#IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Democrazia e educazione’ di John Dewey presentato da Axel Honneth

Axel Honneth

 
In tempi in cui si giunge a cancellare dagli esami di maturità il tema di storia – considerato evidentemente inutile e obsoleto – rileggere questo classico della pedagogia diventa urgente. In questo testo il filosofo statunitense si interroga circa il fine principale che l’educazione deve perseguire nelle società democratiche e la risposta è chiara: formare i futuri cittadini. Un obiettivo che può essere garantito solo attraverso un sistema di asili, scuole e università pubbliche. E in cui si torni a studiare la storia.

Non è certo esagerato affermare che lo scritto Democrazia e educazione occupa un posto di assoluto rilievo nell’insieme della produzione di John Dewey. Scritto nel 1916, nel bel mezzo della prima guerra mondiale, questo libro non soltanto è divenuto presto un classico indiscusso della pedagogia, e lo è rimasto fino ai nostri giorni, ma offre anche il migliore sguardo d’insieme sul pensiero filosofico del suo autore 1. John Dewey era convinto che i problemi dell’educazione possono essere chiariti solo assieme alle domande filosofiche fondamentali. Questo convincimento discendeva da una premessa di fondo, che egli non si è mai stancato di ripetere: l’impresa educativa coincide, in ultima istanza, con le richieste autentiche della filosofia, perché quest’ultima deve sempre sforzarsi di esplorare quali sono le vie più intelligenti per padroneggiare i problemi della vita. Per questo l’educazione è sempre la chiarificazione dei metodi più idonei a emanciparsi dalla mera convenzione e dagli impulsi naturali.

Il libro comincia secondo i canoni tipici di un testo introduttivo: esso delinea inizialmente il modo in cui ciò che comunemente definiamo «educazione» sia ancorato in profondità nel processo di vita umano. Tutti gli esseri viventi devono provvedere a mantenersi – così Dewey imposta il suo ragionamento – attraverso continui nuovi adattamenti, in uno scambio costante con l’ambiente circostante. Nel caso delle società umane questo processo di continuo rinnovamento e riadattamento si manifesta in una forma più complessa: qui le strategie di sopravvivenza, una volta apprese, possono essere migliorate attraverso la comunicazione tra i membri della società, e poi conservate in modo duraturo tramite usi, costumi e istituzioni. L’«educazione» è quindi il processo, necessario per ogni società, attraverso cui pratiche, convinzioni e orientamenti di valore, una volta appresi, vengono trasmessi alle generazioni seguenti, venute al mondo senza conoscenza. Il mezzo attraverso cui questa trasmissione culturale è realizzata è la «comunicazione», cioè un comunicare e un condividere esperienze, fino al punto in cui queste diventano un patrimonio comune. In questo senso, l’«educazione» è sempre, a prescindere dal modo formale in cui è organizzata, un processo comunicativo che deve aiutare a impadronirsi di esperienze fatte in precedenza. Quando, nel corso del progresso della civilizzazione, aumenta la complessità del sapere e del potere a disposizione delle società, diventa sempre più pressante la questione dei modi in cui i processi richiesti dall’educazione possano essere organizzati in modo sensato ed efficace. Quanto fino a quel punto era proceduto in modo piuttosto abitudinario deve progressivamente essere inteso come un compito risolvibile solo socialmente, poiché la mole di ciò che deve essere appreso è divenuta troppo grande per potere essere ancora veicolata in un contatto quotidiano e diretto con le nuove generazioni.

