#IoRestoaCasa e guardo un classico: ‘La donna che visse due volte’ di Alfred Hitchcock presentato da Roy Menarini

Roy Menarini


La donna che visse due volte (Vertigo), Usa, 1958, regia di Alfred Hitchcock, con James Stewart, Kim Novak, Barbara Bel Geddes.

Com’è successo che un film considerato minore all’interno della filmografia di Alfred Hitchcock sia oggi considerato il più bello mai girato nella storia della settima arte? Facciamo un passo indietro.

Alla sua uscita, nel 1958, La donna che visse due volte – prolisso ma geniale titolo italiano di Vertigo – non ebbe il successo sperato. Incassi assai più contenuti rispetto alle pellicole precedenti, critiche a dir poco tiepide e una sensazione generale di sconcerto o di «film sbagliato». Troppo dark, troppo strano, troppo onirico, troppo morboso.

La storia di un detective in pensione, interpretato da un James Stewart assai invecchiato, e della sua passione maniacale per una donna che gli muore sotto gli occhi e poi si ripresenta sotto altra veste, fu considerato poco più di un catalogo di perversioni senza il controllo di un meccanismo thriller in grado di contenerle. Inoltre, lo svelamento a tre quarti del racconto del colpo di scena fu considerato da molti un passo falso, mentre per Hitchcock si trattava di spogliare il giallo e mettere a nudo quel che era veramente: uno studio drammatico delle ossessioni umane.

Ora facciamo un salto di oltre cinquant’anni. Nel 2012, come fa ogni dieci anni, la prestigiosa rivista inglese Sight and Sound propone un sondaggio a centinaia di esperti di cinema internazionali allo scopo di redigere una classifica con i migliori film di tutti i tempi. Da decenni, il vincitore è sempre lo stesso, Quarto potere di Orson Welles. Quell’anno, dopo una rimonta cominciata da alcuni lustri, La donna che visse due volte compie il sorpasso finale e diventa il più bel film dell’intera storia del cinema.

Come è possibile che quell’opera nel 1958 snobbata e considerata confusa sia diventata la più amata mezzo secolo dopo? I gusti dei critici oscillano con tanta vaghezza?

Qui entriamo in scena noi. I cinefili. Sì, perché questa è una storia di cinefilia.

Ci sono due tipi di approccio al film. C’è quello che cerca l’oggettività, mediato, normativo, universale, che giudica l’opera secondo un metro il più possibile preciso e che osserva valori e disvalori del racconto, della messa in scena, delle varie componenti del film. E poi c’è quello che considera il film un’idea, dove il tutto conta decisamente più delle parti, e la visionarietà pesa di più di qualche squilibrio o di certe indecisioni. È la critica cinefila. Quella che, fin da subito, difende Vertigo. Leggete che cosa ne scrive, unico o quasi (in Italia gli si affianca Morando Morandini), Éric Rohmer nel 1959 sui Cahiers du cinéma: «Idee e forme seguono lo stesso percorso, ed è perché la forma è pura, bella, rigorosa, straordinariamente ricca e libera, che si può dire che i film di Hitchcock, e Vertigo in testa, hanno come oggetti – oltre a quelli con i quali riescono ad avvincere i nostri sensi – le Idee, nel senso nobile, platonico, del termine».

Da quel momento, per La donna che visse due volte la strada comincia a essere in discesa. I successivi film di Hitchcock, sempre più angoscianti, gettano una luce più intrigante su questo, le rivalutazioni cominciano a circolare anche in America, mentre l’Europa lo tiene in palmo di mano, anche grazie a continue proiezioni nei cineclub e alla costante rilettura interpretativa dei critici francesi. La cinefilia, insomma, lavora a pieno ritmo e quando i nuovi cinefili – i giovani degli anni Ottanta e Novanta – vedono La donna che visse due volte (magari nei corsi universitari) sono già consapevoli del suo valore. Giovani appassionati che in alcuni casi diventeranno i critici e i docenti degli anni Duemila, e che hanno prima studiato e poi insegnato il film ad altri studenti. È a questo punto che La donna che visse due volte diviene il film più immaginifico e imprevedibile di Hitchcock e, per questo stesso motivo, il suo migliore.

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Il suo dialogo con le arti, l’uso del colore in senso espressivo e antinaturalistico, la sospensione tra reale e onirico, l’aspetto da cinema d’autore nascosto nel meccanismo del mystery, la simmetria tra le vertigini del protagonista e le spirali della messa in scena, le sequenze-culto della scalinata, del sogno e del ponte di San Francisco, la forza del tema del doppio, l’influenza su altri cineasti (da Brian De Palma a David Lynch), sono tutte ragioni che hanno fatto innamorare del film diverse generazioni di spettatori e convinto gran parte degli esperti a considerarlo il più importante lungometraggio di sempre.

Certo, le classifiche lasciano il tempo che trovano, e sarebbe sbagliato considerare oro colato un sondaggio sottoposto – come abbiamo visto – ai mutamenti del gusto nel corso del tempo. Tuttavia, la parabola dalle stalle alle stelle di La donna che visse due volte ci dice qualcosa del fascino della cinefilia: non dare mai per scontata la prima impressione, non limitarsi ai problemi che emergono in superficie, chiedersi perché un film ci tocca, ci emoziona, ci sconvolge al di là e ben oltre gli apparenti difetti di fabbricazione (che poi spesso difetti non sono). È un modo bellissimo di guardare i film.
(16 aprile 2020)
#IORESTOACASA E LEGGO/GUARDO UN CLASSICO



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