debole. Martin Butzer accetta la sfida ma uditi gli argomenti, anziché rispondere, scaglia invettive: costui è diavolo in forma umana; il carnefice gli strappi le budella. Lui non batte ciglio. L’indomani s’incammina da Strasburgo verso Parigi. En route, cambia scelta, passando dai duelli teologali alla scienza medica. L’aveva già coltivata. Nel quinto capitolo del primo libello descrive la macchina cardiocircolatoria. I due ventricoli non comunicano direttamente: dal destro il sangue imbocca l’arteria polmonare, affinché «inspirato aeri misceatur et exspiratione a fuligine purgetur»; indi le diastoli l’attirano nel ventricolo sinistro, da cui scorre nelle arterie. Non è poco averlo scritto cent’anni prima d’Harvey.
A Parigi pubblica un trattato contro la farmacopea galenica, riedito a Venezia, 1546, e Lione, 1547: s’è elaborata una geniale medicina alternativa; i sorbonisti insorgono, finché il Parlamento emette un decreto inibitorio (quale massima corte giudiziaria, interloquisce spesso sugli eventi culturali). Usciva bene dalla polemica. Disgustato dell’ambiente, studia lo zodiaco; quando pronostica sventure dall’eclisse tra Marte e Luna, i Messieurs parlamentari dettano ancora un veto: l’astrologo discuta solo «de ordine rerum naturalium». Il libro seguente, Lione 1535, commenta le Enarrationes geografiche tolemaiche una cui versione latina era apparsa a Strasburgo, 1525. «L’imagination voyageuse» non gli concede tregua (J.M.V. Audin, Histoire de Calvin, Maison, Paris 1843, II, 273): a Lione era correttore nella tipografia Frellon; scende ad Avignone, risale il Rodano, trasloca a Charlieu, dove riprende l’arte medica con esiti felici. Infine eccolo a Vienne, ospite stabile dell’arcivescovo Pierre Palmier: s’erano conosciuti a Parigi; «homme du monde, il savait plaire et se faire aimer» (ivi, 276). Presso Hughes de la Porte riappare Tolomeo geografo, Lione 1541, lodato dai competenti, con dedica all’arcivescovo. Lo stesso editore gli paga bene le glosse a una bibbia latina (500 lire), sennonché lui rifiuta la quiete. Sulla Senna aveva sfiorato Calvino. Qui vuol combinargli un dialogo epistolare quel Jean Frellon nella cui bottega da bibliopola e stampatore in rue Mercière aveva lavorato: persona à double face; cattolico devoto, tiene sotto banco rapporti col papa ginevrino importando libri da vendere cari ai forestieri. Non sono interlocutori compatibili: uno intende la disputa quale opera intellettuale dove vinca chi ragiona meglio, senza verità precostituite; l’altro è un pitone del dogma; spettatori attenti notano come nel suo lessico il monosillabo «Dio» mascheri terribili egotismi; nominandolo parla de se ipso. Lo spericolato chiedeva garanzie d’immunità. L’egocrate confida i propositi a Guillaume Farel, officiante a Neuchâtel (lettera 13 febbraio 1546): se lo sogna il salvacondotto; «nolo fidem meam interponere», venga e non uscirà vivo; Serveto incolume significherebbe che Calvino conta zero. Scrittore elegante in prosa algida, spende argomenti da gangster ad maiorem Dei gloriam.
Storia crudele, conferma che siamo automi nel teatro cosmico (assioma della dottrina calvinista; in qualche punto equivoci eufemismi lo mascherano perché riesce insopportabile alle anime tenere; l’infallibile lettore se n’è accorto e non glieli perdona). L’Onnipotente aveva fissato i destini individuali: Miguel l’ha nefasto e vi corre diritto scrivendo settecentotrentaquattro pagine della Christianismi restitutio, niente meno che una revisione critica dell’universo dogmatico. Letti due o tre fogli, l’editore basilese Marrin (da non confondere col quasi omonimo Merrin) glieli restituisce perché scottano. Allora interpella Balthazar Arnoullet e il cognato Guillaume Guéroult, editori locali. Vistili muti (non vi capiscono niente), spiega cosa sia: un trattato; siccome tocca Melantone e Calvino, deve uscire senza nome d’autore, né luogo d’origine; ogni spesa sarà a carico suo, più cento scudi. La proposta era irresistibile. Gliel
o compongono in tre mesi. Se ne tirano 800 copie, raccolte in sei balle: cinque vanno a Pierre Merrin, Lione, presso Notre-Dame de Comfort; la sesta al libraio Frellon, da spedire a Francoforte sul Meno. Lo sappiamo infìdo: l’ha aperta; tolti vari esemplari, li manda a Ginevra.
