#IoRestoaCasa e guardo un classico: ‘Il vento’ di Victor Sjöström presentato da Piera Detassis

Piera Detassis

Il vento (The Wind), Usa, 1928, regia di Victor Sjöström con Lillian Gish, Lars Hanson, Montagu Love.

Letty Mason (Lillan Gish), una ragazza che ha perso tutto, lascia la Virginia per raggiungere in treno il Texas, dove il cugino Beverly l’accoglierà nel suo isolato ranch Sweetwater. Nel corso del viaggio la giovane donna si inquieta per il vento incessante e un suo vicino, il commerciante di bestiame Wirt Roddy (Montagu Love), premuroso e galante, la protegge dalla sabbia e l’avverte che «il vento in queste terre può portare le donne alla pazzia». Ad accoglierla all’arrivo, due vicini di Beverly, un po’ troppo rozzi per la fanciulla, Lige (Lars Hanson) e Sourdough (William Orlamond). Tra tempesta e polvere, il viaggio deve continuare, Wirt le assicura che passerà a vedere come sta e l’abbandona ai due cowboy maldestri. Letty capisce subito che il suo mondo è crollato sotto il peso del Wild West e che la sua presenza a Sweetwater scatena sentimenti e desideri che mettono in crisi i vicini e la moglie di Beverly, Cora. Letty deve andarsene e la sola soluzione pare un matrimonio combinato in fretta e furia: lei spera in Wirt, ma lui le rivela che è già sposato. La ragazza rifiuta di esserne l’amante e sceglie Lige. È un’unione «bianca», Letty è crudele e chiara con il marito che, pur umiliato, le promette che la rimanderà a casa. Il vento intanto impazza e mentre Letty attende il ritorno di Lige in una baracca battuta dalla tempesta, Wirt va a trovarla e la violenta. Letty lo uccide e ne seppellisce il corpo nel deserto mentre soffiano raffiche intollerabili. Tutto sembra compiuto, ma i fantasmi corrono nel vento.

Questa la trama del film Il vento 1, il cui splendore sta nella sua assoluta, ipnotica e isterica modernità. Il film, come il vento del titolo, frusta e insolentisce il corpo virginale di Lillian Gish, l’adolescente fondatrice del cinema, la ragazzina a cui Truffaut dedica il suo Effetto notte in coppia con la sorella Dorothy. È lei a scegliere come regista lo svedese Victor Sjöström, con cui aveva già girato La lettera scarlatta e che molti anni dopo sarà il protagonista del Posto delle fragole di Ingmar Bergman. È l’inizio di un set impervio e leggendario come l’attrice stessa racconterà in un’intervista video del 1983: «Girammo nel deserto del Mojave, a 50 gradi, con otto motori d’aeroplano a elica che sparavano sabbia contro di noi, protetti da maschere, bandane e lunghi abiti per evitare le ferite da sabbia e vento». Il livello di difficoltà fu certamente esagerato dalla stessa Gish, attenta narratrice della propria leggenda, ma le foto dal set non lasciano dubbi sull’impresa.

L’intera opera è un monumento possente alla forza e all’imprevedibilità degli elementi naturali e al caos climatico che porta gli esseri umani alla follia: Il vento contribuisce a definire l’iconografia estrema del Wild Wild West, dando vita a un western che sconfina nel metafisico e nell’horror, appena redento da un finale melò trafitto dal vento. Prima che il santino prevalga nel momento happy end – ma la bellezza del finale toglie comunque il fiato – il film indaga spregiudicato la sessualità femminile come fonte di spavento e generatrice di terrori e catastrofi. La luce e la magnifica fotografia sono coltellate luminose che aprono squarci vividi nella coltre di polvere e sabbia destinata a seppellire ogni umanità nel momento in cui Lillian passa dalla Virginia alla rude società dei pionieri, dove la gentilezza della signorina Letty è ignorata, corteggiata subdolamente, ingannata e rifiutata. Il suo ingresso tanto celestiale e «imberbe» nell’universo dei cowboy scatena ogni sorta di reazione. Il «disordine erotico» porta all’isolamento, al rifiuto: c’è solo il matrimonio per sanare questa alterità e riportare la legge.

