“Inside Out”, che fine ha fatto il libero arbitrio?
Riccardo Manzotti
Pochi film hanno ricevuto un plauso così universale e così trasversale – piccoli spettatori, genitori, esperti, critici cinematografici e psicologi – quanto il recente "Inside Out" di Pete Docter (Disney/Pixar 2015). Il film è stato elogiato per la delicatezza della trama, il trionfo dei buoni sentimenti, la forza drammatica della vicenda, l’originalità e la coerenza narrativa, ottenendo, sull’esigente sito americano Rotten Tomatoes, un punteggio critico di 98/100.
Secondo Paolo Mereghetti, il critico del Corriere della Sera, il cartone animato è “straordinario […] perché ha una capacità incredibile di trasformare in gag animati in personaggi antropomorfi dei concetti astratti” e “ti apre la testa, ti entra dentro, ti lascia ogni secondo stupito e ammirato ad applaudire di fronte a qualcosa che non avresti mai pensato di vedere al cinema” (18/5). Per Chiara Ugolini, Repubblica, si tratta di “un film sulle emozioni che permette allo spettatore di provarle tutte” (18/5). Per Brian Viner, Daily Mail, “Il termine geniale è utilizzato con troppa facilità, ma questo film lo merita in pieno” (31/8). Emily Yoshida, The Verge, augura a tutti di fare tesoro di un prodotto che impartisce una sofisticata lezione di vita (31/8). Richard Roeper, Chicago Sun-Times, non ha dubbi – il film è “coraggioso, bellissimo, dolce, divertente, profondo, irresistibilmente commovente” (14/8). Infine, Gianni Canova, Università IULM, si trova di fronte a “un piccolo, intenso romanzo di formazione che è tra i più belli del cinema degli ultimi dieci anni” (21/9).
È quindi con molta umiltà, ma altrettanta decisione che mi sento in dovere di sollevare sottolineare molte perplessità di questo percorso trionfale in qualità di padre, spettatore e psicologo. Capisco di affrontare un ruolo ingrato e destinato al fallimento anche perché, diciamolo, niente ha successo come il successo.
Per chi non lo avesse visto tento di riassumere in breve la trama che tanto ha commosso critici e pubblico. Una famiglia media americana – padre, madre e figlia – si trasferisce dal Minnesota a San Francisco. Riley, la figlia undicenne, ha nostalgia della sua precedente vita e, dopo qualche giorno, decide di scappare per tornare in Minnesota. Sull’autobus ha un ripensamento e torna a casa dove i preoccupati genitori la perdonano e la abbracciano. Fine della storia. Ah, dimenticavo, i veri protagonisti non sono i tre personaggi, stereotipati e prevedibilissimi, ma le loro emozioni rappresentate come altrettante creature – possiamo chiamarli omuncoli – che albergano all’interno della testa di ogni personaggio. Le emozioni sono arbitrariamente cinque: Rabbia, Paura, Disgusto, Gioia e Tristezza. Il momento geniale e formativo – che tanto ha commosso e stupito critici e pubblico – consiste nel capire che non si può essere sempre allegri, ma si deve lasciare spazio anche a emozioni più riflessive quali la tristezza. Ora, a parte il fatto che una tale rivelazione non dovrebbe suscitare meraviglia in alcuna persona dotata di una comprensione media dei propri stati emotivi, si tratta di un messaggio basilare contenuto in innumerevoli favole e romanzi. Il vero stupore nasce dalla quantità di stereotipi negativi e di concetti obsoleti che nessuno ha notato. Inizierò dai primi.