Prima di poter rispondere direttamente alla domanda circa il modo in cui questo compito possa essere adeguatamente fronteggiato in società complesse come quelle moderne, Dewey si vede costretto a chiarire ulteriormente quali funzioni del processo di educazione questo stesso compito deve assolvere. Fino a questo momento, in effetti, noi sappiamo soltanto che l’educazione deve comunicare alle nuove generazioni le esperienze che le generazioni precedenti hanno fatto nel processo di adattamento intelligente all’ambiente; non sappiamo ancora, però, quali fini generali l’educazione deve perseguire. Dewey scorge allora un nesso interno tra l’educazione, di qualsiasi tipo, e due fini fondamentali: in primo luogo essa deve provvedere, con l’aiuto di stimoli positivi, a far sì che i bambini imparino a collegare i loro impulsi e le loro pulsioni naturali a compiti socialmente desiderabili, per potere poi sviluppare in questo modo «un senso sociale delle proprie capacità» 2; in secondo luogo – e qui Dewey ricade in un linguaggio più marcatamente normativo – ogni educazione deve mirare a risvegliare nel bambino quelle capacità e quegli interessi che sono adatti a produrre, a propria volta, risorse per futuri processi di apprendimento. Non la liberazione di talenti e di predisposizioni già presuntivamente presenti, quindi, ma la formazione di un’abilità a sviluppare capacità sempre più ampie: questo rappresenta per Dewey uno dei compiti essenziali dell’educazione 3.

Solo dopo aver delineato, in queste riflessioni preliminari, in cosa deve consistere lo scopo e il metodo di ogni educazione, Dewey può volgersi all’intenzione più propria del suo scritto, già annunciata dal titolo: ciò che gli preme non è soltanto chiarire in termini filosofici in cosa consista la prestazione specifica di una «buona» educazione; egli vuole offrire, piuttosto, un contributo di principio riguardo alla questione scottante del modo in cui le società democratiche possono affrontare, in modo migliore e più efficace, il compito sempre più difficile dell’educazione pubblica. Gli standard e i metodi dell’educazione, pone in evidenza Dewey, variano chiaramente in relazione alla qualità della vita di una comunità sociale; questa qualità, tuttavia, non è misurabile per mezzo di meri criteri «esterni» o di ideali normativi meramente applicabili, ma alla luce di ciò che contribuisce a far fiorire le proprietà che permeano in modo costitutivo ogni vita sociale 4. Dewey è certo che, se ci si domanda quali sono questi tratti «costitutivi» delle comunità sociali, sia possibile fissare due caratteristiche fondamentali: tutte le comunità sociali devono poter comprendere alcuni interessi dei suoi membri come richieste comuni e tutte devono assicurare un certo grado di interazione e di relazioni di cooperazione con altri gruppi. È muovendo da questi due tratti, quindi, che Dewey sviluppa quegli standard «interni» che permettono di misurare la qualità della vita delle comunità sociali: queste ultime sono tanto «migliori», «ricche di valore» o «vitali», quanto più numerosi e molteplici sono gli interessi condivisi tra i loro membri, e quanto più le comunicazioni con gli altri gruppi possono compiersi in modo non coatto, produttivo e libero.

La conclusione che Dewey ritiene di poter trarre da questa argomentazione è che le società organizzate democraticamente sono superiori, dal punto di vista normativo, a tutte le altre formazioni sociali: includendo tutti i propri membri nella ricerca delle decisioni, infatti, lasciano partecipare ogni singolo agli interessi dell’altro e non possiedono argomenti a favore della chiusura nei confronti di altri gruppi. Secondo un esempio a cui Dewey ricorre volentieri, le società democratiche si distinguono da bande criminali che, con i loro scopi malavitosi, permettono l’articolazione soltanto di pochi interessi comuni e devono evitare il contatto con altre comunità 5.

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Se si è seguito Dewey fino a questo punto, e se si sono ritenute plausibili le sue tesi, ossia che le società democratiche sono superiori ad altre società perché concedono uno spazio più ampio all’individualizzazione, promuovono la formazione di interessi comuni e, da ultimo, permettono lo sviluppo di rapporti internazionali, allora si può capire perché, da questo momento
in poi, egli delimiti la sua problematica. Dopo aver specificato in cosa consista la «desiderabilità» della democrazia, Dewey si concentra esclusivamente sulla questione dei metodi, della materia e degli scopi dell’educazione nel quadro di società democratiche – e solo a questo punto egli giunge a tematizzare ciò a cui rimanda il titolo del libro: ossia che l’educazione, nelle democrazie, deve essere organizzata in modo efficace e ricco di senso.

