#IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Analisi terminabile e interminabile’ di Sigmund Freud presentato da Simona Argentieri

Simona Argentieri

Tra le numerose opere del padre della psicoanalisi che meriterebbero di entrare nella ‘biblioteca ideale’ di MicroMega, Simona Argentieri sceglie uno scritto formalmente di tecnica, complesso e tutt’altro che accattivante, stilato da Freud nel 1937, in esilio e prossimo alla morte. Un testo che però testimonia della visione esistenziale del suo autore, derivata dalla scoperta dell’inconscio: la convinta rinuncia alle illusioni, comprese quelle sulla sua rivoluzionaria disciplina. Questo scritto è infatti l’elogio del riconoscimento del limite. Un tema che oggi più che mai meriterebbe di essere riscoperto.

Di tutte le false credenze e superstizioni che l’umanità reputa di aver superato, non ce n’è una di cui non sopravvivano residui ancora oggi tra noi o negli strati più infimi dei popoli civilizzati, o, addirittura, negli strati più elevati della società civile. Le cose, una volta venute al mondo, tendono tenacemente a rimanervi. (Sigmund Freud)

Quasi venti corposi volumi, circa trenta chili di Opera omnia tra casi clinici, scritti teorici, recensioni, necrologi, riflessioni sull’arte e gli artisti, considerazioni sulla storia e la società, interventi occasionali, lettere aperte e private… Scegliere un unico titolo tra tutto questo materiale prodotto da Sigmund Freud per la «Biblioteca ideale» di MicroMega è davvero crudele. Meglio l’incanto di Il poeta e la fantasia o la potenza rivoluzionaria di L’Io e l’Es? È più giusto privilegiare le amare considerazioni di Perché la guerra? o il fascino di Il perturbante? L’opera più adeguata e sintonica per questa occasione sarebbe certo L’avvenire di un’illusione, che sancisce in modo indelebile l’importanza dell’indagine psicoanalitica per liberare gli umani delle false consolazioni delle superstizioni, dei pregiudizi, delle false credenze. Ma più volte vi ho fatto ampio ricorso proprio per miei contributi su queste pagine: da Il presente di un’illusione (MicroMega 2/2000), oramai molti anni fa, alla recente discussione sulla cosiddetta post-verità (MicroMega 2/2017).

Propongo allora uno scritto di Freud della tarda maturità, complesso e tutt’altro che accattivante: Analisi terminabile e interminabile, da lui stilato nel 1937, in esilio e prossimo alla morte. Formalmente è uno scritto di tecnica, nel quale egli si interroga sulla possibilità di bonificare dai grovigli inconsci non solo il presente e il passato remoto infantile, così spesso responsabile della nevrosi adulta, ma addirittura di prevenire ricadute o futuri conflitti. È possibile analizzare tutto e una volta per tutte il nostro mondo interno? Accanto a tali giganteschi interrogativi, ne declina altri apparentemente di più modesta portata: ad esempio, se e come sia possibile accorciare i tempi della cura analitica. Un problema che al nostro sguardo di oggi appare bizzarro, perché allora le terapie duravano qualche mese, mentre attualmente il decorso di un’analisi – seppure non ce ne vantiamo – si conta in anni.

A tutte queste domande Sigmund Freud rispose, con la consueta franchezza, no.

Il padre della psicoanalisi, e non certo per umiltà, non usava mai toni trionfalistici, non voleva sedurre i suoi interlocutori se non con il fascino dell’evidenza intellettuale. In Analisi terminabile e interminabile appare però particolarmente severo, tanto che molti commentatori hanno giudicato questo scritto troppo pessimista, frutto della vecchiaia e delle disavventure dei suoi ultimi anni. Io non sono affatto d’accordo, perché – un po’ polemicamente, nel clima attuale che sembra privilegiare una psicoanalisi a bassa definizione, ridotta a blande considerazioni sociologiche – credo invece che queste pagine diano testimonianza della visione esistenziale di Freud, derivata dalla scoperta dell’inconscio: la convinta rinuncia alle illusioni, comprese quelle sulla sua rivoluzionaria disciplina. Questo scritto è infatti l’elogio del riconoscimento del limite, che più di ogni altro uno psicoanalista è tenuto a osservare; non per mortificare la speranza e la fantasia, ma per salvaguardare se stesso e soprattutto i suoi pazienti da ogni aspettativa onnipotente, dalla pretesa del furore terapeutico e della guarigione magica a ogni costo di qualsivoglia patologia e sofferenza.