Il film presenta una famiglia super conformista e stereotipata che neanche De Amicis o certe serie americane anni sessanta si sarebbero sognati di presentare. I ruoli sono rigidamente suddivisi per genere – il padre lavora e la madre pulisce e spignatta. La famiglia, ovviamente, segue il padre – gli uomini seguono il lavoro e le donne vanno dove le porta il cuore. Il padre, essendo un maschio, è emotivamente incompetente e il concetto è ripetutamente sottolineato. Per esempio, il padre ha un’espressione definita “ebete”. I suoi omuncoli sono disegnati come versioni più sempliciotte di quelli della madre. Per togliere ogni dubbio sul fatto che la discriminazione è di genere e non funzionale alle dinamiche dei personaggi, nell’ultima scena alla fine del film, il futuro fidanzato di Riley compare per pochi ma sufficienti attimi per dare conferma della sua immaturità emotiva. Le attribuzioni sessiste continuano anche nel mondo delle emozioni. Rabbia e Paura sono emozioni maschili. Tristezza, Gioia e Disgusto sono, ovviamente, emozioni femminili. Agli uomini le azioni e alle donne i sentimenti. Gli uomini in ufficio e le donne ai fornelli. Che originalità! Che visione moderna dell’essere umano!
Non è tutto. All’interno delle emozioni la Gioia è rappresentata come una figura femminile spensierata e giocosa, mentre la Tristezza è una ragazza sovrappeso, bassa, bruttina, con gli occhiali, pensierosa che, comportamento al limite della follia, “legge” – ovvero, in gergo giovanile, una povera secchiona sfigata. Riconosciamolo, nel costume popolare è diffusa una certa estetica del secchione (nerd per gli anglosassoni) proposto come chi, novello Giacomo Leopardi, trascura fisico e adolescenza, per sacrificarsi sull’altare di studi disperatissimi. Tuttavia, il successo di numerosi nerd che, come Steve Jobs, Bill Gates e Mark Zuckenberg, hanno perso l’aria triste e infelice dopo il primo milione di dollari, dovrebbe aver avuto qualche effetto sul comune sentire. Insomma, l’equazione intelligenza=tristezza – che pure ha una sua base nei detti dell’Ecclesiaste, nelle riflessioni di Schopenhauer e, perfino, in qualche recente studio psicologico – non è scritta nella pietra e, magari, si potrebbe evitare di trasformarla in una profezia auto-avverantesi. Nel film di Docter, però, il messaggio è chiaro. Volete essere felici? Siate sciocchi, non leggete, non riflettete e agite di impulso. Altrimenti, sarete tristi e soli. Come vedremo, questo potrebbe fare molto comodo a chi cerca di controllare la società.
Ma consideriamo il film da un punto di vista psicologico. In fondo, la mente è il vero protagonista della trama e l’obiettivo del cartone è mostrarci cosa succede dentro Riley. Che cosa è, dunque, la mente? Una combinazione di impulsi che agiscono secondo schemi innati. La Rabbia ovviamente è sempre rabbiosa, la Gioia gioiosa, la Tristezza triste, e così via. Tra di loro vi è, a volte, antagonismo e, a volte, cooperazione. E il libero arbitrio? Che cosa resta della persona umana nel suo complesso? Ovviamente è cancellata dalla presenza delle cinque emozioni che, come direbbe il filosofo americano Jaegwon Kim, prosciugano i poteri causali della mente. In altre parole, Riley non ha alcuna volontà se non quella espressa dalla lotta tra i suoi moduli emotivi. Se vince la Rabbia, Riley grida e sbatte la porta. Se vince il Disgusto, Riley fa le smorfie. Se vince la Gioia, Riley fa gli occhioni belli e tutto il pubblico la riflette come uno specchio. Se vince la Paura, Riley grida e si nasconde. Infine, se vince la Tristezza, Riley fa gli occhi lucidi e cerca un abbraccio. Ogni volta che l’ovvio accade, il pubblico si commuove con tanta docile regolarità che nemmeno il cane di Pavlov sarebbe stato capace di esibire. Insomma, Riley è un guscio vuoto, una scatola priva di autonomia, un automa mosso non da un singolo omuncolo solitario, ma da un gruppo di cinque agitati e colorati omuncoli, altrettanto meccanici e schematici però.
