In ricordo di Carlo Augusto Viano

Carlo Augusto Viano


È morto a 90 anni il filosofo Carlo Augusto Viano, collaboratore di MicroMega e teorico della costruzione di una bioetica laica. Lo ricordiamo ripubblicando il suo saggio “Indifferenza e indulgenza” da MicroMega 1/2017. Altri interventi di Viano sono pubblicati nel Rasoio di Occam: La cultura dell’indulgenza | Tra coscienza infelice e democrazia: il caso dell’obiezione di coscienza | I danni collaterali del terrorismo: inquinamento da valori | Il rasoio di Occam è di sinistra? | Consumismo etico | Perché "la scintilla di Caino"? | La razionalità sostanziale è finita in Cina
INDIFFERENZA E INDULGENZA
Per lungo tempo le società dei paesi occidentali sono state caratterizzate da una ‘secolarizzazione per indifferenza’, un allontanamento dalla religione non fondato su strutturati argomenti razionali e complesse elaborazione filosofiche, ma che emergeva quasi per inerzia, una secolarizzazione passiva e ‘non colta’, destinata dunque a cedere alla prima tentazione totalitaria. Oggi assistiamo invece a una sorta di indulgenza intellettuale nei confronti delle religioni, una sorta di presunto “doveroso silenzio dell’intelletto di fronte al valore morale delle credenze”. Atteggiamento che conduce alla rinuncia all’affermazione dei diritti individuali a vantaggio di pericolose visioni comunitariste.
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Nella pubblicistica corrente, ma anche nella letteratura più sofisticata, si incontrano due posizioni che sembrano incompatibili: da un lato si dice che nella nostra epoca le società ricche ed evolute sono secolarizzate, dall’altro si osserva che le religioni mostrano una nuova vivacità. Non è detto che queste osservazioni non possano essere entrambe vere.
Nelle società secolarizzate le forme di vita imposte o proposte dalle religioni sono trascurate o abbandonate. Il fenomeno si è verificato specialmente nei paesi di religione ebraica e cristiana e soprattutto nelle società industriali ricche, nelle quali le religioni hanno dovuto fare i conti con un’opulenza che ha reso possibili stili di vita un tempo neppure pensabili. In queste società inoltre il potere politico è entrato sempre meno nella vita privata e non ha dovuto contare su un’alleanza con il potere religioso, con il quale anzi ha potuto essere in conflitto. Si pensa subito alla Terza Repubblica francese o alla Germania di Bismarck, ma la secolarizzazione si è affermata perfino sotto i regimi dittatoriali nati nelle società liberali del XX secolo. Dopo la seconda guerra mondiale la secolarizzazione si è ulteriormente ampliata, nonostante che spesso il potere fosse esercitato da partiti esplicitamente confessionali, i quali però rispettavano regole liberali e democratiche, anche se lo spirito liberale si era affievolito dappertutto.
La liberalizzazione dei modi di vita non si è tuttavia accompagnata a un rifiuto esplicito delle religioni o a un abbandono delle credenze da esse proposte. I cattolici hanno colto questa posizione quando hanno parlato di «ateismo pratico»: a modo loro hanno riconosciuto che le indicazioni della Chiesa venivano disattese, anche se non si mettevano in discussione le dottrine né si contestavano le autorità religiose. Questo spiega in parte il successo dei partiti confessionali dopo la seconda guerra mondiale in Italia, in Francia o in Germania: quei partiti fruivano della paura del comunismo, ma anche della percezione che c’era spazio per scelte individuali difformi dall’insegnamento delle autorità religiose. La conservazione di uno spazio religioso «inerte» rende meno sorprendente quello che viene spesso inteso come un ritorno delle religioni. Dissociate da imposizioni di modi di vita, le credenze religiose si sono in una certa misura conservate, pronte per essere riutilizzate.
Una secolarizzazione di questo tipo può essere considerata una secolarizzazione per indifferenza. Essa sembra un fenomeno diffuso, non «colto», che non parte da posizioni politiche, filosofiche o ideologiche elaborate e che spesso si accompagna al rifiuto o addirittura al fastidio per la cultura «alta» o «dotta». Questa forma di secolarizzazione non è del tutto assente neppure nelle società che sembrano più ampiamente controllate da religioni istituzionali, perché proprio la trasgressione non giustificata con apparati culturali elaborati, considerata superficiale e incapace di creare una vera alternativa alle religioni organizzate e ufficialmente riconosciute, è più facilmente sopportata dalle autorità religiose.
