Dall’origine della pandemia a cosa ci aspetta: intervista al professor Crisanti

Giorgio Sestili

Come è iniziato tutto? Com’è stata gestita l’emergenza? Il vaccino arriverà a breve? Come muoversi sul fronte apertura delle scuole? Il professor Andrea Crisanti, Direttore del dipartimento di Medicina Molecolare e professore di Epidemiologia e Virologia presso l’Azienda Ospedaliera dell’Università di Padova, intervistato dai ricercatori della pagina di divulgazione “Coronavirus – Dati e analisi scientifiche”, fa il punto sullo stato attuale della pandemia, ripercorrendo quanto è successo nei mesi passati, quando l’emergenza era al suo culmine, e ipotizzando alcuni scenari futuri.

e Martina Patone

Link al video dell’intervista completa: https://bit.ly/intervista-crisanti

L’ORIGINE DELLA PANDEMIA

(G.S.) In numerose interviste, prof. Crisanti, lei ha giustamente posto importanti e seri dubbi sull’origine del virus e sui dati comunicati dalla Cina e conseguentemente su come l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) li ha assunti in maniera un po’ troppo acritica. Cosa sappiamo oggi dell’origine del virus? E quali sono le zone d’ombra che andrebbero esplorate?

Che questo sia un virus di origine animale non ci sono dubbi. Probabilmente è un virus che si origina dai pipistrelli, forse attraverso un ospite intermedio come un pangolino, e che è passato all’uomo attraverso una serie di mutazioni che gli hanno permesso di trasmettersi […]. All’inizio c’erano moltissime zone d’ombra. È probabile che questa epidemia sia iniziata in Cina verso inizio ottobre e soltanto a metà gennaio l’OMS ha confermato che si trasmetteva da uomo a uomo, laddove invece Taiwan aveva già fatto la stessa segnalazione più di un mese prima. Questa è il primo aspetto problematico. Il secondo è che è stato sottovalutato sin dall’inizio il contributo degli asintomatici alla trasmissione dell’infezione e questo, a mio avviso, è forse il problema più serio. Se si fossero date informazioni sul contributo degli asintomatici all’infezione, forse avremmo avuto modo di impedire che l’infezione arrivasse in altri Paesi. Faccio un esempio: noi abbiamo utilizzato in tutti gli aeroporti lo scanner per la temperatura; abbiamo bloccato i voli dalla Cina – e ora vogliamo fare la stessa cosa con i voli dagli Stati Uniti – ecco, queste sono misure che si sono rivelate completamente inadeguate, perché ci sono persone che si sono fatte 15-18 ore di viaggio, sono venute in Italia e hanno permesso la diffusione dell’infezione. Io non credo che una persona malata si faccia 15 ore di viaggio, partecipi a un meeting, vada a cena fuori e poi se ne ritorni in Cina. Queste persone sono portatori sani o portatori con una scarsissima sintomatologia. Se lo avessimo saputo, probabilmente avremmo implementato delle misure per intercettarli: non soltanto la misurazione della temperatura corporea, ma il tracciamento obbligatorio o, una volta arrivati in Italia, l’obbligatorietà della reperibilità e anche del test del tampone. Sicuramente, così facendo, avremmo capito l’impatto che queste persone avrebbero avuto sulla diffusione della malattia.

(G.S.) Attraverso le indagini epidemiologiche in corso abbiamo chiaro a quando risale il primo contagio umano e quando può essere iniziata veramente la trasmissione? Perché noi sappiamo che il primo caso a Wuhan è stato identificato a dicembre, ma ci sono ipotesi che sostengono che il virus possa essere iniziato molto prima.

Come ho detto, diversi modelli matematici hanno dimostrato come il virus abbia iniziato a circolare in Cina agli inizi di ottobre, se non addirittura prima. Se noi guardiamo la curva [dei contagi] che i cinesi hanno condiviso con noi, si vede chiaramente che manca la parte esponenziale. In tutti i Paesi questa curva inizia con questa forma di ˈiˈ greco, che praticamente è la parte esponenziale e poi parte a campana. I cinesi ci hanno fatto vedere solo la parte finale della curva. Noi adesso sappiamo esattamente come si manifesta questo virus e la dinamica di trasmissione. È chiaro che lì mancano perlomeno 3-4 mesi di dati; i cinesi sono stati assolutamente non trasparenti e io penso che anche l’OMS abbia delle responsabilità. Sono andati in Cina a gennaio, passandoci una settimana e non possono sottrarsi a questa responsabilità [di non aver comunicato al resto del mondo quello che stava succedendo là].