Il senso del limite è una qualità rarissima nella nostra cultura attuale, nella quale sembra non si sappia più distinguere tra un diritto e un desiderio, tra ciò che non si può fare perché è vietato e ciò che non si può avere perché è impossibile. Ogni limitazione, a partire da quelle biologiche, è appunto vissuta come un’intollerabile ingiustizia o come un maligno dispetto della sorte a proprio danno.

Il limite è invece la dura legge – uguale per tutti – del «principio di realtà», che deve fare da argine al primitivo «principio del piacere»; non per castigare la ricerca della felicità, ma perché solo tenendo conte dei limiti che appunto la realtà ci impone, possiamo conquistare quel poco di piacere possibile.

È in queste pagine che si trova una delle affermazioni freudiane poi così spesso citate: «Sembra quasi che quella dell’analizzare sia la terza di quelle professioni “impossibili” il cui esito insoddisfacente è scontato in anticipo. Le altre due, note da molto più tempo, sono quelle dell’educare e del governare».

Tuttavia, non è una resa, ma un espediente retorico, una chiamata all’impegno dell’operare clinico, volto a capire dove tale limite vada posto, quali siano gli ostacoli al procedere della cura e chi li frapponga. La responsabilità è del «cattivo» analizzato, del terapeuta incapace, dell’intrinseca pochezza dello strumento o dell’umano destino?

Non v’è dubbio che nell’impresa terapeutica pesino sul piatto negativo della bilancia la forza innata delle pulsioni del paziente e la gravità degli eventi traumatici che la sorte gli ha riservato; nonché l’eventuale impreparazione dello psicoanalista, e ancor più le «difese professionali» con le quali evita di fare i conti con se stesso e con il proprio inconscio (ad esempio, proponendosi come «ideale dell’io» dei suoi analizzati, cercando in essi sotterranee gratificazioni narcisistiche). Poiché lo psicoterapeuta è medico e medicina, ogni operazione difensiva si traduce in una zona cieca dell’operare clinico. Per tali ragioni la nostra formazione prescrive l’analisi personale, cioè cominciare con il fare a nostra volta i pazienti. Secondo Freud, anche tale analisi cosiddetta didattica è «interminabile», cioè dovrebbe essere periodicamente ripetuta.

Talvolta però la «colpa» dello scacco non è né dell’uno né dell’altro, ma discende dalla condizione umana. È in questo saggio che Freud individua nella sessualità lo «strato roccioso» oltre il quale l’interpretazione non riesce a andare: l’analisi, più che interminabile, è impossibile. Tale estrema resistenza, radicata nel corpo, sarebbe costituita dall’angoscia di castrazione del maschio e dall’invidia del pene nella donna; una minaccia e una menomazione impossibili da accettare e da superare. In tal senso si declina il famoso aforisma freudiano che spicca in quelle pagine secondo il quale «l’anatomia è destino» e il livello biologico si pone come il limite ultimo della potenzialità trasformativa della terapia psicoanalitica. Tale concezione – come è noto – è stata poi oggetto di innumerevoli critiche e polemiche. La più fertile e convincente è la «rivoluzione anticipante» di Melanie Klein, secondo la quale ogni essere umano, in epoche ben più precoci di quelle in cui si giocano le differenze sessuali, patisce il trauma di scoprire di non avere e
di non essere «tutto»: ciascuno – maschio o femmina – detiene «un’eccedenza e una mancanza» e il destino della maturità si gioca nel poter riconoscere tale differenza come un limite ma anche come una risorsa. Un appuntamento di maturazione che si propone in qualunque assetto familiare, storico e culturale.

In questa linea di pensiero, lo «strato roccioso» non riguarda l’anatomia e neppure l’identità sessuale; ma piuttosto le fantasie megalomani di onnipotenza, l’illusione di poter esistere e consistere in uno stato di sé compiuto, libero dalla dipendenza del desiderio e del bisogno di qualcuno o di qualcosa fuori da sé e dal proprio controllo; ultimo baluardo contro la paura di riconoscersi nei propri limiti di creature sessuate e mortali. Così, restare aggrappati al proprio risentimento e scontento è l’ultimo legame con un’illusione narcisistica alla quale non si vuole rinunciare; un baluardo falso e potente contro il lutto impossibile per l’immagine di noi stessi così come credevamo di essere. La «colpa» della propria miseria viene attribuita alla malasorte o all’insufficienza degli altri a garantirci ciò che «ci spetta» per diritto naturale.

Così la resistenza al lavoro analitico che tenta di riconciliare il paziente con l’umana finitezza non è più un granitico destino biologico, ma l’eventualità, tutta psicologica, dell’umiliazione narcisistica. Una sfida difficilissima da affrontare sul piano clinico, ma non a priori impossibile.