A occupare lo spazio lasciato libero dalle religioni è spesso intervenuto lo Stato, soprattutto dove esso aveva rivendicato la propria autonomia rispetto alla Chiesa. Questo processo si è avviato quando, con la Riforma protestante, le comunità cristiane dissidenti, rispetto alla Chiesa romana o anche rispetto alle Chiese protestanti dominanti, hanno cercato o accettato la protezione dello Stato; ne è derivato il confinamento della vita religiosa nell’ambito puramente spirituale, in cui non c’è bisogno di ricorrere ai mezzi materiali, con i quali si esercita il potere. Il trasferimento dei beni materiali della Chiesa a proprietari «secolari» è stata la prima forma di secolarizzazione sistematica e programmatica, che ha messo nelle mani dello Stato i beni ecclesiastici ritenuti necessari al perseguimento delle funzioni pubbliche, quali l’istruzione e l’assistenza sociale, un tempo esercitate dalla Chiesa. Questo tipo di secolarizzazione è cambiato quando all’immagine dello Stato come protettore della libertà individuale è subentrata l’idea di Stato nata dalla Rivoluzione francese, uno Stato nazionale forte, capace di difendere la patria messa in pericolo non soltanto dagli stranieri, ma anche dai cittadini sospettati di infedeltà. Così, più che proteggere la libertà religiosa individuale, lo Stato ha finito con l’imporre una religione pubblica, che doveva sostituire quella cristiana.
L’affermazione dello Stato nazionale si è accompagnata a movimenti che della secolarizzazione offrivano giustificazioni culturali e che la promuovevano, fondando associazioni, il cui scopo era educare le persone a vivere e pensare in modo indipendente dalle istituzioni religiose. In questi ambienti era diffusa la convinzione che le credenze religiose tradizionali fossero incompatibili con il sapere moderno, specialmente con il sapere scientifico, e che fosse venuto il momento per una liberazione completa dalle superstizioni religiose. Ma nell’Ottocento sorsero anche religioni laiche, di ispirazione filosofica, che intendevano conservare qualcosa dello spirito religioso; e le stesse religioni tradizionali furono apprezzate in una nuova prospettiva, non tanto per il loro contenuto, quanto per la loro funzione come istituzioni pubbliche, parti integranti dello Stato. Tipica in questo senso era l’interpretazione della religione offerta dall’idealismo filosofico ed esposta in modo canonico da Hegel.
Quando, a metà dell’Ottocento, diminuì l’attrattiva esercitata dai grandi sistemi filosofici, i filosofi cercarono nei valori, oggetto di scelte morali, il sostituto delle religioni. Questa impostazione permetteva di apprezzare il pluralismo religioso e di conservare il riconoscimento delle religioni come istituzioni sociali. Furono allora le ideologie ad ereditare la forza con cui le filosofie avevano cercato di sostituire le credenze religiose. Mentre si affermava, specialmente nell’Europa continentale, in particolare in Germania, l’idea dello Stato come forza, anche le ideologie nazionalistiche e socialiste proponevano idee di Stato forte, controllore unico delle credenze collettive. I regimi totalitari novecenteschi avrebbero realizzato questi modelli e il comunismo sovietico avrebbe istituito un vero e proprio ateismo di Stato.
Dopo la seconda guerra mondiale il mondo occidentale vide sorgere regimi nei quali le istituzioni democratiche, che tendevano a far prevalere le istanze pubbliche sulle scelte private, riconoscevano tuttavia i diritti individuali promossi dalla cultura liberale. In molti paesi, nei quali sorsero quei regimi, le religioni tradizionali conobbero una rinascita. Non si trattava di un vero e proprio rinnovamento del fervore religioso, perché spesso si riconosceva nelle religioni positive e nello loro organizzazioni ecclesiastiche una forma di resistenza all’ideologia comunista. Contemporaneamente, sia per le istanze liberali presenti nella cultura politica diffusa, sia per effetto delle politiche sociali praticate sotto la spinta dei partiti socialisti o per togliere spazi ai partiti comunisti, si diffondevano modi di vita sempre più lontani da quelli raccomandati dai cleri cristiani. Dove la cultura liberale era molto debole, come in Italia, talvolta la rivendicazione di quei modi di vita prendeva l’aspetto di lotta per nuovi diritti, come nel caso del divorzio, ma il più delle volte si trattava di un abbandono tacito dei riferimenti religiosi, diventati indifferenti.
