#IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Il contratto sociale’ di Jean-Jacques Rousseau presentato da Giorgio Cesarale

Giorgio Cesarale

Senza Rousseau sarebbe praticamente impossibile pensare il nostro mondo storico e politico. A lui si devono infatti categorie da cui non possiamo prescindere, come quelle di ‘sovranità popolare’, ‘alienazione’, ‘volontà generale’. E nessun costituente avrebbe potuto immaginare di dichiarare in apertura di una Carta costituzionale che la ‘sovranità appartiene al popolo’, se la lezione rousseauiana non fosse divenuta parte integrante della cultura democratica più avanzata.

Nelle Memorie sui miei fratelli (1835), Charlotte Robespierre, sorella del ben più famoso Maximilien, l’«Incorruttibile», capo dei giacobini e protagonista di quella speciale fase della Rivoluzione francese che va sotto il nome di «Terrore», riporta la «Dedica» che il fratello avrebbe rivolto, nel 1789, ai Mani di Jean-Jacques Rousseau:

Ti ho visto nei tuoi ultimi giorni; […] ho contemplato i tuoi tratti augusti. […] Da allora ho compreso tutte le pene di una vita nobile che si dedica al culto della verità; non mi hanno spaventato. La certezza di aver voluto il bene dei simili è la ricompensa dell’uomo virtuoso. […] Come te, vorrei conquistarmi questi beni a prezzo di una vita laboriosa, anche a prezzo di una morte prematura 1.

Si tratta di un brano dall’acceso lirismo, che contiene il riferimento a un episodio sui cui contorni la discussione degli storici ancora ferve: l’incontro di Robespierre con l’ormai stanco e invecchiato Rousseau nei boschi di Montmorency, durante l’ultimo anno di vita, il 1778, dell’autore del Contratto sociale. Che Robespierre abbia parlato con Rousseau oppure lo abbia soltanto visto non è, dal punto di vista storico, indifferente; meno discutibile è l’impressione di solenne grandezza morale che Rousseau fece sul rivoluzionario giacobino. I tratti «augusti» di Rousseau avrebbero insegnato non solo il valore del sacrificio per la «verità», ma anche l’importanza del «bene dei simili», il perseguimento del quale è la «ricompensa dell’uomo virtuoso».

Coloro i quali conoscono i dettagli della biografia di Rousseau sanno che sarebbe difficile attribuirgli quell’alta esemplarità morale che Robespierre ha scorto nella sua figura 2. Se però ci si limitasse a constatare il divario fra l’immagine di Rousseau delineata da Robespierre e la sua effettiva realtà personale ci si impegnerebbe in un’attività di poco significato. Cruciale è piuttosto la domanda relativa alle ragioni per cui l’appello rousseuiano – in un certo senso «classico» e «repubblicano» – alla vertu, alla virtù, alla costruzione di un ordine di relazioni in cui il soddisfacimento degli interessi privati risulti subordinato a quello degli interessi pubblici, abbia sortito un così grande effetto a livello storico, abbia contribuito a plasmare le forme di coscienza dei principali protagonisti dell’evento forse inaugurale della modernità politica, la Rivoluzione francese. Anzi, ancora più ampiamente, come è potuto accadere che dalla penna di un uomo umorale, scontroso, contraddittorio, per giunta non incline ad adattarsi ai severi vincoli dell’impegno teorico, siano germinate riflessioni filosofiche, letterarie, pedagogiche, politiche nelle quali si sono depositati i termini fondamentali del lessico concettuale che, ancora oggi, adoperiamo? Come riusciremmo, infatti, a pensare il nostro mondo storico e politico se non potessimo impiegare categorie, come quelle di «sovranità popolare», «alienazione», «autenticità», «infanzia», che, se non sono state definite con chiarezza da Rousseau, sono state tuttavia da lui inequivocabilmente originate (rispettivamente nel Contratto sociale, nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza fra gli uomini, nelle Confessioni e nell’Emilio)?

