IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Il rasoio di Occam’ presentato da Alessandro Barbero
Alessandro Barbero
Quella che state per leggere è la recensione di un libro che non esiste, ma che uno specialista di filosofia medievale potrebbe un giorno creare, ritagliando un percorso nei 17 volumi delle opere filosofiche e teologiche del francescano trecentesco Guglielmo di Occam. Di più: la frase che rappresenta il nocciolo del celebre rasoio – ‘Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem’, che si può tradurre come ‘l’ipotesi più economica è sempre da preferire’ – non si trova neppure nelle sue opere. È la logica tagliente con cui sfrondava i postulati dei filosofi ad aver indotto i posteri a creare questa immagine, così potente e sovversiva che basta da sola a spalancare un mondo.
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Sgombriamo subito il campo da un equivoco: Occam, come lo chiameremo seguendo la grafia latina medievale che per lui sarebbe stata ovvia (e con buona pace degli attuali 410 abitanti del villaggio di Ockham nel Surrey, suo paese natale), in vita sua s’è occupato di un’infinità di cose, e sarebbe molto sorpreso di vedersi identificato con quella frase, che non si trova neppure nelle sue opere. Era un professore di Oxford in un’epoca in cui gli intellettuali europei discutevano di problemi così complessi che in confronto le astrusità della critica letteraria attuale sono giochi da bambini, e le discussioni avvenivano fra gente così sottile che Derrida o Althusser avrebbero fatto fatica a seguirle. Era un francescano di sinistra in un’epoca, il papato di Giovanni XXII, in cui chi decideva di metterci la faccia rischiava grosso: Occam ci mise la faccia, e finì la sua vita sotto la protezione dell’imperatore in Germania, dove il papa non poteva mettergli le mani addosso. Non è difficile capire come mai Umberto Eco chiamò Guglielmo lo Sherlock Holmes francescano del Nome della rosa, tanto che ormai quando si pensa a Guglielmo di Occam finisce per venire in mente Sean Connery (e continuerà a venire in mente anche in futuro, non ce ne voglia John Turturro).
Prima di Occam, molti uomini intelligenti avevano deciso che se Dio ha dato all’uomo la ragione, è per usarla. Ne conseguiva che il Creato è razionale e comprensibile, e che l’uomo deve indagarlo e scoprirne le regole e la logica. Ovviamente ne conseguiva anche che né in Dio, né nella sua creazione ci sono da nessuna parte angoli bui, misteri incomprensibili, verità nascoste che solo l’illuminazione può rivelare. Tutta questa robaccia sembrava, giustamente, spazzatura a un’epoca profondamente razionale e ottimista come il Basso Medioevo, e ai più razionali dei suoi abitanti, i domenicani, come frate Tommaso d’Aquino, professore alla Sorbona. Che Guglielmo di Occam non fosse un domenicano, ma un francescano, aiuta già a capire come mai non fosse del tutto d’accordo: domenicani e francescani si volevano bene come cani e gatti. Ma forse aiuta anche il fatto che Guglielmo nacque alla fine del Duecento, quando i secoli di crescita economica che avevano alimentato l’ottimismo medievale si stavano esaurendo; ed era studente a Oxford negli anni della grande carestia, fra il 1315 e il 1317, quando in un’Europa sovrappopolata la gente cominciò, per la prima volta a memoria d’uomo, a morire di fame per le strade, mentre la gita del papa ad Avignone si prolungava in modo inquietante e i cristiani, cioè tutti, si chiedevano cosa stesse succedendo in questo mondo.
E così Guglielmo di Occam, che non era meno intelligente di Tommaso d’Aquino, si convinse che il mondo non è affatto razionale; che Dio non l’ha creato con la ragione, ma con la volontà; che l’intelligenza umana non può spiegare il creato, ma serve soltanto a illuminare la strada individuale di ciascuno. Si convinse anche di molte altre cose: che i papi sbagliavano a sostenere che solo la Chiesa può governare il mondo, e che dev’essere invece l’imperatore, cioè lo Stato, a farlo; purché, beninteso, sia al servizio del popolo, altrimenti diventa un tiranno e bisogna ribellarsi contro di lui (su questo, peraltro, era d’accordo anche san Tommaso). E si convinse che generazioni di uomini intelligenti, cercando di costruire un modello razionale del mondo, avevano perso il contatto con la realtà, e avevano cominciato a inventare, introducendo ogni sorta di concetti astratti e universali, mentre la realtà è fatta soltanto di cose individuali e concrete (ma non è colpa sua se un giorno Margaret Thatcher applicherà lo stesso principio in modo perverso, dichiarando «There is no such thing as society. There are individual men and women»).
