Incertezze, malinconie, dolore: emoziona il Moretti più intimo
Paolo Mereghetti
, dal Corriere della Sera, 14 aprile 2015
Come sono lontani gli anni in cui Nanni Moretti poteva definirsi uno «splendido quarantenne»! E non certo perché adesso il regista di anni ne abbia 61, ma perché è sempre più difficile rivendicare la gratificante distanza di allora tra sé e un mondo che «splendido» non era. Film dopo film, Moretti aveva costruito un «personaggio» certo della propria intangibilità da compromessi e immoralismi, capace di guardare a se stesso con l’orgoglio (e la superbia) di chi non doveva fare i conti con niente e nessuno.
Le prime crepe si sono viste con Habemus Papam: dubbi pubblici e politici, sull’incapacità — attraverso la figura del Papa neoeletto — ad assumere un ruolo che altri volevano attribuirgli (ricordate il movimento dei «girotondi» e il sogno accarezzato da molti che Moretti ne diventasse il leader?). Adesso Mia madre scava più a fondo e rivela un Moretti che — attraverso la regista alter-ego del film — confessa i suoi dubbi e le sue incertezze anche private. Con una sincerità insospettata nell’apodittico Michele Apicella.
La protagonista del nuovo film è infatti una donna, Margherita (interpretata dalla Buy), che rischia di essere schiacciata da tutta una serie di problemi: sta girando un film (sulla crisi economica) il cui protagonista — fatto venire dall’America (John Turturro) — non si ricorda le battute e sembra refrattario ad ascoltare i suoi consigli; la madre (Giulia Lazzarini) è ricoverata in ospedale con serissimi problemi cardio-respiratori, tanto che i medici disperano di salvarla; la figlia tredicenne (Beatrice Mancini) non ne vuol sapere del latino e del ginnasio a cui l’hanno iscritta; e sul fronte sentimentale — un ex marito (Stefano Abbati), un amante (Enrico Ianniello) lasciato da poco — sembra esserci solo solitudine. Per fortuna c’è il fratello maggiore Giovanni (Moretti), calmo e riflessivo tanto lei è tesa e nervosa, che sceglie di lasciare il lavoro per stare vicino alla madre ed è pronto ad offrirle il proprio buon senso e la propria comprensione.
Scegliendo uno stile di riprese volutamente sottotono e mescolando tempi e modi del racconto (dove passato e presente si intrecciano a realtà e sogni) Moretti cambia radicalmente il tono dei suoi film precedenti e costringe lo spettatore a interrogarsi continuamente sulla verità di quello che sta vedendo. O meglio: sull’esatta collocazione temporale e spaziale di un racconto che pur procedendo per successivo «accumulo» di personaggi e situazioni, sceglie di farlo con la maggior economia di mezzi possibile. Ne esce un film sprovvisto di quella consequenzialità logica che forse ci aspetteremmo e che aggiunge ogni volta una tessera a un mosaico che trova il proprio senso strada facendo.
All’inizio questo procedimento fatica ad ingranare. La scelta di «togliere» invece che di «aggiungere» scivola a volte in una certa programmatica freddezza e viene il dubbio che il regista si sia imbarcato in una personalissima (e distillata) versione di 8 ½ : le disavventure del film e delle sue riprese, con i dubbi sul proprio mestiere e le proprie scelte, con gli incidenti di percorso e di lavorazione (alcune volte anche molto comiche), sembrano soffocare tutto. Ma piano piano il baricentro del film si sposta verso l’introspezione e una (inaspettata) confessione in pubblico che stupisce e colpisce. La sceneggiatura — firmata dal regista con Francesco Piccolo e Valia Santella, da un soggetto cui avevano lavorato anche Gaia Manzini e Chiara Valerio — prende un percorso inaspettato. Almeno per il Moretti d’antan.
Non che manchino frecciate e graffi, come la squallida «dolce vita» che l’attore americano insegue su tavolini lontanissimi da ogni «grande bellezza» o le pose da regista che Moretti fa mutuare alla Buy da se stesso (comprese le ossessioni brechtiane sul personaggio-attore), ma prende il sopravvento un disincanto struggente e malinconico, dove finisce per essere più importante la coscienza dei propri limiti che non il dramma incombente della morte. Perché è proprio a partire dalla finitezza umana della genitrice che il film (e Moretti) si interrogano sulle proprie azioni, le proprie scelte, i propri atti. Con un bilancio lontanissimo dal trionfalismo passato e con un’apertura sul futuro («Al domani» sono le ultime parole del film) che promette molto.
(15 aprile 2015)
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