Il punto più arduo che Freud affronta in questo saggio, riguarda peraltro un’altra circostanza – non così rara, purtroppo – nella quale la persona venuta in analisi si oppone paradossalmente al processo della cura: «La guarigione stessa è trattata dall’Io alla stregua di un nuovo pericolo». È quel fenomeno denominato «reazione terapeutica negativa», secondo la quale il blocco è la conseguenza proprio di un momento di progresso, di un beneficio che, per oscure ragioni inconsce, il paziente non riesce a tollerare, «ancorandosi con determinazione assoluta alla malattia e alla sofferenza». Come emblema di tale pervicace fallimento Freud indica il più famoso analizzato di tutti i tempi, il giovane russo, paziente recidivo a vita, detto poi «l’uomo dei lupi».

Per affrontare il senso del paradosso della reazione terapeutica negativa, Freud arrivò a invocare la forza anonima della pulsione di morte; sollevando così dalle sue e dalle nostre spalle la colpa dell’inadeguatezza, ma consegnandoci all’inesorabilità di un fato trascendente.

Tuttavia, lasciando in sospeso la questione metapsicologica dell’esistenza o meno di una pulsione di morte, sul terreno clinico oggi possiamo capire che talvolta l’aggrappamento del paziente alle sue catene non deriva dal «bisogno di essere infelice», ma dalla paura nevrotica di poterlo essere ancora di più. Ogni cambiamento è vissuto come portatore potenziale di un male peggiore. Paradossalmente, sono proprio le persone intrappolate in esistenze misere e coatte ad avere più paura dei mutamenti e a opporre le più tenaci resistenze alla cura. Restare in una condizione costante di costrizione morale sembra garantire un falso e distorto senso di sicurezza, di protezione da un’ulteriore sventura sconosciuta.

In conclusione, poiché il lavoro dell’analisi necessariamente spinge verso la maturazione, il riconoscimento dell’altro, della nostra vulnerabilità alla dipendenza e al bisogno, in una parola verso l’ammissione dei propri limiti, è prevedibile che il più forte ostacolo alla guarigione sia costituito dagli aspetti distruttivi del narcisismo. Se l’analisi non può garantirci immortalità e perfezione, può rafforzare l’Io che deve far fronte agli insulti della realtà.

Qui entra in causa un ulteriore ostacolo odierno per così dire «ambientale», connesso allo spirito del tempo, dominato dalla superficialità e dalla fretta; nella quale esperti e profani fanno attenzione ai sintomi, al livello superficiale manifesto del malessere, con scarsa preoccupazione invece per le cause remote e per gli interventi che mirino a modificazioni strutturali della persona.

Tutto ciò rende inevitabilmente assai arduo l’incontro clinico con i pazienti e la nostra possibilità di offrire loro delle corrette indicazioni terapeutiche. Proporre le classiche quattro sedute settimanali o prospettare la durata misurabile in anni di un’analisi viene vissuto come una richiesta eccentrica e smisurata. Sono gli umani di oggi, segnati dai tratti narcisistici dell’ansia e dell’urgenza, della fragilità dell’Io, che seppure talora possono meritare una precisa indicazione all’analisi classica, raramente sono disposti a farla. Spesso avrebbero bisogno di un tempo di cura più lungo proprio coloro che non hanno tempo. Si prediligono le terapie cosiddette «brevi», che vanno incontro alle difese anziché ai bisogni, inadeguate ad affrontare i nuclei basilari del malessere. Di modo che, in omaggio alla brevità, spesso si realizza il paradosso di trasformare il trattamento in una sorta di analisi interminabile sequenziale, che di ciclo in ciclo mantiene il paziente in cura per la vita. Mentre, in precisa simmetria, vengono privilegiati i succinti e astratti percorsi formativi dei terapeuti di tante moderne scuole. Il problema non è tanto terminare l’analisi, quanto cominciarla.

Propongo quindi Analisi terminabile e interminabile per la «Biblioteca ideale» di MicroMega perché questo scritto «pessimistico» mi appare tra i più fertili e suscettibili di evoluzione, e ha consentito in epoca moderna un rilancio dei criteri di analizzabilità, delle possibilità terapeutiche e conoscitive della psicoanalisi proprio a partire dall’individuazione dei limiti del paziente e dell’analista.

Come scrive Freud in questo saggio, «la relazione analitica è fondata sull’amore della verità, ovverosia sul riconoscimento della realtà, e tale relazione non tollera né finzioni, né inganni».

(26 marzo 2020)

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