Incontro con Matteo Garrone, Paolo Sorrentino e Saverio Costanzo

MicroMega

Lost e Sex and the City sono cinema? Come mantenere la limpidezza, avendo a che fare con un’industria? Quale significato ha un cinema che parte dal reale atipico, inedito, e lo trasfigura col suo sguardo? Garrone, Sorrentino e Costanzo raccontano stili e intenti di un cinema la cui realtà è rivoluzionaria rispetto all’epoca in cui nasce.

a cura di Giovanni Perazzoli
dall’Almanacco del cinema italiano, MicroMega 7/2006

Matteo Garrone: Credo che un cineasta debba compiere lo sforzo di liberarsi dalla rappresentazione empirica della realtà, per cercare una realtà più profonda. Che è la vera realtà. La difficoltà per un regista sta tutta qui, nel riuscire a raccontare l’essenza delle cose con uno sguardo che vada oltre il loro aspetto esteriore. In questo senso, le storie che racconto partono da un’idea che prende spunto dalla realtà per poi trasfigurarla.
Paolo Sorrentino: Per me un film può nascere dalla curiosità che mi suscitano delle situazioni che mi appaiono misteriose. Le conseguenze dell’amore ha avuto inizio proprio dal mistero che mi evocano le stanze degli alberghi. Il mistero di una stanza di albergo potrebbe non avere una base reale; forse negli alberghi non succede niente di misterioso, e tutto è molto banale. Ma il problema non è questo. Il problema è di rendere misterioso quello che esteriormente è banale. Il cinema che vuole essere reale a tutti i costi è ormai obsolescente. Di fatto è soppiantato anche dal più scaciato servizio di Ballarò. Lo dimostra anche l’insuccesso di certi film belli, ma eccessivamente realistici, come i film di Francesco Munzi o di Vincenzo Marra, Saimir e Vento di terra. Sono film inattuali perché ricalcano una realtà che mostra anche la televisione.
Dopo la televisione, insomma, il cinema non si può più permettere di ritrarre il reale in presa diretta. A meno che non si tratti di una realtà di cui non si occupa la televisione. È il caso, ad esempio, dei paesi arabi. Private di Saverio Costanzo non si occupa di un conflitto di casa nostra, ma di una realtà di cui si sa poco. Il film di Saverio è più avanti rispetto ai film di Munzi e di Marra, che pure, da spettatore, mi sono piaciuti molto, ma che trovo indietro rispetto alla strada che ha preso oggi il cinema. Matteo Garrone rappresenta straordinariamente bene questo cinema che trasfigura la realtà per coglierla più nel profondo. Bisogna partire dalla realtà, ma per allontanarsene rivedendola con i propri occhi. Insomma, a me sembra che il cinema vada sempre più in una direzione in cui lo stile conta di più dello spunto reale dal quale si parte.
Saverio Costanzo: Sento particolarmente questo tema del rapporto tra realtà e rappresentazione poiché sono arrivato al cinema dopo aver girato dei documentari. Il primo riguardava un gruppo di italiani dentro un bar a Brooklyn, mentre l’altro è stato girato in un reparto di terapia intensiva di un ospedale romano. Ora, nonostante il carattere documentaristico, entrambi avavano già qualcosa che eccedeva rispetto alla forma del documentario. Intanto erano delle rappresentazioni di luoghi chiusi, all’interno dei quali, a partire dalle circostanze date, si definivano delle esistenze.
Non è un caso. In questa fase, infatti, il luogo chiuso mi serve per lasciar emergere il tema della prigionia, il tema delle galere che l’uomo si costruisce da solo. Anche nel mio primo film, Private, tutta la storia ruota intorno a un luogo chiuso: la casa di una famiglia di palestinesi occupata dai soldati israeliani, in cui, tutti insieme, si è costretti a convivere con il conflitto.
Il luogo rappresenta dunque solo un pretesto, perché quello che mi interessa è la ricerca della libertà da parte dell’uomo. Indagarla in un luogo è più semplice. Se io avessi girato il mio film in Israele o in Palestina, come avevo cercato di fare inizialmente, mi sarei concentrato su aspetti della realtà mediorientale che, sul momento, mi avrebbero forse affascinato. Il fatto di averlo girato in Calabria mi ha aiutato, invece, a lavorare su un altro livello di realtà, che non era quello visibile, ma appunto quello della rappresentazione.