Anche chi, come François Furet, ha voluto mettere in dubbio la tesi circa il nesso diretto fra il pensiero rousseauiano e gli svolgimenti della Rivoluzione francese non ha mancato di esaltare la centralità storica e politica di Rousseau:

Rousseau fu il più grande genio precursore mai comparso nella storia intellettuale, tanta parte inventò o intuì di ciò che avrebbe ossessionato il XIX e il XX secolo. Il suo pensiero politico costituisce infatti con molto anticipo il quadro concettuale di ciò che sarà il giacobinismo e il linguaggio rivoluzionario, sia attraverso le sue premesse filosofiche […] sia in quanto il carattere radicale della nuova coscienza dell’azione storica si unisce a una rigorosa analisi teorica delle condizioni indispensabili all’esercizio della sovranità popolare 3.

Nel discorso di Furet vi è un che di eccessivo: è difficile ritrovare nel pensiero politico di Rousseau quel rigore che pure gli è assegnato. Ma non è men vero che dal complesso delle acquisizioni rousseauiane sono emerse tanto le coordinate di una nuova coscienza politicamente trasformatrice quanto i fondamenti di legittimità del moderno Stato democratico. Nessun costituente, come quelli italiani fra il 1946 e il 1948, avrebbe potuto dichiarare, nell’articolo 1 del documento costituzionale che poi sarà approvato, che la «sovranità appartiene al popolo» se la lezione rousseauiana non fosse divenuta parte integrante della cultura democratica più avanzata. Una cultura, si badi bene, fin dall’inizio atteggiata in senso universalistico, tutt’altro che eurocentrico: il Toussaint L’Ouverture descritto da C.L.R. James nel formidabile I giacobini neri è un eroe dell’indipendenza nazionale haitiana e della battaglia antischiavistica che, benché fornito di poca cultura, si lascia ispirare dai toni e dal linguaggio di Rousseau, dalla sua idea di un nuovo contratto sociale 4.

La più acuta, quasi sofferta, consapevolezza della potenza «eversiva» del messaggio universalmente egualitario di Rousseau si trova negli avversari ottocenteschi della democrazia, per esempio in quel Nietzsche che, già nella terza delle Considerazioni inattuali, dedicata a «Schopenhauer come educatore», vede derivare dall’«uomo di Rousseau […] una forza che ha spinto ed ancora sospinge a tempestose rivoluzioni» 5, proprio perché, è aggiunto altrove, in lui, «primo uomo moderno» hanno convissuto l’«idealista» e la «canaille» 6, la condizione plebea si è unita a un programma politicamente rinnovatore. Il contratto sociale 7, del resto, conferma questa ipotesi nietzscheana fin dall’esordio, attraverso la stentorea affermazione, da quel momento stampata a lettere d’oro negli archivi del movimento democratico, secondo cui «l’uomo è nato libero e ovunque è in catene» 8.

Il ragionamento di Rousseau, pur non privo, come s’è detto, di molte esitazioni e contraddizioni, è però più coerente di quanto pensasse Nietzsche. Il suo punto di partenza è infatti quello del giusnaturalismo hobbesiano e lockeano: l’unità dello Stato, la formazione della sua sovranità, sono dati dall’associarsi degli individui, i quali sottoscrivono un patto che obbliga tutti i contraenti all’obbedienza. Ma per quale ragione gli individui decidono di assoggettarsi a un corpo politicamente unitario? Oppure, detto nella formula più sintetica delle Lettere dalla montagna, «qual è il fondamento dell’obbligo?» 9. Rousseau, di nuovo su base hobbesiana e lockeana e contro una lunga tradizione, ancora imperante ai suoi tempi, ritiene che tale fondamento non risieda né nel diritto del più forte né nel potere paterno né nella volontà di Dio. Ogni «patto di sottomissione», compreso quello «iniquo» descritto dallo stesso Rousseau nel secondo Discorso, il quale fu stipulato fra il ricco e il povero agli inizi della civiltà umana per dare stabilità agli assetti proprietari, toglierebbe validità e legittimit&
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al patto sociale. Quest’ultimo deve riposare piuttosto sul «libero impegno» 10 di ciascuno, sulla sua adesione volontaria alla «prima convenzione» 11. Tuttavia, mentre Hobbes e Locke avevano sostenuto che la fondazione dell’autorità politica attraverso il consenso di ciascun individuo presentava comunque un costo (per Hobbes: la sottomissione di ciascuno all’unica volontà del Commonwealth; per Locke: la limitazione, tramite diritto positivo, dei diritti individuali), per Rousseau la clausola fondamentale del contratto sociale, quella dell’«alienazione totale» 12, impedisce ogni rinuncia, persino parziale, alla propria libertà. Nella prospettiva di Rousseau, infatti,

ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno, e poiché su ogni associato, nessuno escluso, si acquista lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l’equivalente di tutto ciò che si perde e un aumento di forza per conservare ciò che si ha 13.