Tramontato il mito delle grandi religioni filosofiche, alla secolarizzazione per indifferenza, trattata come un fenomeno negativo, si è contrapposta una religione civile, che avrebbe dovuto ispirarsi non a divinità, ma a valori. In Italia è stata esemplare la vicenda di Croce. All’inizio egli aveva creduto che Machiavelli avesse insegnato l’indipendenza della politica, intesa come esercizio della forza, dalla morale e gli era parso che Marx, Machiavelli contemporaneo, avesse visto nella lotta di classe la manifestazione aggiornata della politica come forza. Poi la politica come forza si materializzò nel fascismo, un movimento che non aveva nulla a che fare con Machiavelli e che nasceva dal socialismo rivoluzionario novecentesco, più che da Marx. Allora Croce si inventò l’interpretazione eticopolitica della storia e la religione della libertà, l’unica capace di tener viva la fede in una prospettiva antifascista. Alla libertà si sono sostituiti altri idoli, usati per la costruzione di religioni civili, tutti eretti contro il pericolo dell’abbandono per indifferenza delle religioni positive.
La religione civile doveva anche porre rimedio all’insufficienza delle ideologie, giudicate deboli rispetto alle religioni tradizionali, anche quando sembravano godere ancora di una discreta salute. In Italia esponenti della cultura laica si misero a dire che i cattolici «avevano una marcia in più»; ma la cosa poteva essere ripetuta per ogni altra religione. L’abbandono delle religioni tradizionali sembrò il frutto dell’intellettualismo illuministico; e si sa che chi proveniva da forme culturali fortemente impregnate di ideologia era propenso a ritenere l’illuminismo un prodotto borghese, che avrebbe fornito i mezzi per la realizzazione della servitù capitalistica o della schiavitù dei consumi, meno appariscente delle catene del capitale, ma più pervasiva. Per non cadere nelle spire della dialettica dell’illuminismo, cioè della generazione della servitù attraverso la libertà, l’unica era ricorrere al riconoscimento delle religioni, da portare nella sfera pubblica, in cui esse avrebbero potuto esprimere le loro ragioni, che gli altri interlocutori sociali avrebbero dovuto prendere in considerazione. L’arrivo in massa nei paesi di tradizione cristiana di persone estranee a quella tradizione rendeva più difficile la pratica del riconoscimento, perché altro è muoversi entro convenzioni culturali uniformi, altro confrontarsi con culture diverse, talvolta radicalmente diverse, come ben sapeva il multiculturalismo; ma ci fu anche chi vide in tutto ciò l’occasione per ampliare le prospettive del mondo occidentale.
Proprio il caso del multiculturalismo ha messo in luce quanto sia ambigua la formula che raccomanda di «portare le religioni nella sfera pubblica». Le religioni infatti sono di per sé fatti pubblici: i loro seguaci praticano culti, che sono spettacoli, indossano abiti speciali, portano contrassegni, mangiano certe cose e non altre, esibiscono le regole alle quali si attengono nella loro vita sessuale ecc. Inoltre fanno propaganda per le proprie pratiche. In una società liberale ciascuno è libero di prendere in considerazione quelle cose, di ascoltare quella propaganda, di accettare raccomandazioni e pratiche o di respingerle, giudicandole negative o addirittura esecrabili. L’importante è che i membri delle comunità religiose non pretendano di imporre, con mezzi diversi dalla libera persuasione, i precetti della propria religione, neppure a chi dichiara di professarla. Inoltre non si dovrebbe esigere che, in nome del rispetto dovuto alle religioni o nel timore che esse siano espulse dalla sfera pubblica, si impedisca per legge la critica, anche severa e dura, fino alla satira, delle religioni in campo.
Questo è ciò che la cultura liberale suggerisce; ma chi sostiene l’inserimento delle religioni nella sfera pubblica intende attribuire alle religioni il diritto di orientare le decisioni pubbliche, motivandole con le credenze religiose, da imporre anche a chi non le condivide. Chi invoca il cristianesimo per giustificare l’uso di simboli cristiani in luoghi pubblici o per misconoscere o vietare certe forme di affettività, di sessualità o di procreazione, senza tener conto di chi cristiano non è, lo fa sostenendo che il cristianesimo caratterizza una comunità, indipendentemente dall’adesione dei singoli alle credenze e alle pratiche religiose. A chi propugna queste posizioni non basta il diritto di condannare pubblicamente i comportamenti che la religione non approva, perché pretende che alle credenze religiose e alle loro implicazioni pratiche venga da tutti tributato un particolare rispetto. Emerge qui il contrasto tra la concezione liberale, per cui non si è liberi se non ci si può comportare in modi diversi da quelli suggeriti dalle culture dominanti, e quella comunitaristica e multiculturalistica, per cui la libertà consiste nell’adesione ai dettami della propria cultura.