LO STUDIO DI VÒ EUGANEO


(M.P.) Vò Euganeo è stato uno dei paesi più colpiti ad inizio epidemia e il gruppo del prof. Crisanti ha condotto uno studio epidemiologico, unico nel suo genere, che ha permesso di avere una fotografia della diffusione del virus nel paese. Durante l’indagine, tutta la popolazione di Vò è stata testata con tampone, prima e dopo la dichiarazione della zona rossa e in diverse altre circostanze, con l’aggiunta del test sierologico. Per condurre tale studio, è stato di fondamentale necessità avere a disposizione degli strumenti e materiali adeguati. Prof. Crisanti, lei come giudica la carenza di risorse che si è vista durante questa emergenza? C’è stato dialogo tra i diversi laboratori italiani su quali fossero le migliori pratiche da adottare, e anche con il governo centrale, su quali fossero le risorse necessarie durante la pandemia?

Io la ritengo normale questa carenza di reagenti. Lei deve pensare che, come è stato sotto gli occhi di tutti, l’epidemia è un evento catastrofico che ha una dinamica velocissima e i tempi di reazione purtroppo sono molto più lenti dei tempi di diffusione. Quindi all’inizio si crea una vera e propria rincorsa verso l’epidemia, specialmente se non si è preparati. Io penso che quello che è accaduto sia normale. Casomai, il problema è cosa è successo dallo stato di emergenza fino all’inizio di marzo, perché è in questa fase che si sarebbe dovuta creare la capacità per rispondere. Questo non è stato fatto e ci si è invece affidati al livello di preparazione delle singole regioni o addirittura, all’interno delle regioni, dei singoli laboratori. Nel nostro caso eravamo in una situazione privilegiata, perché il nostro è uno dei laboratori di riferimento per le malattie emergenti. Le malattie emergenti, per definizione, sono malattie di cui si sa poco o nulla, di cui non si ha un vaccino, di cui non si ha una terapia. E quindi, nel momento in cui è uscita la prima sequenza del virus, noi ci siamo attrezzati per sviluppare un test diagnostico fatto in casa e poi abbiamo continuato su quella strada. Così non abbiamo dovuto far affidamento sulla capacità di produzione delle industrie diagnostiche, che sono entrate nel mercato 3-4 settimane dopo, in Italia. Il [nostro] sistema richiede una certa manualità e necessita di una strumentazione dedicata, ma ha una grandissima flessibilità, perché non dipende dal fornitore del reagente. E poi c’è un’altra complicazione. Diversi laboratori hanno usato fornitori diversi per macchinari diversi che non sono intercambiabili, e quindi di fatto, se finiva un reagente, non potevano utilizzare quello di un’altra ditta, erano ormai legati alla fornitura scelta. E questo ha creato gravi scompensi, anche perché nel frattempo l’epidemia si era spostata in altri paesi, e quindi c’è stata effettivamente una scarsità di reagenti. Comunque noi, già dagli inizi di febbraio, avevamo vagliato un test e creato la capacità diagnostica per fare decine e decine di migliaia di test. Quindi, quando praticamente la Regione ha dichiarato la zona rossa per Vò ed ordinato il primo tamponamento, noi eravamo pronti. Poi, via via, abbiamo aggiornato tutta la strumentazione. Lei deve pensare che io sono arrivato in questa struttura 4-5 mesi fa e c’era una strumentazione che non era assolutamente adeguata. In pochissimo tempo abbiamo rinnovato tutto il corpo macchine, ancora in tempi non sospetti, quindi quando era ancora possibile comprarle.