Il film ripropone la teoria dell’omuncolo che psicologia, filosofica e neuroscienze avevano cercato di eliminare con encomiabili sf
orzi. Evidentemente non ci sono riusciti. L’omuncolo – o gli omuncoli – è ancora vivo e vegeto, per lo meno nell’immaginazione dell’uomo della strada (ma evidentemente anche dei critici e dei cosiddetti esperti). Ovviamente l’omuncolo è stata opportunamente aggiornato dalla Disney – non più un triste figuro cartesianamente nascosto nell’encefalo ed intento ad azionare il corpo attraverso subdoli influssi alla ghiandola pineale, ma cinque simpatici omuncoli colorati che muovono ogni persona attraverso una simpatica console piena di pulsanti colorati – a metà tra la plancia di comando dell’astronave Enterprise (Star Trek) e un controller per videogiochi superattrezzato. Tutto l’armamentario cartesiano è stato recuperato e riprodotto. Siamo sempre nell’ombra lunga, anzi lunghissima, del filosofo francese – un modello della mente vecchio di 4 secoli.
Secondo questo modello, noi vediamo il mondo attraverso immagini che sono trasmesse all’interno della testa e che sono valutate da omuncoli che si muovono dentro di noi. Gli omuncoli non vedono il mondo, ma immagini televisive su schermi che riproducono il mondo reale in cui il corpo di Riley si trova a vivere. Riley, a questo punto, non è altro che un guscio vuoto e, infatti, molti piccoli spettatori, all’uscita, non si ricordavano il nome della protagonista, ma quello dei simpatici omuncoli. In fondo, perché commuoversi per le vicende di Riley che altro non è che un corpo mosso da omuncoli emotivi, tanto colorati quanto meccanici e automatici nelle loro dinamiche?
La volontà di Riley, completamente soppressa dalla volontà dei suoi cinque omuncoli, non può che ricordare la classica immagine di Paperino che, nei cartoni animati anni cinquanta ispirati alla penna di Carl Barks, era sempre preso di mira da un Paperino diabolico e da un Paperino angelico che cercavano di condizionarne le decisioni. Paperino, però, non era né la versione diabolica né quella angelica. Al pari dell’uomo delle Dignità di Pico della Mirandola, non era né l’uno né l’altro, ma esercitava il proprio libero arbitrio restando nel mezzo e cercando di tenere il timone. Riley, al contrario, non esiste se non come somma meccanica delle sue emozioni. Riley è solo un vuoto burattino vuoto. Nell’antichità si credeva di essere vittime di entità diaboliche, oggi si è mossi da moduli emotivi. Tuttavia, la abdicazione della volontà personale è altrettanto irreversibile. Riley non scappa di casa perché ha deciso di scappare, ma perché l’omuncolo della Rabbia ha azionato quel particolare comportamento e non è stato frenato dall’omuncolo della Tristezza.
Le emozioni così decidono per noi. Noi siamo asserviti alle emozioni. Forse è proprio per questo che questo modello omuncolare è tanto popolare. Le persone cercano una della mente che li liberi della responsabilità – e quindi della colpa – delle proprie azioni. Per lo stesso motivo, è assicurata la popolarità di ogni modello che suggerisce come le azioni siano causate da agenti diversi dalle persone, siano essi diavoli, angeli, motivazioni inconsce, pulsioni represse, tendenze innate, codice genetico, influenze ambientali e, non ultimi, omuncoli emotivi.
Quanto al sogno, cartina tornasole di ogni modello della mente, il film lo descrive come uno spazio teatrale nel quale recitano entità mentali – come l’unicorno magico, vero e propria icona dell’immaginario infantile oltreoceano – che realizzano brevi gag che sono poi trasmesse al quartiere cerebrale su onnipresenti schermi. È, ancora un volta, il modello cartesiano della percezione e del sogno come teatro, ovvero copia imperfetta del mondo. Si tratta di una versione contemporanea, e nemmeno tanto felice esteticamente, del quadro di Velasquez della tela di Aracne. Anche là, su un palcoscenico pieno di figuranti, la realtà è riprodotta in modo imperfetto.