A me servivano due piani di una casa in modo che i personaggi potessero confrontarsi. Ma non ho cercato di rendere questa casa il più possibile simile a una casa della Palestina. Non c’era in me neanche l’intenzione di raccontare il Medio Oriente. Volevo solo raccontare due popoli in conflitto. Il mio è un film sulla guerra e sulla dignità. È una storia che riguarda, senza folclore, i palestinesi e gli israeliani. L’avrei girato anche a Roma, perché ero arrivato a una tale consapevolezza di quello che volevo dire, che potevo liberarmi di tutti gli orpelli. Naturalmente, anche gli orpelli «fanno un film», ma a me interessava il rapporto dei personaggi. Erano loro che dovevano essere autentici, non tanto il posto o il panorama o le divise.
Garrone: L’essenza del cinema, secondo me, è nella rappresentazione della realtà, che poi significa nella rappresentazione della figura. La capacità di un artista si misura in rapporto alla profondità e all’originalità del suo sguardo, che riesce a vedere cose che altri non vedono. Il cinema è sguardo.
Avendo una formazione pittorica, io parto da un’idea figurativa del film. L’espressione è per me più importante dell’informazione. È l’estetica che produce l’etica. Ciò che veramente conta è la forza comunicativa che ha un’immagine. Quando scrivo una sceneggiatura mi sforzo di raccontare senza ricorrere all’uso delle parole. Il mio riferimento costante è il cinema muto, che considero il cinema puro per essenza. Per quel che riguarda l’originalità della storia lo considero un problema secondario rispetto al modo che si sceglie per raccontarla. L’obiettivo che mi propongo, insomma, è di riuscire a creare delle emozioni attraverso delle immagini. Non è tanto importante che il pubblico capisca, ma che senta.
Sorrentino: In realtà siamo sempre alla famelica ricerca di immagini. Puoi trovare delle immagini in un luogo sociale opulento o degradato, ma questo viene dopo. Si parte dal reale: atipico, inedito; solo successivamente la forma si allontana dal reale, o comunque lo trasfigura.
Le storie vengono dopo. Di solito le storie non mi piacciono. Non mi piacciono le trame. Se potessi, le abolirei. Le storie bene o male sono sempre le stesse, sia che si tratti di Orson Welles, che dell’ultimo dei registi di soap opera. Solo raramente rimango affascinato da una storia.
L’unica cosa che mi affascina è il tentativo di capire gli uomini, le loro sfaccettature, i loro lati più oscuri e misteriosi. Quindi una volta che penso di aver capito qualcosa di un personaggio, giocoforza segue anche una storia. Ma la storia in sé mi interessa sempre poco. C’è un messaggio? C’è una morale? Voglio sostenere una tesi? Se minimamente mi viene il sospetto che io voglia sostenere una tesi, abbandono il progetto a cui lavoro. Sono terrorizzato dall’idea del «voglio dire questo», oppure dal progetto «Ho una tesi e la metterò su carta e poi su pellicola». Di più: trovo che questo sia esattamente il modo errato di procedere nel cinema. Altrimenti si girano dei film a tesi. Ma i fim a tesi li trovo, di solito, detestabili.
In Le conseguenze dell’amore, il contatto tra i
l re della mafia e la ragazza non mi interessava come sviluppo narrativo. Mi interessava, invece, immaginare come un uomo, che persegue un certo tipo di vita per tanto tempo, possa rapidamente perdere tutti i riferimenti e con essi il tipo di vita che si era scelto.
Costanzo: Si può partire da storie inedite, marginali, atipiche, il problema è rappresentarle. È qui che si rivela la capacità del regista e degli sceneggiatori di riuscire a sviluppare questa storia in modo da veicolare dei contenuti universali. Anche la storia atipica può essere il punto di partenza per una visione universale: così non si racconta la storia di una singola coppia, ma i rapporti all’interno di una coppia, che possono essere rapporti di dominio, di sopraffazione, di dipendenza, di desiderio, di amore. Si racconta comunque il desiderio o la dipendenza, non la coppia. Per questo la storia cessa di essere particolare, marginale, e assume un carattere universale.
Sorrentino: Nella misura in cui si riesce a scandagliare l’animo umano non si è marginali.
Voglio aggiungere che non bisogna fidarsi del meccanismo dell’identificazione. Infatti, quando si va a rimescolare nelle viscere più recondite, più cattive dell’uomo, il meccanismo di identificazione degli spettatori fatica a scattare. Al contrario, scatta facilmente, anche se illusoriamente, quando si rappresentano dei personaggi come quelli di Sex and the City. In questo caso c’è la volontà di identificarsi con certe figure. Ma nella realtà noi non siamo come i personaggi di Sex and the City. Così, da una parte, ci si illude di identificarsi con alcuni personaggi, mentre dall’altra non ci si vuole identificare in Ernesto Mahieux nel film di Garrone L’imbalsamatore. E invece si è esattamente un po’ tutti come Ernesto Mahieux in L’imbalsamatore, anche se ovviamente lì si trova un’iperbole che non corrisponde a tutti i tipi umani. Però, l’uomo è più vicino a Mahieux che non a Sarah Jessica Parker che compra scarpe in giro per New York.