VENETO VS LOMBARDIA


(M.P.) Sebbene il suo nome sia strettamente legato al Veneto – è stato anche insignito della cittadinanza onoraria dal Comune di Padova – ultimamente lei si sta avvicinando anche alla Lombardia. Sappiamo infatti che doveva far parte del team scientifico di un’indagine epidemiologica proposta dal sindaco di Nembro, comune lombardo fortemente colpito dal virus, simile all’indagine che avete fatto voi a Vò. A Nembro però, la proposta non è stata subito accettata dal Comitato etico del Papa Giovanni di Bergamo. I tempi si sono dilungati e l’indagine non è avvenuta. Anche in Veneto non è andato tutto liscio. Ricordiamo che lei stesso ha dichiarato che il governatore del Veneto Zaia era stato inizialmente contrario a testare chi non avesse sviluppato sintomi (questo era fine gennaio, Zaia seguiva le linee guide dettate dall’OMS). Come ha visto lei il dialogo tra le istituzioni e l’università (e la ricerca più in generale) durante questa emergenza? C’è stato più supporto o più ostacolo?

Il dialogo tra politica e scienza è un dialogo molto difficile. Il politico, in qualche modo, deve intercettare le esigenze delle persone e, in alcuni casi, fargli prospettare nuove mete e nuovi orizzonti. In qualche modo è come se vendesse dei sogni, delle idee. Viceversa, la scienza guarda al presente, non guarda al futuro. La scienza analizza il presente. Quindi sono chiaramente due modi di pensare, di affrontare il problema in modo completamente diverso. Lei deve pensare, che quando i dati di Vò erano disponibili, e quindi il 27 e il 28 febbraio, io personalmente ho evidenziato come la presenza del 3% di infetti fosse un’enormità. Nello stesso giorno, il governatore parlava di ˈpandemia mediaticaˈ. Questo dovrebbe darle un’idea di come eravamo distanti come impostazione. È chiaro che quando poi [il governatore] si è trovato alle prese con centinaia di morti, la dura realtà lo ha riportato giù dai sogni e ha cominciato a dialogare con chi di diritto. La politica ha fatto una grandissima resistenza, e guardi, dappertutto. Anche perché si è fatta interprete dell’esigenza di non bloccare le zone rosse, di permettere la mobilità delle persone, di tenere aperte le fabbriche: tutte cose che dal punto di vista economico avevano un senso, ma per le quali bisognava pagare un prezzo sociale intollerabile.

(M.P.) Notizia più recente è che invece le sia stato dato il ruolo di consulente nell’inchiesta che la procura ha aperto sulla mancata zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro. Riguardo l’inchiesta in atto, ci può spiegare meglio cosa le viene chiesto? Di quantificare il danno che la mancata chiusura ha portato?

La questura ha posto 4 quesiti che hanno come argomento la mancata chiusura della zona rossa di Nembro e i fatti dell’ospedale di Alzano Lombardo, che è stato chiuso e poi riaperto: aspetti che adesso non mi sento di commentare in questa sede.

(M.P.) E invece, da cittadino e da parte attiva durante l’emergenza, quali differenze ha individuato nella gestione da parte della Lombardia e del Veneto?

Sono differenze legate allo stato di preparazione del sistema sanitario delle due Regioni. La Lombardia ha un sistema sanitario in cui la componente privata ha un grosso ruolo. Il sistema sanitario negli ultimi anni ha eliminato tutti i centri di sanità pubblica – in Lombardia ce ne sono 3, in Veneto ce ne sono 15 – e ha eliminato tutti i centri di riferimento dei medici di base, i cosiddetti centri d’igiene, e così il medico di base non aveva nessuno a cui rivolgersi e chiedere informazioni e quindi il medico di base dietro andava a vuoto fondamentalmente. Questa è la vera differenza. In Veneto il medico di base dietro aveva i servizi epidemiologici territoriali, aveva tutta la struttura di continuità territoriale, fino ai grandi ospedali. Questa è la prima differenza. La seconda differenza è che il Veneto aveva una cultura epidemiologica molto più solida di quella della Lombardia, perché in Veneto, da circa 5-6 anni, ogni anno abbiamo questo problema del West Nile virus, che è una vera e propria malattia infettiva trasmessa dalle zanzare, e nel caso specifico, due anni fa, abbiamo avuto un migliaio di casi. Quindi eravamo, in qualche modo, anche preparati a fronteggiare, sia dal punto di visto psicologico che operativo, l’epidemia: avevamo le strutture in piedi. Se lei ci fa caso, quei paesi che hanno risposto meglio sono quelli che avevano più o meno lo stesso problema: la Cina, la Corea, il Giappone, la stessa Australia e la Nuova Zelanda. Sono tutti Paesi che hanno una fortissima struttura epidemiologica di base sul territorio, proprio perché hanno problemi di malattie epidemiche e quindi sono preparati, hanno le competenze. Lei consideri, in Italia non abbiamo avuto un’epidemia da tempo. Un’epidemia di malaria l’abbiamo avuta nel ‘46, e le persone che ci hanno portato fuori dal tifo, dal colera e dalla malaria sono tutte morte. [L’epidemiologia] è stato un campo della medicina che è stato sicuramente sottovalutato e non incoraggiato a crescere in Italia.