Il punto di avvio delle riflessioni così impostate non è altro che la domanda circa i fini o gli scopi più elevati che l’educazione deve perseguire nelle società democratiche. Noi abbiamo già sentito qual è il fine di ogni educazione, anche a prescindere dal suo quadro sociale; ora però deve essere precisato che cosa questo significhi per lo specifico contesto delle comunità sociali costituite in termini democratici. Il modo in cui Dewey risponde a questa domanda dimostra come egli sia rimasto per tutta la vita un hegeliano: egli confronta, infatti, tra loro, tre risposte apparentemente opposte, provenienti da concezioni pedagogiche a lui contemporanee, e opera poi una reinterpretazione del loro significato, per mostrare come esse si possano integrare produttivamente.

Una prima concezione contemporanea è quella secondo cui l’educazione deve mirare a liberare le disposizioni naturali; una seconda sostiene che l’educazione deve produrre un sapere e un potere utili socialmente; una terza, infine, che l’educazione deve rendere possibile il perfezionamento spirituale e culturale delle singole personalità. Dewey tenta di mostrare, quindi, che la prima idea può implicare la promozione di disposizioni naturali utili socialmente; che l’utilità sociale, contenuta nella seconda idea, va interpretata nel senso di una partecipazione non coatta alle attività comuni; infine, che la terza idea rinvia al fatto che il perfezionamento spirituale significa lo sviluppo comunicativo delle proprie forze. In questo modo, quindi, le tre idee si riescono a completare nel migliore dei modi: l’educazione, in un contesto democratico, per Dewey, deve significare promuovere e sviluppare quei talenti delle giovani generazioni, dei quali siamo certi che un domani potranno essere utili socialmente, e renderanno possibile una partecipazione non coatta alla comunicazione della società. Per Dewey è certo che questo tipo di educazione può essere garantito solo attraverso un sistema, sostenuto dallo Stato, di asili, scuole e università pubbliche 6. Questa convinzione scaturisce dalla sua concezione dei presupposti culturali della democrazia e dalla sua avversione nei confronti di concessioni a scuole private, che rappresentano esclusivamente determinate visioni del mondo o determinate religioni. Se il compito dell’educazione democratica deve essere quello di rendere possibile a ogni giovane la futura partecipazione alla comunicazione sociale, allora gli studenti e le studentesse devono fin da subito essere messi in contatto con tutte le sfere sociali, i gruppi e le visioni del mondo, al fine di prevenire il pericolo di un autoisolamento o di un indurimento ideologico: un irrigidimento sulla propria visione del mondo, una chiusura nei confronti di visioni alternative, impedirebbe infatti ai membri della società di mettersi nei panni dei loro concittadini, di comprendere gli interessi e le prospettive altrui, e di sforzarsi di creare con gli altri forme di comunione.

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Per Dewey, però, ciò che vale per i presupposti istituzionali dei vari indirizzi scolastici, deve valere anche per i metodi d’insegnamento: anche questi devono mirare, in ultima istanza, a formare i futuri cittadini, predisponendo le basi per l’apprendimento metodico di una pratica di ricerca cooperativa. Le riflessioni dedicate a questo importante tema sono suddivise da Dewey sostanzialmente in due parti, che si focalizzano su aspetti diversi di ciò che per lui significa l’«apprendimento».

In un primo passaggio, egli si occupa delle attività mentali necessarie ad appropriarsi di un sapere o di un potere già esistenti; questi processi di apprendimento possono compiersi solo facendo sì che il bambino comprenda da sé progressivamente, nell’oggetto o nella materia appresi, le esperienze che si sono dovute compiere per giungere a siffatte oggettivazioni dei successi conseguiti nel padroneggiamento dei problemi; la lezione non deve quindi essere in alcun modo «formale» o «meccanica», ossia non deve mirare alla comunicazione o alla trasmissione astratta delle materie, prescindendo dall’attiva partecipazione e comprensione dei bambini 7. Nel secondo passaggio della sua trattazione sui metodi di apprendimento che devono essere impiegati durante la lezione, Dewey si volge al lato pratico dell’appropriazione del sapere: secondo il filosofo statunitense, la comprensione mentale delle esperienze già fatte deve attuarsi, per quanto possibile, nella forma di un rapporto giocoso con le materie e i temi trattati. Se il compito che deve essere di volta in volta risolto diventa troppo difficile, e si richiede dal bambino un’attenzione troppo alta sul risultato da ottenere, si supera la soglia oltre la quale è collocato il «lavoro» in quanto attività concentrata e finalizzata 8. I processi di apprendimento mentali, durante la lezione a scuola o all’università, devono mirare, quindi, più all’apprendimento cooperativo e alla ricerca comunicativa, che a una prestazione individuale o a un lavoro isolato, come invece veniva privilegiato dalla pedagogia tradizionale. Infatti, l’intelligenza umana è liberata e dispiegata pienamente solo là dove i problemi vengono superati assieme – come nel lavoro o nella sfera pubblica, dove le proposte di soluzione dell’uno arricchiscono e integrano le idee dell’altro.