Costanzo: Certo, perché la rappresentazione non è quello che vedi, ma quello che la rappresentazione evoca. È un’icona. L’icona è il simbolo che esiste. Non è più un uomo che sta in un albergo e che fa il business­man, non è l’immagine documentaristica di un quartiere degradato di Napoli: l’icona crea un personaggio vivente o un luogo esistente. Se ci si fermasse a rappresentare quello che si vede, non ci sarebbe il cinema.
Garrone: Il cinema oggi deve fare però i conti con la televisione. È inutile far finta che non sia così. È un dato di fatto. Sappiamo che tutti i film oggi vengono prodotti pensando alla loro collocazione in un palinsesto televisivo. Di conseguenza il valore commerciale del film cambia a seconda dell’orario di messa in onda. È evidente che un rischio di omologazione c’è.
Ma non si tratta solo di questo. Ci sono delle rappresentazioni televisive che sono dei veri e propri film: è il caso, ad esempio, dei funerali del papa, o della catena di attentati dell’11 settembre, o anche della vicenda tragica del piccolo Tommy. In quest’ultimo caso abbiamo assistito collettivamente a una specie di noir, con un intreccio e un epilogo. Nel momento in cui questi eventi vengono rappresentati e assumono una forma narrativa diventano una sorta di film, con una capacità di suggestione enorme, perché sono percepiti come rappresentazioni della realtà. Dal­l’altra parte, però, il cinema, forse proprio perché si omologa alla tv, sembra perdere terreno rispetto alla stessa televisione. Ci sono delle immagini televisive che sono cinematografiche e sempre più frequentemente film che hanno delle immagini televisive. Cinema e televisione non si oppongono ma tendono a compenetrarsi sempre di più. Prendiamo La dolce vita di Fellini: è impossibile immaginare oggi un film che riesca a creare scandalo come lo creò Fellini con La dolce vita. La dolce vita ebbe una forza enorme, creò una spaccatura: le immagini che presentava venivano viste dagli italiani per la prima volta. Oggi sarebbe inimmaginabile un film che abbia la forza di scatenare una tale capacità di sorprendere. La suggestione del cinema la ritrovo, con una particolare violenza, in certi reality.
Sorrentino: Hai ragione sull’impossibilità che un film abbia oggi l’impatto della Dolce vita. E penso anche che nella televisione, nei reality, l’impatto delle immagini sia molto violento. Però trovo che tendenzialmente la televisione sia il rifugio di un’immagine volgare e media. Sono anche d’accordo sul fatto che i funerali del papa sono un evento particolarissimo, che rimane però un’eccezione. Generalmente i pianificatori della televisione non riescono a dar vita ad altro che a immagini medie, a volte violente, ma quasi mai potenti. Trovo che la potenza delle immagini possa risiedere ancora, e forse unicamente, nell’isola del cinema.
Costanzo: Certamente il cinema è una forma di ribellione a quello che viviamo. Anche il cinema di Bellocchio all’inizio era, in fondo, come La dolce vita di Fellini, un grido d’angoscia davanti a quello che si viveva, davanti al momento storico. Adesso, però, noi facciamo i conti con questo tipo di immagini volgari, che sono il riflesso di questa società. E, allora, siamo costretti a fare i conti con la nostra realtà. Secondo me, non è vero che la potenzialità immaginaria del cinema sia morta, proprio perché dall’altra parte non c’è niente.
Non credo che i film di Godard, di Bellocchio, di Fellini fossero popolari. Mi risulterebbe difficile credere che Otto e mezzo sia stato un film popolare. Ma Fellini e, ad esempio, Kubrick sono diventati popolari nel senso che hanno portato le loro immagini nel profondo dell’immaginazione collettiva. Per questo dico che ogni epoca deve fare i conti con la sua realtà, come noi dobbiamo fare i conti con la nostra.