Il regista non si limita a catapultarci in un mare di sabbia che ci prende alla gola e ci soffoca. No, Victor Sjöström ci abbaglia con la luce di riverbero, punta il riflettore su dettagli che si stagliano nel buio del paesaggio invaso da calore e pulviscolo e in questo turbinìo di follia cinematografica, nel cui cuore pulsano il sadismo del regista e il masochismo dell’interprete (Gish), riesce anche a segnare vie diverse. Nella bestialità fa sbocciare l’«uomo nuovo», il marito di Letty, respinto, ferito nell’orgoglio e nella virilità eppure capace di accettare le ragioni della moglie, il suo desiderio fino ad allora silente. Per l’interprete (Hanson), una spogliazione di sé che contrasta con le spianate di bovari al galoppo nel vento e rinserrati in ranghi virili dove Letty è solo una fragile porcellana predestinata.

Ben diverso, in questa guerra dei sessi così lucidamente e ferocemente orchestrata da Sjöström, è il ruolo di Wirt, uomo dai bei modi che celano la violenza. La sequenza indimenticabile del film coincide con la sua irruzione nella povera baracca dove Letty attende il marito, assediata dalla tempesta di sabbia che tutto sbatte, scuote, impolvera e ferisce. Ma il climax non sta nella violenza dell’uomo su di lei, quanto in ciò che ne segue: Lillian resta silente, il suo volto trasuda un lucore funerario, l’uomo rientra in campo allacciandosi il cinturone, il gesto più violento del film, la donna afferra una pistola, lui ride strafottente, lei spara. Fuori nient’altro che raffiche e sabbia, il primissimo piano di Lillian è ora una maschera kabuki, una sola ciocca illuminata sfugge disperata ai suoi capelli dibattendosi minacciosa come una fiammella che continua ad ardere davanti ai nostri occhi.
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Nell’infuriare degli elementi, Letty scava con le mani e la pala seppellendo il corpo del suo violentatore nel deserto che lambisce la casupola. Rientrata in casa, il regista la riprende di qua dai vetri della finestra, gli occhi terrorizzati e l’espressione modellata sulle immagini delle isteriche di Charcot. Cosa vede, cosa immagina Letty e cosa non vediamo noi? Là fuori, mentre il vento scompiglia le dune, il corpo e il viso di Wirt riaffiorano, la sua mano prende di nuovo forma sotto il cumulo di sabbia. L’isterica visualizza la paranoia dell’aggressione, quella mano l’avvinghia, la scuote mentre lei si nasconde sotto le coltri per non vedere. Ma stavolta non è il fantasma di Wirt, è la mano del marito rientrato e quando lei confessa il suo delitto, lui non sembra stordito né stupefatto. Nulla cambia, il conto è saldato, fuori non c’è nessun cadavere. Alla fine, forse è stato tutto solo frutto dell’immaginazione di Letty, un’esternazione dei suoi (e dei nostri) terrori, un omicidio immaginario che ha pareggiato i conti con l’universo maschile.

Per Lillian Gish – iniziata bambina al cinematografo, devota musa di Griffith, con cui ha collaborato per anni in simbiosi, pronta a ogni molestia e masochismo sui tanti set, produttrice e regista fin quando, come ha scritto Louise Brooks, «Hollywood non ha deciso di ammazzarla perché donna troppo potente» – Il vento vale una confessione, è la sublime messa in scena della tempesta, spesso violenta, che si scatena tra i generi, tra maschio e femmina, tra regista e attrice. E la testimonianza di quali spregiudicatezze e ribellioni luminose fosse capace il cinema muto e in bianco e nero. Prima che, con il codice Hays*, calasse il sipario sulle spericolatezze dell’inconscio.

* Codice Hays, dal nome del suo creatore Will H. Hays, indica comunemente il Production Code, un insieme di linee guida che per molti decenni ha regolato e limitato la produzione cinematografica statunitense. Adottato a partire dagli anni Trenta, specificava cosa fosse «moralmente accettabile» nella produzione di film.

(6 aprile 2020)
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