Si tratta, in altre parole, di uno «scambio vantaggioso» 14: passando dallo stato di natura allo stato civile l’uomo perde senz’altro la «libertà naturale», il diritto di appropriarsi di tutto ciò che lo attira, ma guadagna la libertà civile (i suoi diritti individuali in quanto siano garantiti dall’autorità pubblica), il titolo alla proprietà dei suoi beni, laddove nello stato di natura egli può soltanto possedere, e la libertà morale, vale a dire l’obbedienza alla legge che si è prescritto, la sua autonomia.

In tutto ciò la critica liberale, sempre sospettosa nei riguardi dei processi di universalizzazione sostanziale, ha intravisto un immediato pericolo, i prodromi del totalitarismo. Rilievo, a nostro giudizio, in buona parte infondato: ciò che è meno dubbio è che il contratto sociale crea per Rousseau un «uomo nuovo», produce nell’individuo «un mutamento molto notevole, sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto» 15. La politica insomma trasforma l’uomo, gli consente di attingere a un nuovo e più vasto ordine di preferenze, diverse da quelle maturate su altri terreni (la famiglia, il mercato, la religione…). Più controverso ancora è l’argomento rousseauiano circa il fatto che il potere sovrano così costituito non abbia «bisogno di garanzie verso i sudditi» 16, non debba, cioè, prevedere degli strumenti di salvaguardia dei diritti individuali a fronte degli eventuali abusi di potere da parte del centro politico-istituzionale. Si tratta di un argomento che per una teoria democratica del potere risulta quasi necessario: «essendo formato solo dei privati che lo compongono» 17, il potere sovrano non può avere interessi contrari a quelli degli individui, non può recar loro nocumento. Il cittadino sarà «costretto ad essere libero» 18, secondo un’altra delle formulazioni del Contratto passate alla storia, sarà punito solo se disobbedirà ai precetti di quell’ordinamento politico che egli stesso ha contribuito a fondare.

L’aver dato, con il patto sociale, «l’esistenza e la vita al corpo politico» 19 non basta, tuttavia, per conservare il «bene comune» 20. Se è vero, infatti, che il contrasto degli interessi privati fa sorgere, nello stato di natura, l’esigenza di una istituzione che, trascendendoli, li renda compossibili, è altrettanto vero, per Rousseau, che è solo l’individuazione di un «interesse comune» 21 ciò che permette a una società di continuare a esistere. La delicatezza del problema affrontato da Rousseau diventa però evidente solo se collochiamo i suoi «princìpi del diritto politico» sullo sfondo della precedente dottrina contrattualistica: avendo rinunciato a ogni meccanismo di trasmissione della volontà – perché il popolo del Contratto non l’ha né ceduta al sovrano (come in Hobbes), né delegata a un’assemblea rappresentativa (come in Locke), ma l’ha, attraverso l’unico contratto di associazione 22, alienata solo a se stesso – Rousseau si trova nella difficile situazione di dover spiegare in quale modo la collettività riuscirà a selezionare, a muovere interamente da se stessa, tale «interesse comune». È per risolvere questa difficoltà che Rousseau introduce una differenza destinata ad aver un enorme impatto sulla teoria e la storia della democrazia moderna: quella fra la «volontà di tutti e la volontà generale» 23. La prima è la volontà comune che risulta dalla sommatoria delle volontà particolari ed è perciò, costitutivamente, diversa da quest’ultime; la seconda è il bene comune, inteso come «un punto di incontro che non si riporta tuttavia alla mediazione degli interessi», e dunque non come «un residuo, “somma” o “aggregazione” di interessi particolari, bensì [come] un momento originario e ulteriore rispetto a essi, unità che costitutivamente dovrebbe fondare il tutto, le parti, e le relazioni delle parti al tutto» 24.