Da questo punto di vista la sottrazione che c’è oggi nel buon cinema – Paolo Sorrentino dice: sottrarre trame, e dare il più possibile potenza all’immagine – è conseguenza di quello che vediamo in televisione. È tutto collegato: è la nostra epoca, è la nostra realtà. Quando sai che c’è tantissimo in televisione, per reazione naturale vieni portato a sottrarre, e sottraendo raggiungi molto di più quell’idea di forma rappresentativa che è vicina al cinema. Paolo Sorrentino dice giustamente che la televisione è il rifugio dell’immagine volgare. Un’immagine invece deve essere bella. E «bella» vuol dire che trasmette qualcosa, anche se è qualcosa di tremendo.
Garrone: Secondo me, però, la televisione ha delle immagini e dei personaggi che sono straordinari, nel senso che hanno una loro forza comunicativa. Sinceramente, non li trovo volgari più di quanto non lo siano certi film pseudo-intellettuali. Un certo tipo di volgarità spesso mi affascina. Penso anche che la televisione sia un ottimo strumento per misurare il degrado culturale di un paese.
Sorrentino: Vi racconto una cosa. Qualche giorno fa ho avuto la febbre e ho visto per la prima volta la televisione del pomeriggio: La vita in diretta, Verissimo… Quella roba non l’avevo mai vista prima. C’erano dei personaggi che conosco «dal vero», e notavo come in quelle trasmissioni il tasso di falsità nella rappresentazione fosse portato all’ennesima pot
enza. Nella realtà quei personaggi non sono così come erano rappresentati dalla televisione. Mi è venuto il dubbio, contraddicendo quello che sostengo di solito, che la tv non sia per niente un luogo dove si trova il reale. Forse la realtà c’è a Ballarò, che manda un servizio sulle case popolari. Forse lì c’è la realtà – o forse neanche lì.
Garrone: Neanche lì. Il punto è un altro. L’obiettivo in qualche modo va oltre. Contano gli sguardi, conta la faccia. Certi personaggi, se ci pensi, davanti all’obiettivo si smascherano da soli.
Sorrentino: È vero, si smascherano da soli. Ma questo perché tu sei uno spettatore smaliziato e arguto. Per altri invece la biografia di una persona viene creduta, anche se è falsa. Da questo punto di vista c’è molta più verità in un film.
Garrone: Scusa Paolo, ma non pensi che al cinema avvenga più o meno la stessa cosa? Non ti capita di parlare con degli spettatori di un tuo film, e scoprire che hanno visto un film tutto loro, che non ha nulla dei personaggi che hai scritto e messo in scena? Il pubblico a volte vede un’altra storia e altri personaggi. Non pensi che più o meno accada lo stesso con la televisione? È un fatto legato alla rappresentazione e alla percezione dello spettatore.
Sorrentino: Sì, più o meno è lo stesso. La realtà non esiste. Quando ho visto l’altro giorno Verissimo, di colpo ho pensato: oddio, non mi ero reso conto che questo mondo è fatto solo di belle ragazze! Non c’è spazio per altro. Va benissimo, però fino a un certo punto…
Costanzo: In ultima analisi, questo è un discorso sociologico. Come diceva McLuhan, il mezzo è il messaggio. Qualsiasi cosa viene fatta e detta in televisione, diventa il messaggio che manda la televisione. Noi parliamo da pubblico sofisticato. Ha ragione Paolo quando dice che le persone meno smaliziate si convincono che quella della televisione sia la verità delle cose e non una rappresentazione. La grande responsabilità che ha la televisione rispetto alla gente rimane, da questo punto di vista, un tema che non può essere eluso.
Ma a stringere, direi che le immagini che vediamo in televisione sono spesso brutte: si tratta di qualcosa che è soprattutto brutto da vedere.
Sorrentino: Soprattutto si vedono delle cose che cominciano ad essere ripetitive. Questa capacità di sorpresa che diceva Matteo in realtà si esaurisce in fretta.
Costanzo: Certo. Per quanto tutti noi da ragazzini venissimo tenuti lontani dalla televisione, la nostra è una generazione cresciuta con la televisione. Non era possibile non cascarci dentro. Per questo, però, sento che devo fare i conti con la rappresentazione televisiva, e lo sento soprattutto nella fuga dal quotidiano. Ma proprio questo è il senso del cinema: non coincidere con il quotidiano, non in senso didascalico.
Ognuno, ripeto, deve fare i conti con la sua epoca. E la nostra epoca è anche l’epoca della televisione e le nostre immagini sono quelle che sono anche a causa della televisione. Il cinema invece deve essere rivoluzionario. Deve dire anche delle cose sgradevoli senza assecondare l’epoca in cui nasce. Deve essere in opposizione critica rispetto alla propria epoca. Secondo me, il cinema è anche educativo.