(M.P.) Secondo lei, in futuro, come dovremmo riformare la sanità italiana sulla base di questa esperienza?

Io penso che la sanità regionale abbia dei grossi meriti, perché ci sono delle importanti differenze tra Regione e Regione, sia di carattere sociale che demografico, sia di stratificazione di età che di fatto hanno un impatto sulle esigenze sociali delle persone e dunque bisogna dare delle risposte che per forza devono essere regionali. Su questo non ho dubbi, penso che una sanità regionale abbia maggiore flessibilità di una sanità centralizzata. Forse andrebbe ripensato il ruolo del sistema pubblico, dei servizi territoriali d’igiene e sanità pubblica. Ecco, questo, forse bisognerebbe centralizzare la sanità pubblica, perché la sanità pubblica è un bene dello Stato e va differenziata dalle prestazioni, che sono una cosa diversa. Io differenzierei tra prestazioni e sanità pubblica. Mentre le prestazioni devono avere la flessibilità necessaria ad affrontare esigenze che sono diverse da Regione a Regione, la sanità pubblica deve essere un problema nazionale.

ASINTOMATICI, TEST SIEROLOGICI E BAMBINI


(M.P.) In un’intervista a Radio3 Scienza, lei ha dichiarato che gli asintomatici non sviluppano gli anticorpi e che quindi possono infettarsi di nuovo. Ci conferma questa affermazione?

Noi abbiamo fatto un terzo studio a Vo’ prelevando il sangue a tutta la popolazione con l’obiettivo di studiare la risposta agli anticorpi. Ora, quello che abbiamo visto è che, delle 189 persone che erano positive al tampone il 22 febbraio, che quindi erano infette, solo il 75% ha fatto anticorpi e in genere fanno anticorpi solo le persone che sono state molto molto male. Se lei mi chiedesse quante persone infette a Vo’ hanno sviluppato anticorpi sufficienti per essere selezionati alle donazioni del plasma, forse il 10%. Ovviamente ci possono essere differenze sulla base del test che si utilizza, perché tutti i test non sono uguali. Noi abbiamo utilizzato un test abbastanza affidabile, che tra le altre cose viene usato per selezionare i donatori di plasma, lo abbiamo utilizzato su 3000 persone. Ma la cosa interessante è che, quando abbiamo fatto la sieroprevalenza, abbiamo trovato a Vo’ 63 persone che sono state sempre negative al tampone e hanno gli anticorpi: dunque si sono infettate sicuramente prima di fine febbraio. Si sono infettate e sono guarite. Nessuna di queste persone è andata dal medico, nessuna è andata in ospedale: venitemi a dire che queste persone erano gravemente sintomatiche o sintomatiche. Quello che io penso è che, per arrivare a produrre casi gravi, probabilmente il virus ha bisogno di raggiungere una certa soglia di persone infette all’interno della popolazione per aumentare la carica virale. La mia idea è che in questo momento noi stiamo vivendo la coda dell’infezione, ma praticamente quella coda dell’infezione è molto simile all’inizio dell’infezione. All’inizio dell’infezione c’erano tantissimi asintomatici, altrimenti non sarebbe potuta esplodere con questa violenza. E abbiamo anche i dati. Adesso sappiamo che a Vo’, c’erano 160 persone infette prima che il primo paziente entrasse in ospedale, la maggior parte delle quali stava bene.

(M.P.) Oggi è in corso l’indagine sierologica promossa da ISS e ISTAT. Due cose emergono: innanzitutto una bassa fiducia da parte della popolazione nelle istituzioni (per esempio il fatto, comprovato, della lunga attesa per un tampone), che porta alla mancanza di senso civico, e inoltre una carenza di informazione, soprattutto sul valore diagnostico delle diverse tipologie di test. Attraverso la sua esperienza a Vo’, sebbene avvenuta in un periodo epidemiologico diverso, come pensa abbia reagito la popolazione? E come si sono presentate le diverse istituzioni e anche la comunità scientifica nel chiedere l’aiuto all’intera popolazione?