Risolta, in qualche modo, una difficoltà, un’altra subito se ne presenta: come si giunge a conoscere, si era già chiesto Rousseau nel Discorso sull’economia politica, la volontà generale 25? Per un verso, infatti, essa appare come uno standard trascendentale cui gli uomini si devono conformare se vogliono ordinare secondo giustizia relazioni che altrimenti sarebbero dominate dall’interesse privato; per altro verso, essa è qualcosa di prodotto dai cittadini, quando questi, informati a «sufficienza» e non avendo «alcuna comunicazione fra di loro» 26, deliberano, cioè votano. Attraverso il suffragio, si esprimerà un gran numero di differenze, le più cospicue delle quali si elideranno a vicenda: ciò che rimarrà al termine di questo processo sarà la volontà generale.

L’espediente aritmetico non vale però a risolvere la questione: subito dopo, Rousseau avverte che se nel seno dell’assemblea popolare si formano delle «consorterie», vale a dire delle «associazioni particolari», le «differenze si fanno numerose e il risultato ha carattere meno generale» 27. A Rousseau pare difficile, insomma, conseguire l’obiettivo di purgare del tutto la volontà generale dalla volontà particolare, la quale, tendendo «per sua natura al privilegio» 28, giungerà a corrompere ogni processo di concretizzazione della volontà generale, condannandolo al fallimento. Più precisamente ancora: ciò di cui la volontà generale costitutivamente manca sono le condizioni della sua realizzazione, a meno che – ecco l’espressione suprema delle difficoltà di Rousseau – essa non sia soccorsa da un «legislatore», il quale fornisce alla società le sue «norme costitutive» 29, le sue leggi fondamentali, garantendo allo stesso tempo che gli uomini vi obbediscano perché, nel frattempo, avrà provveduto a «cambiare la natura umana» 30, rendendola più rispondente alle manifestazioni della volontà generale.

Ma il paradosso di una volontà generale che deve costantemente ricostruire le condizioni della sua possibilità lo si vede all’opera anche quando Rousseau riflette sul «fine di ogni sistema legislativo» 31: il rafforzamento della libertà e dell’eguaglianza, intese, la prima, come libertà civile, superamento delle dipendenze personali, e, la seconda, come virtuale assenza di dominio (il «potere […] non deve giungere a nessuna violenza e deve sempre esercitarsi sulla sola base del grado e delle leggi» 32) ed eguaglianza materiale («nessun cittadino deve essere abbastanza ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da esser costretto a vendersi» 33). Ciò che funge da presupposto alla stessa sottoscrizione del patto sociale, la libertà e l’eguaglianza dei contraenti, deve essere assunto dalla comunità politica come suo obiettivo ultimo.

L’astrazione e la purezza della volontà generale e del suo esercizio, la sovranità stessa, ne spiegano i caratteri «teologico-politici»: inalienabilità, indivisibilità, perfezione. Ai quali va aggiunta l’irrappresentabilità:

i deputati del popolo non possono essere i suoi rappresentanti, sono solo i suoi commissari: non possono concludere niente in modo definitivo. Qualunque legge non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla; non è una legge. Il popolo inglese si crede libero, ma è in grave errore; è libero solo durante l’elezione dei membri del parlamento; appena avvenuta l’elezione, è schiavo; è niente 34.

La buona salute del corpo politico non dipende però solo dall’espressione della volontà appartenente all’assemblea popolare. Alla volontà, come Rousseau argomenta nel III libro del Contratto, deve essere associata una forza in grado di muovere il corpo politico. Il motore della sovranità deve essere affiancato da quello del governo, del potere esecutivo. Diversi saranno anzitutto gli atti dell’una e dell’altro: mentre l’assemblea popolare emana leggi, il prodotto della deliberazione del popolo su tutto il popolo, qualcosa di astratto e generale, il governo, questo corpo intermedio fra sudditi e sovrano, emanerà decreti, «atti particolari» 35, applica cioè ad oggetti e persone particolari il contenuto della legge. Essendo due atti distinti, con il secondo strettamente subordinato al primo, non «è bene che chi fa le leggi le esegua, né che il corpo del popolo distolga la sua attenzione dalle vedute generali per volgerla agli oggetti particolari» 36. La democrazia è cioè bensì approvata da Rousseau come forma di Stato, ma non come forma di governo e amministrazione, per il rischio che gli interessi particolari dell’attività di governo si comunichino, turbandola, anche all’attività legislativa. La forma di governo migliore è per Rousseau piuttosto l’aristocrazia elettiva, nella quale sono «i più saggi», vale a dire i più meritevoli di «preferenza e pubblica stima» 37, a governare la società.