Il riconoscimento della funzione delle religioni nelle decisioni pubbliche è stato richiesto non soltanto dai seguaci delle religioni, ma anche da intellettuali che hanno considerato insufficiente o deprecabile la secolarizzazione per indifferenza. Essi hanno visto nelle religioni aspetti positivi, indipendentemente dalle pretese dei loro esponenti. Le credenze religiose sarebbero infatti ispirate alla solidarietà e costituirebbero valide alternative all’individualismo che caratterizza la società moderna, dominata dal sapere scientifico e dalla tecnologia e che ha la massima espressione nell’economia moderna e nella stessa scienza economica, almeno nella sua versione dominante, di fatto asservita al capitalismo.
Eppure questa immagine delle religioni positive è stata smentita da ciò che è accaduto dopo la fine della guerra fredda, quando sono emerse nuove fratture, e proprio lungo le linee segnate dalle religioni. Perfino in Europa, in cui secoli di guerre di religione e di scontri tra nazioni sembravano aver educato i popoli alla convivenza, le antiche divisioni religiose sono riemerse. La Jugoslavia, in cui alcuni avevano visto una forma di comunismo meno tirannico di quello sovietico e che comunque sembrava predisposta a diventare uno Stato federale, ha dato luogo a rissose comunità fondate sulle appartenenze religiose. Né ha retto l’immagine del mondo musulmano unitariamente in rivolta contro il colonialismo, perché anche qui, dopo un primo periodo, in cui i paesi arabi hanno guardato alle dittature fasciste come a dei modelli, è emerso il fattore religioso, che ha finito con il provocare guerre tra le comunità musulmane, rendendo via via meno credibili le accuse di quelli che attribuivano al colonialismo e al capitalismo globalizzante le colpe di quei conflitti.
Quasi quotidianamente il papa si affanna a proclamare che la religione, la vera religione, non ha nulla che fare con la guerra, mentre ovunque avvampano guerre di religione. È vero che le religioni promuovono solidarietà, nel senso che creano sensi di appartenenza e rafforzano i vincoli interni, ma contemporaneamente generano una resistenza nei confronti di chi sta fuori. Infatti le forti solidarietà creano al proprio interno gerarchie, domini e competizioni, che non tollerano compromessi, e tracciano, ai propri confini, linee di frattura e di ostilità. Il vecchio Hume ben sapeva che l’egoismo è universale, mentre le solidarietà sono ristrette; e perfino lui era un po’ ottimista, quando coniugava benevolenza e simpatia. La cultura laica spesso va imprudentemente oltre la stessa cultura religiosa, quando trasforma la solidarietà con il prossimo, raccomandata dai codici religiosi, nella fratellanza universale. In realtà filosofi e ideologi o postideologi (quelli che propongono «racconti», anziché idee) guardano con simpatia alle religioni, perché vi cercano una compensazione alla perdita di credibilità dei saperi finti ai quali si erano affidati: le credenze religiose sono sembrate forme di sapere indulgente, che va valutato e apprezzato per il suo valore morale e politico, senza indebolirlo con un’inopportuna caccia agli errori. Le religioni sono state il terreno preferito per la caccia alle imposture, praticata da intellettuali sempre minoritari e spesso perseguitati; ma un rinnovato rispetto per le religioni metterebbe utopie, filosofie, ideologie e narrazioni al riparo da fastidiosi cacciatori di imposture.