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Alla luce delle prospettive odierne, il passaggio forse più ardito e sorprendente che Dewey compie nelle sue osservazioni sugli scopi, i metodi e la materia dell’educazione democratica è quello che fa quando giunge a parlare del valore delle singole materie di lezione. Da lungo tempo, in questo contesto, siamo abituati ad assegnare il primo posto a materie come scienze naturali e lingue; secondo un’opinione consolidata, infatti, sono queste a trasmettere in via privilegiata, agli studenti e alle studentesse, quello di cui avranno bisogno nel loro futuro percorso professionale e privato. In una prospettiva ben più orientata al fine della formazione di cittadini capaci di cooperare e dotati della volontà di farlo, Dewey giunge invece a una valutazione assai diversa. Per lui, il valore di una singola materia scolastica va misurato per mezzo del seguente criterio: bisogna valutare se e in che modo la materia in questione contribuisce ad ampliare, in termini spaziali e temporali, il significato delle esperienze fatte a lezione, per preparare agli scambi e alle comunicazioni future con i cittadini e le cittadine. Alla luce di questo parametro di misura, quindi, non devono essere privilegiate le scienze naturali e le lingue, ma la geografia e la storia. Infatti, la prima rende possibile spostarsi con l’immaginazione dal proprio luogo di origine e apprendere a scoprire spazi geografici sempre più ampi: in questo modo, può servire a sviluppare progressivamente il nostro ambiente circostante naturale. La seconda rende progressivamente capaci di ricostruire, in modo sempre più ricco e profondo, i passaggi intellettuali, politici ed economici, che insieme ci hanno portato a divenire cittadini democratici 9.


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Con queste osservazioni sulla necessità di invertire la consueta gerarchia delle materie scolastiche, Dewey non è ancora giunto alla conclusione del suo studio; seguono alcune osservazioni sugli scopi educativi delle materie naturali e umanistiche e sull’inclusione dell’educazione nel nostro intero rapporto con il mondo. Si tratta, tuttavia, di osservazioni che non posseggono la brillantezza degli accenni e delle conclusioni riassunti fino a questo punto. Ciò che Dewey ha trattato in queste prime 250 pagine riguardo alla funzione, al metodo e alla materia dell’educazione democratica rende del tutto evidente che, dopo un secolo e mezzo, il suo libro Democrazia e educazione non ha perduto nulla della sua attualità e del suo acume.

(traduzione di Giorgio Fazio)
NOTE

1 Cfr. su questo S. Cook, Introduction, in J. Dewey, Democracy and Education, Middle Works, Carbondale/Ill. 2008, vol. 9, pp. IX-XXIV.

2 Ivi, p. 44 ss.

3 Ivi, p. 73 ss.

4 «Il problema è di estrarre i tratti desiderabili delle forme di comunità di vita che esistono effettivamente e impiegarli per criticare i tratti indesiderabili e suggerirne il miglioramento». Ivi, p. 88 e ss.

5 Ivi, p. 87 ss.

6 Ivi, p. 99 ss.

7 Ivi, cap. 13.

8 Ivi, cap. 15.

9 Ivi, cap. 16.
(3 aprile 2020)
#IORESTOACASA E LEGGO/GUARDO UN CLASSICO

3 aprile –








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