Calvino era spiritosamente evocato nelle trenta lettere del nono libro e giura vendetta, avendo sotto mano due sicari. Uno è Nicolas Trie, rifugiato sul lago (la religione non c’entra, aveva i creditori alle calcagna); l’altro è un parente, Antoine Arneys, commerciante a Lione; e zelante cattolico, vuol riportarlo in seno a Mater Ecclesia. I cugini scambiano lettere, scritte dal mandante in perfida commedia: lo pseudo-Nicolas deplora il lassismo cattolico; a Ginevra non sarebbe tollerato chi nega la divinità della seconda Persona; e identifica l’anonimo allegando frontespizio nonché quattro fogli. Lettera e documenti vanno in mano all’inquisitore Matthieu Ory. Siamo nel tardo inverno 1553. Serveto nega d’esservi immischiato ma è difesa fragile. Le prove non lasciano dubbi. L’innescatore del caso simula sorpresa: non pensava che l’affare arrivasse a tali livelli; s’era rivolto «privément à vous seul», ma ormai actum est; voglia Iddio che il mondo cristiano sia ripulito de «telles ordures». Con quanta fatica aveva ottenuto i materiali d’accusa dal riluttante capo della Chiesa ginevrina: un conto è combattere l’eresia, altro punirla; lui non mette mano a opere penali. Lo sapevamo implacabile e scaltro, non che fosse untuoso Tartufo. Interviene Sua Eminenza de Tournon, governatore di Lione, e l’esito parrebbe scontato se l’inquisito non avesse dei protettori.
Venerdì 7 aprile, alle quattro del mattino, sotto un berretto da notte e vestaglia, chiede al custode la chiave della prigione: salta sul lastrico nel giardino; scala un muro; attraversa il cortile ed esce dalla porta sul ponte del Rodano. La meta era Napoli. Dio sa perché vada in terra elvetica e cos’avvenga nei tre mesi seguenti. Sabato 15 luglio prende alloggio nell’Albergo della Rosa a Ginevra. Voleva una barca che lo portasse verso Zurigo, ma rinvia la partenza a causa del maltempo, e così nei giorni seguenti, finché l’arrestano, domenica 13 agosto. Teneva i bagagli pronti. Stupisce che non l’abbiano scovato prima.
Ginevra ha statuto democratico e procedura accusatoria. Presenta denuncia Nicolas de la Fontaine, già cuoco in casa Falaise: Calvino lo chiama «Nicolas meus»; costituitosi prigioniero, s’è offerto alla pena del taglione se fosse smentito; erano d’accordo, quindi dopo tre giorni esce; nel quarto «absolutus est». Gl’interrogatori vertono su trentanove capi. L’evangelista imperversa in due figure, con sermoni quotidiani dal pulpito e nell’aula, avendo consulente l’apostata Germain Colladon, «homme de sang». Serveto oppone argomenti forti e svela i retroscena ma è partita disperata; gl’insetti lo mangiano vivo; restano senza risposta memorie difensive e suppliche. Sabato 21 ottobre il tribunale s’è riunito deliberando a larga maggioranza in tre sedute, cooperanti i ministri delle Chiese; deliberano pena capitale, ça va sans dire; è carne da rogo. Giovedì mattina 26 ottobre l’avvertono. Morrà l’indomani. Calvino lo descrive inebetito, in pose d’una stupidità da bestia bruta: emetteva profondi sospiri; ogni tanto gridava «misericordia!». L’indomani Farel lo visita in prigione lanciando l’idea d’un ultimo colloquio con l’antagonista trionfante; e lui accetta, restando muto quando vede che l’altro vuole solo cavargli l’abiura.