E così via per ogni altra caratteristica della mente. Il cartone animato non si è trattenuta dal recuperare tutte le versioni più becere nei campi della psicoanalisi e delle scienze cognitive. In questo modo, il regista non rappresenta la mente, ma l’idea popolare che, della mente, un certa divulgazione scientifica ha costruito. I ricordi sono simili alle palline di vetro che ancora si trovano nei negozi di souvenir, ognuna con il suo momento congelato (o riprodotto) al suo interno. Palline quasi indistruttibili che vengono poi accatastate in grandi depositi dove altri omuncoli, tutti rigorosamente antropomorfizzati, provvedono alla loro archiviazione. Il pensiero astratto è un treno – ma non si poteva trovare una metafora meno ottocentesca? L’inconscio è una prigione buia dove paurosi, ma politicamente corretti, mostri riposano nel sonno della ragione del regista e degli spettatori.
La cosa che stupisce è che, per impegnare una produzione milionaria come questa, la Disney/Pixar ha ovviamente consultato i migliori esperti a disposizione. Questo passo necessario dovrebbe preoccupare in quanto il film fornisce una rappresentazione della mente che non ha alcuna parentela con i modelli più avanzati della mente, né in ambito cognitivo, né in ambito neurale, né in ambito filosofico. Il quadro della mente suggerito può essere così riassunto.
Ognuno di noi è mosso da un insieme di omuncoli che decidono quello che facciamo. Questi omuncoli sono di due tipi: omuncoli emotivi che stanno nel quartiere generale e controllano il comportamento e omuncoli cognitivi che sono più piccolini e, in generale, meno spiritosi e che fanno cose noiose come far funzionare la baracca, installare quadri di controllo, archiviare e recuperare ricordi. È una visione rigidamente dualista – da un lato, il mondo reale fatto di corpi, persone, animali e oggetti e, dall’altro, il mondo della mente fatto da omuncoli colorati e da riproduzioni su schermi giganti e palcoscenici teatrali del mondo reale. I due mondi comunicano attraverso non precisati canali di comunicazione. Il libero arbitrio è chiaramente una invenzione perché le persone che conosciamo noi – Riley, sua mamma e suo papà – nel mondo mentale sono solo gusci vuoti che servono a permettere agli omuncoli di esercitare effetti nel mondo reale.
È un quadretto che piace perché, dagli anni settanta a oggi, non c’è nessuno che non porti a casa un applauso – scienziato, filosofo, attore, politico, o sceneggiatore – quando rivela che le emozioni sono più importanti della ragione! Come diceva il Don Ferrante di manzoniana memoria: «non si può spiegare quanto sia grande l’autorità di un dotto di professione allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui siano già persuasi».
Ora, se questo è lo stato dell’arte e ciò che vogliamo trasmettere alle nuove generazioni, io rabbrividisco. Qualcosa non deve essere andato per il verso giusto. Il modello culturale della mente deve essere regredito e deve avere divorato, ritornando sui suoi passi, il canale di comunicazione tra filosofia e società, tra psicologia e fisica, tra neuroscienze e cultura. Si racconta un aneddoto a proposito di un inspiegabile non sequitur all’interno di un celebre film cult, a sua volta basato su un modello della mente cartesiano a dispetto dell’ambientazione fantascientifica – Matrix dei Fratelli Wachowski (Warner Bros. Pictures, 1999). Un punto chiave della trama – che qui non riassumerò – consisteva nell’asservimento dell’intera razza umana da parte di macchin
e dotate di intelligenza artificiale. Ma per quale motivo le macchine avevano asservito gli esseri umani? La spiegazione fornita nel corso del film è che avevano bisogno dei cervelli degli esseri umani per usarli come batterie per produrre elettricità. Ovviamente, è una spiegazione assurda anche in un film di fantascienza dove si è pronti a fare sconti alla verosimiglianza ma non alla coerenza logica e nomologica. Possiamo accettare che esistano macchine intelligenti, ma non che esistano triangoli con quattro lati! L’aneddoto consiste nel fatto che – così pare – la versione originale prevedeva che i cervelli degli esseri umani servissero per realizzare una rete neurale distribuita. Questa spiegazione sembrò troppo difficile a un funzionario della produzione che impose di cercare una spiegazione alternativa che il pubblico potesse capire, ovvero – usate i cervelli come batterie! Forse, quel funzionario era un po’ troppo pessimista.