Garrone: Vero. Però credo anche che si debba abbandonare l’idea di avere, come cineasti, un ruolo così importante.
Sorrentino: Sono d’accordo con voi. E in ogni caso, il cinema diventa sempre più di nicchia.
Garrone: Per me si tratta di una presa di coscienza. Il cinema troverà i suoi spettatori, se avrà qualcosa di originale da dire, altrimenti no. E non è un dramma. La direzione è sempre più questa.
Se vuoi prendere la realtà frontalmente hai tutta una serie di censure. Tutto è già costruito in fase di produzione. E non parliamo di quanto condiziona la fase di distribuzione…
Ma in fondo, secondo me, questi limiti sono anche un vantaggio. Perché proprio attraverso un linguaggio che ha una purezza di rappresentazione si può costruire un film politico. Per me è così. Nella purezza dello sguardo, e quindi in questa libertà della visione, risiede la forza del cinema. Questa libertà non si trova, per il cinema, in quello che viene detto, non si trova nella denuncia.
Lo dico senza drammatizzare: noi viviamo in una situazione di ambiguità continua. Che ci piaccia o no, abbiamo comunque a che fare con l’industria. E, tuttavia, cerchiamo di mantenere limpido il nostro sguardo. Vorremmo avere il più possibile spettatori, però sappiamo anche quanto sia difficile misurarsi con un pubblico che comunque è formato dalle immagini televisive. A me capita spesso di incontrare delle persone che mi dicono che i miei film sono strani. E non si riferiscono solo alle tematiche, ma alle inquadrature. Ora, che vuol dire «strano»? Io me lo domando sempre. A te capita, Paolo?
Sorrentino: Sempre.
Costanzo: Però questa è la rivoluzione del cinema.
Garrone: Non so se è una rivoluzione. Vuol dire, forse, che sei riuscito a creare un tuo territorio, un tuo stile, che forse è la cosa più difficile.
Sorrentino: Comunque l’accusa di essere «strani» purtroppo proviene ormai anche dalla critica. Questo è il dramma. La ragione è che non solo siamo formati dalla televisione, ma siamo formati anche da certo cinema americano. Per la verità, sono contento e, in qualche maniera, sono persino lusingato che certa critica mi consideri «strano». Certo, ogni tanto mi pongo il problema però se sono io che non mi faccio capire, e quindi se sbaglio.
Tuttavia, è un fatto che anche gli «addetti ai lavori» sembrano sempre più spaventati dal cambiamento. Parlo anche di festival importanti. Come se ci si aspettasse qualcosa di rassicurante, come se ci si aspettasse di nuovo la milleduecentesima puntata di CentoVetrine, che è uguale a quella precedente. Questo, devo dire, è un po’ deprimente. Però la sfida è far cambiare idea a tutti.
Troppe persone hanno perso di vista quali sono i punti di riferimento. Trovano che cinema sia Lost o Sex and the City. Intendiamoci: sono film che piacciono anche a me; però il cinema dovrebbe stare un passetto, non dico avanti, ma quanto meno a lato rispetto a Sex and the City, e a Lost e a Nip/Tuck. Sta prendendo piede, invece, un’idea del cinema piuttosto conformista.
Garrone: Il mio problema con il conformismo è inverso. A volte ho la sensazione di rischiare di lasciarmi in qualche modo influenzare da quello che ho intorno. E da questo mi devo difendere. Mi devo difendere dall’idea che gli altri si formano del mio stile, come dall’idea che io stesso mi costruisco di quello che gli altri pensano che sia il mio stile. Temo, infatti, che queste aspettative inaridiscano il mio sguardo sulla realtà, e che questo diventi uno sguardo stereotipato. Ecco, questo è quello che mi fa più paura. Mi chiedo spesso, perciò, se quello che ho da dire sia veramente necessario.
Costanzo: È verissimo. Il pericolo è il conformismo rispetto a quello che tutti, a un certo punto, si aspettano da te. Anch’io mi domando se c’è veramente una necessità in quello che mi propongo di dire. Mi sottopongo continuamente, per cos&igra
ve; dire, a una radiografia rispetto alla mia onestà. Mi chiedo spessissimo se sono onesto, se non sono onesto, se fingo, se non fingo.
Sorrentino: La difesa dal conformismo e dal pericolo che rappresenta è essenziale. Anche perché la mia motivazione a svolgere questo lavoro deriva da un notevole tasso di frustrazione e di inadeguatezza alla realtà, per cui cerco di fuggirla inventandomi delle storie, dei personaggi, una messa in scena.

(26 maggio 2008)



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