“Io, maestro elementare, non esporrò il crocefisso a scuola”
Crocefissi a scuola? C’è chi dice no. A disertare l’azione del sindaco Alan Fabbri e dell’assessore all’istruzione Dorota Kusiak, che hanno acquistato 385 crocifissi da esporre in tutte le aule delle scuole del Comune di Ferrara finora sprovviste, è il maestro elementare Mauro Presini che spiega le sue ragioni in una lettera indirizzata alla Kusiak.
“Rifiuto il crocefisso con cui Lei doterà le scuole ferraresi indipendentemente dal mio credo religioso, dal mio bisogno di fede, dalla mia ricerca di spiritualità, dal mio orientamento politico” premette l’insegnante che, con ormai 40 anni di scuola alle spalle, osserva che “questa decisione non rappresenta una priorità rispetto ai diversi problemi che hanno le scuole ferraresi”.
“Molti possono pensare che la Sua sia una scelta ininfluente che non cambierà il modo di insegnare dei docenti; io penso invece che sia una scelta simbolica condizionante che non va nella direzione di una scuola accogliente e inclusiva, di cui parla la normativa scolastica nazionale” spiega Presini che “con chiarezza e senza ipocrisia”, annuncia che “non esporrò il crocefisso nell’aula che frequento insieme alla mia classe di bambini e bambine di scuola primaria”.
Le motivazioni sono molteplici. “Non esporrò il crocefisso semplicemente perché lavoro in una scuola pubblica e credo che il principio di laicità dello Stato debba essere applicato in tutti i contesti a partire dal rispetto dell’articolo 3 della Costituzione: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
“Non lo esporrò perché in Italia non esiste una religione di Stato pertanto reputo sbagliato esporre un simbolo religioso che può discriminare, a maggior ragione in questo periodo in cui viene fatto un uso appariscente dei simboli religiosi e poco consono ad una dimensione spirituale” prosegue il maestro, ricordando che “la dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica non è più «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica» nel nostro Paese”.
“Non lo esporrò, nonostante sia uno fra i simboli di identità storico-culturale, perché nella mia classe, come nella maggioranza delle classi italiane, ci sono bambini e bambine i cui genitori hanno scelto di avvalersi dell’insegnamento delle attività alternative alla religione cattolica” spiega Presini che preferisce che “i muri delle aule che frequento siano pieni di disegni dei bimbi, di loro foto, di loro progetti, di loro realizzazioni, di cartelloni, di tabelle con la ripartizioni dei ruoli, di calendari, di frasi importanti come ad esempio quelle riportate nei princìpi generali della nostra Costituzione”.
L’insegnante, “sicuro che sarò accusato di fare politica a scuola“, si difende già dai probabili attacchi: “Penso che gli insegnanti non debbano connotare il proprio ruolo educativo in classe con una visione “partitica” della realtà ma, proprio in quanto educatori, non possano fare a meno di fare politica in classe”.
Ed è qui la differenza: “Se per politica intendiamo l’arte del governo a favore della “polis” o meglio se la intendiamo come una serie di tecniche relative all’organizzazione della vita pubblica, io credo che a scuola si faccia politica ogni volta che si sceglie come disporre i banchi, come spiegare un argomento, come organizzare il lavoro scolastico, come verificare gli elaborati e come valutarli, come intervenire in caso di difficoltà di apprendimento, come parlare con i bambini dei problemi di un loro compagno con disabilità, come affrontare un litigio, come comportarsi di fronte a qualche bambino che offende i compagni o che dice parolacce, come rispondere alle domande imbarazzanti, come motivare chi fatica ad apprendere, come aiutare chi è in difficoltà, come aumentare l’autostima degli alunni che si sentono sfiduciati, come risolvere un problema che li riguarda, come insegnare a mettersi dal punto di vista dell’altro, come far ragionare attorno ai pregiudizi e agli stereotipi, come risolvere un problema tutti insieme, come occuparsi dei “beni comuni””.
“Fare politica a scuola non vuol dire educare a pensarla come l’insegnante ma aiutare i bambini e le bambine a ragionare con la propria testa, a pensare pensieri difficili, a credere nelle proprie possibilità, a riconoscere i propri limiti, a provare empatia, a litigare bene, a sperimentare che insieme si può imparare meglio e che solo insieme si possono risolvere i problemi comuni”.
La lettera si chiude con una citazione del “grande pedagogista Bruno Ciari, a cui ho contribuito ad intitolare la scuola in cui lavoro, che scriveva che “le attitudine ed i valori etici, in quanto di natura pratica, non possono che derivare da un modo di operare e di vivere”. Anche mettere in atto i valori della scuola della Costituzione vuol dire fare una scelta politica dunque anche la mia decisione di non esporre il crocefisso è di tipo politico e di nessun’altra natura”.
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