L’aspetta un corteo. Davanti all’Hotel de Ville il cancelliere dà lettura alla condanna. In ginocchio l’infelice chiede che gli taglino la testa, perché nel fuoco rischia l’anima, vittima della desperatio salutis. Confessi il delitto e Iddio l’aiuterà, nelle fiamme beninteso. Non crede d’avere delitti da confessare e se ha peccato, è per ignoranza. «In tal caso t’abbandono». Sulla via del supplizio (lo Champel è una collina) invoca soccorso. Lassù cade in ginocchio gridando e Farel lo indica al pubblico. Lo guardino: è un dotto, forse convinto delle sue idee ma gliele ispira Satana, nelle cui mani sta già. Attenti a non imitarlo e gli bisbiglia all’orecchio l’ultimo consiglio: c’è ancora tempo; confessi che Gesù è ab aeterno figlio del creatore (il delitto sta nel pensare che fosse uomo, poi investito del rango divino). Suvvia, gli raccomandi l’anima. La confida a Dio. Tutto lì? Il notaio era pronto a raccogliere ogni sillaba. Lascia famiglia? No, risponde scuotendo la testa. Desidera preghiere dagli astanti? Sì. «Vi chiede di pregare per lui». Siamo all’ultima intimazione. Confessi che la seconda Persona era «Fils éternel de Dieu». Non risponde. Quest’anima cade in mano a Satana, esclama l’accompagnatore, orgoglioso della parte recitata. Nei lunghi preliminari, incatenato al palo, sotto una corona di paglia intinta nello zolfo, Miguel chiede al boia d’agire presto: il fuoco s’accende lento; ha i piedi nella pira in fumi sulfurei; escono grida spaventose; gli abbreviano l’agonia buttando fascine. Il pubblico sfolla sgomento.
Le sventure d’un giramondo dicono che bestia feroce sappia essere l’homo ecclesiasticus quando, armato del dogma, sopraffà gli avversari. La Christianismi restitutio contava 800 copie in sei balle: cinque vanno nel rogo cattolico a Vienne, con l’autore buonanima in effigie; alla sesta provvede il destinatario francofortese, racconta Calvino; «vir pius et integer, suppressit quidquid habebat». Tre secoli dopo, lo storico dei libri Jacques-Charles Brunet scova due esemplari venduti in aste alle stelle. Calvino riappare nella Fidelis expositio errorum Michaelis Serveti et brevis eorumdem refutatio: l’assunto è che dobbiamo estirpare l’eretico; chi lo lasci vivo, ammette dubbi sulla parola divina, sicché cadono i fondamenti della fede. Con qualche sfumatura lievemente diversa, le Chiese riformate erano concordi sulla linea inesorabile (Zurigo, Sciaffusa, Basilea, Berna, Strasburgo). Dovevano strappargli le budella, farfuglia ancora l’ossesso Butzer. L’umanista luterano Melantone scioglie un inno al vincitore: sarà incoronato dal Figlio divino, presente all’ordalia; la Chiesa gli è grata, attuale e futura. Indi dà per certo che, «les choses ayant été dans l’ordre» (abbiamo visto lo scempio), i magistrati abbiano lavorato bene condannando l’apostata.
L’orrida cerimonia sullo Champel era politica ecclesiastica. Il sistema implica polizie del pensiero sotto varie insegne, dal cardinale nel Sant’Uffizio al commissario bolscevico. Giovedì mattina 17 febbraio 1600 l’ex domenicano Giordano Bruno dopo un processo interminabile muore arso vivo nel Campo dei Fiori, col morso perché aveva «bruttissime parole in gola»: non importa quanto valga intellettualmente; negava dei dogmi, sostenendo inter alia che i mondi siano innumerevoli, eterni, ed esistessero dei preadamiti. Trecentoquarantadue anni dopo, monsignor Angelo Mercati pubblica un sommario degli atti, concludendo che in quel quadro normativo processo e pena fossero legittimi. Meno cauto, l’Osservatore Romano, 20 giugno 1942, ribadisce la condanna in memoriam, senza lesinare le contumelie, perché i delitti del pensiero sono imprescrittibili. Gusti e levatura int
ellettuale ricordano il carnefice che insulta l’ucciso, commenta Benedetto Croce (La Critica, 1942, 283s.), ma altrove loda l’Inquisizione, «veramente santa» quale ortopedia mentale sul manipolatore d’errori (Filosofia della pratica, Laterza, Bari 1963, 8a ed., 46s.). Nello storicismo cortigiano o chiamiamola dialettica da Politburo, i roghi calvinisti portano progresso, diversamente dagli spagnoli: era in pericolo il futuro della libertà, raccontano i devoti al sistema, e Calvino l’ha difesa; nella stessa chiave pontifica lo stalinista György Lukács (apologeta delle purghe moscovite 1936-38: salvavano l’Urss dalle fauci d’Hitler). Michele Serveto paga la colpa d’essere più intelligente e audace del tollerabile nel regno dei dogmi; i teologanti erano in rissa su poste molto terrene; trapela invidia dal freddo furore con cui Calvino lo persèguita.