Chissà, magari, nel caso di Inside Out, è successo qualcosa di simile. Le teorie della mente – qualsiasi teoria, non voglio difendere nessuna posizione particolare in questa sede – sono state considerate troppo difficili e quindi, sfrondando sfrondando, è rimasto solo il buon vecchio Cartesio. Quasi nulla di ciò che è stato prodotto negli ultimi duecento anni di studi sulla mente è sopravvissuto nel film di Docter – intenzionalità, fenomenologia, la mente incarnata, la mente situata, il modello delle emozioni di James o di Cannon, le emozioni come stati del corpo, i modelli delle neuroscienze, la nascità della volontà, il problema del libero arbitrio, etc. etc. Niente di tutto ciò è sopravvissuto – la mente è una serie di omuncoli che vedono il mondo su schermi giganti e decidono per noi. È come se – volendo fare un film sulla fisica – si rappresentasse un mondo nel quale la distinzione tra corpi celesti e corpi terrestri sia ancora valida e l’impeto sostituisca il principio di inerzia. Ma anche questa analogia non esprime il baratro ontologico proposto dal film che, da un lato, abbraccia il dualismo e, dall’altro, lo materializza dando corpo e materia alla mente. Il film propone una sorta di materialismo dualista – mente e corpo sono distinti ma, per una sorta di strano scientismo, sono entrambi fatti di materia.
Quindi – tralasciando generosamente le questioni relative agli stereotipi culturali e di genere menzionati all’inizio nonché la trama scontata, povera e banale – non resta che porsi una domanda: perché un film così brutto, che propone un modello di mente così obsoleto, che degrada la persona a burattino, ha avuto così tanto successo e, soprattutto, ha ricevuto tanti plausi? Scrisse il filosofo e matematico Alfred N. Whitehead, «ogni epoca ha ipotesi nascoste che tutti accettano e nessuno critica apertamente: sono proprio tali ipotesi che definiscono i limiti della comprensione» (Whitehead 1920).
Una prima risposta riguarda il fallimento della comunicazione tra le due culture di cui parlava C. P. Snow – da un lato, la cultura umanistica (la mente) e, dall’altro, la cultura scientifica (il mondo). È un fallimento che si è tradotto nella separazione delle discipline che riguardano la mente. Da un parte, la filosofia (le filosofie?) della mente e dall’altra parte le neuroscienze con la psicologia nel ruolo del terzo incomodo che cerca inutilmente un compromesso. La mente diventa così facile preda dei modelli che corteggiano le aspettative del pubblico.
E poi vi è una seconda risposta che, temo, nasce da quel processo di progressiva semplificazione e downgrading alla quale il pubblico è stato soggetto nelle ultime decine di anni. Proprio perché la mente non ha un suo luogo naturale è facile caricaturarla e, quindi, semplificarla a vantaggio di questa o di quella agenzia economica, politica e commerciale. È facile capire perché tanta simpatia è attribuita alle emozioni – sono facili bottoni su cui la propaganda può agire con successo. Denigriamo pure libero arbitrio e riflessione pensierosa – non portano facili consensi, non si riescono a manipolare e potrebbero, persino, portare a comportamenti autonomi e originali. A chi sarebbe più facile vendere un’aspirapolvere o un pacchetto vacanze? Alla Tristezza, pensierosa e riflessiva, o alla Gioia, impulsiva e credulona?
Certo, la mente umana, proprio perché così plastica, proprio perché potenzialmente angelica e diabolica, è capace di riprogrammarsi verso l’alto come verso il basso. Ed è per questo che Inside Out – con il suo ingannevole aspetto di film buonista per famiglie, con la sua accattivante rappresentazione del rapporto virtuoso tra Gioia e Tristezza, con la sua presunta attenzione alle basi psicologiche della mente – non è altro che una sorta di grasso idrogenato culturale, uno zucchero raffinato dolce al palato del pubblico, ma indigesto alla formazione di una idea di se stessi come persone dotate di libero arbitrio, intelletto critico e capacità di pensiero autonomo.
Ancora una volta, tristemente, un’altra generazione è persa.
(6 ottobre 2015)
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