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Il tarlo della contraddizione fra universalità e particolarità corrode tuttavia il Contratto fino alla fine: per stimolare nei cittadini quei «sentimenti di socievolezza, senza cui è impossibile essere buoni cittadini o sudditi fedeli» 38, il sovrano dovrà fissare gli articoli di una «religione civile», diversa tanto dalla «religione dell’uomo» (limitata al «puro culto interiore del Dio supremo e agli eterni doveri della morale» 39) quanto dalla «religione del prete», la religione «dei Lama, dei Giapponesi, del Cristianesimo romano», la quale, «dando agli uomini due legislazioni, due capi, due patrie, li sottomette a doveri contraddittori mettendoli nell’impossibilità di essere a un tempo devoti e cittadini» 40. La «religione civile» tenterà di eliminare questa contraddizione formulando dogmi così semplici da evitare che nel seno della comunità politica si radichi la mala pianta dell’intolleranza.
NOTE

1 C. Robespierre, Memorie sui miei fratelli, ed. it. a cura di D. Galateria, Sellerio, Palermo 1989, pp. 95-96.

2 Uno di questi «dettagli» è l’abbandono dei cinque figli all’orfanotrofio.

3 F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, tr. it. di S. Brilli Cattarini, Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 38-39.

4 C.L.R. James, I giacobini neri: la prima rivolta contro l’uomo bianco, tr. it. di R. Petrillo, DeriveApprodi, Roma 2006, p. 183.

5 F. Nietzsche, La nascita della tragedia: considerazioni inattuali, in G. Colli, M. Montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1972, vol. 3, tomo 1, p. 394.

6 Id., Crepuscolo degli idoli, in G. Colli, M. Montinari (ed. a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, cit., vol. 6, tomo 3, p. 149.

7 Pubblicato nel 1762, come estratto da un’opera più ampia, presumibilmente quelle Istituzioni politiche su cui Rousseau era andato meditando fin dal soggiorno veneziano del 1743-44 (Cfr. J.-J. Rousseau, Le confessioni, tr. it. di M. Rago, Einaudi, Torino 1978, pp. 444-445). Il trattato fu condannato prima dal parlamento di Parigi e poi, nel giugno 1762, dal governo di Ginevra, il quale ne decretò, insieme all’Emilio, il rogo.

8 Id., Il contratto sociale, in M. Garin (a cura di), Scritti politici, Laterza, Roma-Bari 1994, vol. 2, p. 83.

9 Id., Lettere dalla montagna, in ivi, vol. 3, p. 6.

10 Ibidem.

11 Id., Il contratto sociale, cit., p. 91.

12 Ivi, p. 93.

13 Ivi, p. 94.

14 Ivi, p. 108.

15 Ivi, p. 97.

16 Ivi, p. 96. Rousseau lo ribadisce più diffusamente avanti, nel IV capitolo del II libro del Contratto (intitolato giustappunto «Dei limiti del potere sovrano»).

17 Ibidem.

18 Ibidem.

19 Ivi, p. 111.

20 Ivi, p. 101.

21 Ibidem.

22 Ivi, p. 166.

23 Ivi, p. 104.

24 M. Reale, Le ragioni della politica, Ateneo, Roma 1983, pp. 447-448.

25 J.-J. Rousseau, Discorso sull’economia politica, in M. Garin (a cura di), Scritti politici, cit., vol. 1, p. 284.

26 Id., Il contratto sociale, cit., p. 104.

27 Ivi, pp. 104-105.

28 Ivi, p. 101.

29 Ivi, p. 114.

30 Ivi, p. 115.

31 Ivi, p. 125.

32 Ibidem.

33 Ibidem.

34 Ivi, p. 163.

35 Ivi, p. 130.

36 Ivi, p. 139.

37 Ivi, p. 141.

38 Ivi, p. 203.

39 Ivi, p. 199.

40 Ibidem.

(31 marzo 2020)

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