Noi abbiamo avuto un’esperienza completamente opposta. Faccio presente che il terzo campionamento, quello che poi prevedeva anche il prelievo del sangue, è stato fatto a metà maggio, no prima del 4 maggio, quando praticamente l’epidemia stava scemando ed era prevista la riduzione di tutte le restrizioni di distanziamento sociale. Nello stesso tempo, a Vo’, non c’erano stati casi per tantissimo tempo, quindi non credo che l’epidemia abbia avuto un impatto sulla scelta della persona di donare e di prestarsi o meno a questa indagine. Quello che conta è la spiegazione chiara e trasparente di quelli che sono gli obiettivi. Se vengono spiegate bene le cose, le persone rispondono bene e mostrano senso civico. Guardi, noi abbiamo avuto un’adesione del 90% della popolazione, con l’85% di bambini sotto i 10 anni. Io non so se si rende conto… Se viene spiegato quali sono gli obiettivi, quali sono le procedure, quali sono i tempi, quali sono i vantaggi per loro e per la comunità è chiaro che le persone sono motivate. Poi c’è anche la componente dell’indagine sierologica disgiunta dal tampone. Noi per evitare questa cosa abbiamo detto «tu fai l’analisi sierologica, noi ti facciamo il tampone». Giusto? Proprio per evitare questa problematica che chi fosse positivo rimanesse in quarantena. Però, io non credo che se lei chiedesse in Italia a qualsiasi persona "normale" a cosa serve quest’analisi epidemiologica saprebbe rispondere. Non sanno rispondere. Noi abbiamo aperto una linea di comunicazione con tutta la comunità di Vo’: ci hanno fatto domande, abbiamo risposto, abbiamo fatto dei video. Abbiamo fatto un’azione capillare di convincimento e di spiegazione. Anche perché, tenga presente poi, che il terzo campionamento comportava anche l’analisi genetica: le persone hanno dato il consenso anche al sequenziamento del DNA, che è una cosa che non viene data a cuor leggero. Gli abbiamo spiegato le finalità, gli abbiamo spiegato che se avessero voluto avrebbero potuto anche avere il profilo genetico loro, eventualmente con tutte le associazioni e le predisposizioni alle malattie genetiche. Abbiamo fatto una cosa capillare. Si fa così. Non è che a un certo punto uno emana un editto e dice «domani faccio 150mila test». Non funziona così [ride]. Io non mi sorprendo di quello che è successo, perché è stato un fallimento di comunicazione e anche probabilmente logistico. Noi abbiamo avuto veramente una manifestazione di fiducia nelle istituzioni e nella scienza che è esattamente l’opposto di quello che si è visto su questo studio epidemiologico. Ora non credo che gli italiani siano diversi a Vo’ da quelli di Padova e di Roma: gli italiani sono gli stessi. Quello che ha fatto la differenza è la comunicazione, la logistica e il fatto che questo test era accompagnato dal tampone.

LE SCUOLE


(M.P.) In ambito riaperture, ormai è quasi riaperto tutto, ma ancora si discute sulla riapertura delle scuole, anzi proprio oggi è in corso la protesta degli insegnanti contro le linee guida fornite dal Ministero. Cosa è emerso dai suoi studi sulla suscettibilità e infettività dei bambini? Cosa consiglia lei per una riapertura delle scuole in sicurezza?

Premesso che i bambini occasionalmente si ammalano, e non sappiamo perché alcuni si ammalano e alcuni no, la maggior parte dei bambini non si ammala. A Vo’, su 250 bambini, non abbiamo trovato un singolo caso positivo al tampone. Per quanto riguarda l’analisi sierologica, tra i bambini da 0 a 11 anni abbiamo trovato 2 che avevano gli anticorpi. Questo che significa? Significa che i bambini, se si infettano, si infettano in maniera transitoria, eliminano rapidamente il virus e pochissimi sviluppano gli anticorpi. Il messaggio è che non capiamo perché i bambini sono resistenti, però sono resistenti. Su questo non c’è dubbio. E se non c’è il virus direi che nemmeno lo trasmettono. Quindi, se permettiamo alla gente di andare in fabbrica, se permettiamo alla gente di andare allo stadio, se permettiamo alla gente di andare al cinema, non capisco perché non permettiamo ai ragazzi di andare a scuola. Tanto più che loro sono più resistenti degli altri. Questa per me è una cosa che faccio fatica a comprendere.