Il risveglio delle religioni non è un fatto puramente «culturale», né l’attenzione per questo fenomeno è una scelta «filosofica»: il ritorno alle religioni è stato attribuito al venir meno della sicurezza sociale nei paesi più ricchi, al fallimento dell’integrazione degli immigrati nei paesi industriali e, più in generale, alla globalizzazione o ai suoi errori. Il tentativo di diffondere i modi di vita «alienanti», che nei paesi più progrediti avevano permesso di soddisfare molte delle istanze dei lavoratori dell’industria, almeno di quella delle società novecentesche progredite, non si è esteso su scala mondiale. C’è stato un momento in cui si è detto che il rossetto o le scarpe con i tacchi sotto il burqa erano un varco aperto per la modernità nelle repubbliche teocratiche o sotto i talebani; ora Gino Strada può fare della sinistra ironia, domandandosi se valesse la pena di fare tante guerre per liberare le donne musulmane dal burqa. Rossetti e tacchi alti sembrano ricordi irrispettosi di luoghi nei quali infuria la guerra, ma non è consolante che i nuovi poveri, gli scontenti o gli eredi di generose utopie si affidino ora a fedi superstiziose, a patrie, a dolci declini o alla benignità della terra o della natura.
Le ideologie dominanti dell’Ottocento e del Novecento proponevano piani universali di riordino della società, pieni di contenuti utopistici, arbitrari, infondati, che ovviamente non si sono realizzati, anche se hanno avuto conseguenze importanti. La crisi di quelle prospettive ha aperto gli spazi per i localismi, che il comunitarismo ha occupato dagli anni Settanta del Novecento in poi. Si è creata l’impressione che di quegli universalismi rimanesse soltanto la globalizzazione, che poteva contare sull’ubiquità del sapere scientifico e delle tecniche produttive. Come tutte le trasformazioni, anche la globalizzazione ha avuto costi e ha spostato benefici tra paesi, gruppi sociali e persone. È perciò abbastanza comprensibile che chi si è trovato svantaggiato e ha visto svanire sicurezze o restringersi le scelte che aveva a disposizione aspiri a un ritorno e si indirizzi verso le immagini offerte dalle culture locali e dalle religioni, cercando in identità, più o meno inventate, un modo per farsi una ragione del restringimento degli orizzonti o per cercare una via di uscita.
La critica delle imposture religiose è sembrata inadeguata e inopportuna di fronte alle sofferenze dalle quali traeva origine il risveglio religioso ed è apparsa come la sopravvivenza di una cultura che non aveva saputo prevedere né prevenire gli effetti negativi della globalizzazione. L’indulgenza intellettuale è apparsa come il doveroso silenzio dell’intelletto di fronte al valore morale delle credenze. A beneficiare dell’indulgenza sono comparse non soltanto religioni collaudate, ma, in massa, nuove «narrazioni», negazioni fantasiose del sapere scientifico, saperi finti, profezie sul futuro prossimo e la riscoperta di tradizioni più o meno inventate: tutti a esigere l’estensione dell’indulgenza rivendicata dalle religioni. Si è confusa così l’espressione delle istanze più comprensibili con la conquista di strumenti conoscitivi autentici, dotati, oltre che della solidità, di una forte carica consolatoria.
Il «sonno della ragione» è una formula ambiziosa e della ragione, cedevolissima alle lusinghe di chiunque la invochi, è bene non fidarsi. Nel mondo provato dalla Grande guerra la ragione comunque si addormentò di fronte a quella che si presentò come «rivoluzione conservatrice», fatta di contenuti elevati e di giustificati rifiuti della crudeltà del mondo moderno, cose da letterati e filosofi. Quando in quelle cose, volgarizzate, si mise a credere chi veramente aveva sofferto e ancora soffriva dei guasti della guerra, quando i disereditati credettero di trovare, nel passato delle loro patrie o in una natura che sapere e tecnica avevano violato, i rimedi dei loro mali e ne individuarono i responsabili nei banchieri (magari con il profilo ebraico), si crearono i presupposti delle dittature europee del Novecento. Anche i poveri e i dimenticati credettero nella mobilitazione morale; finirono mobilitati negli eserciti a farsi ammazzare nei campi di battaglia. Era un percorso non imprevedibile: partito dall’ambiguo moralismo di Socrate, Platone non aveva finito con l’immaginare una città retta da soldati e giudici dell’inquisizione? A chi prometteva rigenerazione morale contro la corruzione politica si perdonarono i programmi strampalati. Mussolini e Hitler avrebbero fatto pulizia e, arrivati al potere, sarebbero stati costretti a rinunciare a ciò che dicevano per farsi propaganda. Gente perbene, intellettuali raffinati, solidi borghesi, ecclesiastici, addirittura il serissimo Stato maggiore tedesco si fidarono. Ottenuta un’accondiscendente indulgenza, quei personaggi misero in pratica proprio le cose più strampalate che avevano detto.
(24 luglio 2019)




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