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Deo adiuvante, esistono anche i guerrieri del dissenso. Mani anonime ma identificabili (Sébastien Chateillon, Lelio Sozzini, Celio Secondo Curione) salvano l’onore della famiglia umana con un’antologia dell’opinione libera, dalla Patristica ai contemporanei (Magdeburgo, primavera 1554). È Matteo Gribaldi Mopha l’«Italus iurisconsultus celeber»: cattedratico a Padova, rischiava la testa nella polemica con gli attori della farsa nera ginevrina; due anni dopo se ne va, costrettovi dalle «monachorum insidiae»; lo chiama Tubinga ma ormai è vita impossibile; e subisce l’ultimo sfratto da Francesco Guisa, governatore del Delfinato, nella cui Università insegnava ius civile, malvisto dai praticoni. Continuano le sue dottrine i conterranei piemontesi Giovanni Paolo Alciati e Giorgio Biandrata (Delio Cantimori, Eretici italiani del Cinquecento, Einaudi, Torino 1992, 205-25). Gli antitrinitari italiani sono un capitolo glorioso nella storia del pensiero.
I depositari del potere temono lo sguardo intellettuale: quanto meno i sudditi pensano, tanto meglio; l’optimum è un codice linguistico epurato dove, mancando parole adatte, siano sprangate le idee pericolose. Non è lunga né ardua l’operazione riduttiva: i pensieri consumano energia e tensioni emotive; emergono cose che vorremmo non sapere, cominciando dalla condanna biologica sotto cui nasce ogni animale umano, e siccome l’organo intellettivo richiede assidua manutenzione, il mancato uso porta atrofia. Sapere diventa colpa, quindi sopravvengono lobotomie collettive. L’industria della parola non pensata fornisce l’effetto narcotico, inibitorio o impulsivo. In politica, ad esempio, i discorsi hanno cadenze artefatte come litanie, esorcismi, salmi. Nel divertissement intellettuale tiene banco una compagnia dello spegnitoio, trasversale, metamorfica, abile nel dislocarsi, quindi sopravvive al collasso dei regimi: dove allunga le mani, il pensiero è galeotto; ne ammette barlumi in dosi omeopatiche, affinché non disturbi i consumatori. Leviathan li vuole malleabili, mezzi assopiti, con intervalli carnevaleschi, pronti all’applauso o mimica rabbiosa. Chierici addestrati alternano inni trionfali e man biting, indifferenti all’identità della persona su cui lavorano. Commissari d’un sistema anonimo identificano, schedano, sorvegliano gli ancora pensanti. Nessuno s’arrischi a vedere dentro le cose e dirle quali sono, scovando i nessi. Non interessano le qualità. Il mercato chiede manufatti riproducibili al costo minimo. Tra gli assuefatti è spontaneo il rifiuto d’ogni prodotto difforme. Insomma, siamo a buon punto nella tecnologia dell’automa umano, senza lugubri scenari calvinisti. Nei moderni autodafé spira buon umore. Vociferanti entusiasti simulano significati sublimi (cosiddetti glossòlali): san Paolo li biasima; è solo rumore vocale, al di qua della parola (Prima epistola ai Corinti, 14.27s.). Non perde colpi l’industria del vaniloquio.
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