(G.S.) Questo è un punto importante: non c’è solo il fatto che i bambini essendo giovani sono soggetti meno a rischio e quindi meno vulnerabili, ma hanno proprio una carica virale inferiore e quindi non sono neanche vettori di trasmissione del virus?

Nei bambini non si identificano virus, cioè non hanno una carica virale identificabile, quindi se non c’è il virus non vedo come possano trasmetterlo.

LA SITUAZIONE EPIDEMICA NEL MONDO


(G.S.) Allarghiamo lo sguardo al di fuori dei confini italiani: in Italia e in Europa la situazione è decisamente migliore rispetto a qualche mese fa, ma nel mondo abbiamo oltre 9 milioni e mezzo di persone contagiate dall’inizio della pandemia, ma soprattutto il tasso di crescita giornaliero dei contagi che è ancora in aumento. Il 4 maggio, quando l’Italia ha terminato il lockdown, nel mondo c’erano 70-80mila nuovi casi giornalieri, oggi [25 giugno, ndr] siamo a 150mila e siamo arrivati a toccare anche i 180mila casi giornalieri. Lei individua una dinamica di diffusione di questo virus collegata a fattori climatici, ambientali o è solo una reazione alle misure di contenimento imposte dai singoli Paesi? In Italia e in Europa stiamo vivendo una situazione positiva grazie a due mesi di lockdown, ma come mai Paesi come gli Stati Uniti ci stanno mettendo così tanto? In fondo lì il lockdown è iniziato poco dopo i Paesi europei. E ci può essere una stagionalità del virus?

Il tasso di crescita dei nuovi casi giornalieri nel mondo è spaventoso. Sicuramente le misure di distanziamento sociale e quarantena hanno un effetto importantissimo ed ora ne stiamo beneficiando. I coronavirus sono tutti sensibili alla temperatura e probabilmente questo nuovo coronavirus non fa eccezione: ci sono varie evidenze che indicano come questo sia il caso. Situazioni di alta temperatura e bassa umidità non ne favoriscono la diffusione e sembra che su questo la comunità scientifica sia d’accordo. Quindi noi in questo momento stiamo beneficiando di due situazioni favorevoli: gli effetti del lockdown e le condizioni climatiche favorevoli. Ma, come lei ha detto, siamo ancora in piena pandemia: l’Europa è stata colpita dal virus quando l’epidemia era localizzata in Cina e sulla base di dati che ci avevano detto, si parlava di 3-4mila casi al giorno, ora ne abbiamo 150-180mila al giorno, quindi non direi che il pericolo sia diminuito. Non è diminuito in termini di rischio di importare il virus in Italia, ma c’è anche un rischio latente: quello che è accaduto in Germania, con il focolaio del mattatoio, non va sottovalutato. Lì c’erano le condizioni favorevoli al virus: bassa temperatura, alta umidità e sovraffollamento. Sono questi gli ingredienti che favoriscono l’esplosione della trasmissione.

(G.S.) E questi ingredienti si riproporranno in Italia tra qualche mese.

Esatto. Io non mi preoccupo molto di quello che può accadere tra uno o due mesi. Io personalmente vado al ristorante, esco con la mascherina e penso che andrò in vacanza al mare: non credo ci sia un pericolo gigantesco per l’Italia in questo momento. Ma esiste il pericolo di importare dei casi, avere dei piccoli focolai, esiste un importante pericolo per l’autunno se la pandemia non venisse tenuta sotto controllo. Negli Stati Uniti il problema è gigantesco: ci sono 40 milioni di persone che non vanno dal medico perché non hanno i soldi e sono esclusi dal sistema sanitario. Questo rappresenta un bacino di diffusione pazzesco. Sono anche persone che vivono in case sovraffollate, con scarsa igiene, quindi è un serbatoio di virus difficilmente raggiungibile dal sistema sanitario.

LA LETALITÀ


(G.S.) Un altro tema molto dibattuto è la questione della letalità. Dati alla mano, se è vero che i contagi stanno aumentando, il numero dei morti in proporzione sta diminuendo. Su questo c’è un ampio dibattito: secondo alcuni autorevoli esperti c’è una minore pericolosità del virus, mentre lei ha spesso affermato in questi giorni che così non è. Oppure è dovuto semplicemente al fatto che i medici hanno imparato in questi mesi a trattare meglio la malattia, e anche a contare meglio il numero di contagiati rispetto all’inizio. Qual è la verità?

L’indice di letalità dipende da due fattori: la nostra capacità di fare diagnosi e la carica virale. Vediamo il caso esemplificativo dell’Arabia Saudita: ci sono 200mila casi e 1000 morti. L’Arabia Saudita ha un sistema sanitario di prim’ordine, in grado di fare molte diagnosi e allo stesso tempo un clima che non favorisce la trasmissione di una carica virale elevata. Questo è un estremo della situazione. All’altro estremo c’è la Lombardia con un sistema sanitario dal punto di vista della diagnosi sopraffatto, in condizioni climatiche sfavorevoli – bassa temperatura e alta umidità – e sovraffollamento.

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COSA CI ASPETTA IN FUTURO


(G.S.) Di fronte a possibili nuove ondate nel prossimo autunno, in Italia siamo preparati ad affrontare la situazione senza una nuova chiusura, che nessuno si augura, ma monitorando la situazione con tempismo, isolando i nuovi focolai, curando efficacemente le persone senza intasare le terapie intensive? Insomma, è possibile convivere con questo virus nei prossimi mesi senza arrivare a soluzioni drastiche?

Nessuno può dirlo. Il sistema sanitario italiano è sicuramente più preparato di quanto non fosse tre mesi fa, sia dal punto di vista della sorveglianza passiva che attiva, ossia nell’identificazione dei casi, nel tracciamento e nel sottoporre a tampone i contatti. Però teniamo presente che un Paese come la Germania che ha mostrato grande capacità di controllare l’epidemia, si è trovato nella condizione ora di dover mettere in quarantena 400mila persone. Lo scenario più probabile, se la pandemia non viene controllata, sarà quello di avere dei focolai come in Cina, Australia, Nuova Zelanda. Se l’Italia non fosse un’eccezione, avremo dei focolai che metteranno sotto stress il sistema sanitario e la risposta che saremo in grado di dare dipenderà sicuramente dalla tempestività. Meno saremo tempestivi, più saremo costretti a effettuare le misure di distanziamento sociale, con delle micro zone rosse. Pensare di continuare a fare quello che facciamo finora mentre il virus si diffonde è impensabile perché non abbiamo un sistema sanitario stile coreano. Prendiamo l’esempio dell’app Immuni: non è decollata. Ci vorrebbe un sistema di tracciamento informatico efficientissimo che non abbiamo. In alternativa, c’è la sorveglianza attiva e passiva ed eventuale chiusura di zone dove c’è trasmissione.

IL VACCINO


(G.S.) Rispetto a mesi fa abbiamo accortezze, come l’utilizzo delle mascherine, le misure di distanziamento, che sembrano dare i risultati sperati.

Le mascherine funzionano, contrariamente a quello che era stato detto all’inizio. Le mascherine chirurgiche funzionano. Non sarà uguale a prima, se pensiamo alla pandemia di Spagnola, questa è durata due anni perché, essendo anch’essa influenzata dal clima, è diminuita con l’estate ed è stata reimportata con la successiva stagione invernale. È scemata dopo due cicli perché si era stabilita l’immunità di gregge, con il 60-70% delle persone che si erano infettate. Ma per ora siamo lontani da questi dati.

(G.S.) Professore, si sente di fare una previsione sulle tempistiche di sviluppo e diffusione di un vaccino?

Credo che la ricerca del vaccino vada incoraggiata in tutti i modi. Detto questo, è anche onesto dire alle persone che non sempre è possibile sviluppare un vaccino, come nel caso dell’HIV, epatite C e malaria. Nella tubercolosi abbiamo un vaccino sotto-ottimale. Non per tutte le malattie è possibile sviluppare un vaccino. Mi auguro che in questo caso sia possibile, perché il vaccino è il mezzo di controllo migliore in termini di costo ed efficacia.
(3 agosto 2020)




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