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Proprio la logica tagliente con cui sfrondava i postulati dei filosofi ha indotto i posteri a creare l’immagine del «rasoio» di Occam, che, inutile dirlo, non è stata inventata da lui (si comincia a usarla solo nel XVII secolo). Nemmeno il concetto per cui gli enti non debbono essere moltiplicati se non ce n’è bisogno è una sua invenzione; una formulazione analoga era già stata usata da un altro professore francescano, Duns Scoto: Pluralitas non est ponenda sine necessitate, non bisogna postulare una pluralità a meno che non sia indispensabile. Occam non operava nel vuoto, ma in un contesto straordinariamente fitto di scambi intellettuali; il principio, però, è rimasto legato a lui, che ne ha fatto l’uso più devastante.
Come a volte capita, la formulazione ha acquistato per i posteri un significato che va ben al di là del contesto specifico in cui venne escogitata: la polemica, cioè, contro l’introduzione di concetti esclusivamente intellettuali (di Begriffi, avrebbe detto don Benedetto Croce parodiando la filosofia tedesca), i quali non trovavano riscontro nella realtà. Oggi il rasoio di Occam non ha più a che fare con la teologia, ma con la validità delle teorie scientifiche e con la teoria della probabilità. In questo senso la formulazione più efficace, fra quelle che effettivamente si trovano nelle opere di Occam, può essere questa: frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora, è sbagliato arrivare a un risultato con argomentazioni tortuose quando ci si può arrivare in modo più lineare. Un’interpretazione moderna potrebbe suonare così: le soluzioni più semplici hanno maggiori probabilità di essere corrette, rispetto a quelle più complicate.
E dunque per noi oggi il rasoio di Occam è un attrezzo rimasto assai tagliente, anche se non siamo più impegnati nella disputa degli universali (ricordate? Il cavallo, senza dubbio, esiste; ma questo significa solo che esistono innumerevoli cavalli individuali o che nella mente di Dio esiste il cavallo universale, la cavallinità?). È l’attrezzo da impiegare quando nella ricerca – penso al mio campo, la storia, dove non c’è risultato che non nasca dall’intreccio ben dosato di fatti e di ipotesi – si comincia col proporre un’ipotesi, poi, senza averla dimostrata, la si trasforma in un postulato, al postulato si aggiunge ancora un’altra ipotesi e così via. Eh no, a un certo punto bisogna tagliare! Ma lo stesso avviene in campo giudiziario, quando si costruiscono teoremi accusatori basati su ipotesi indimostrate che sembrano sostenersi a vicenda; magari perché sembra impossibile che i brigatisti rossi abbiano potuto concepire e attuare da soli il rapimento di Moro, e allora si ipotizza che qualcuno li abbia aiutati, e quando si formula un’ipotesi qualunque, ecco che i fatti arrivano subito in soccorso: ti sei messo in testa, per esempio, che ad aiutare i brigatisti siano stati i servizi segreti della Ddr, e subito qualcuno ricorda di aver sentito parlare tedesco quel mattino in via Fani.
Nella pratica quotidiana il principio del rasoio viene riformulato anche in termini che possono sembrare filistei: non complicare ciò che è semplice. Ma non si tratta di banale buon senso. Si tratta di accettare che mentre la realtà è molto complessa e in larga misura inconoscibile (e qui mi par di vedere Guglielmo di Occam che annuisce), e le cause di ogni avvenimento sono molte e interagiscono fra loro in molti modi, non bisogna però introdurre dei misteri anche là dove non ci sono. Supporre che l’uomo non sia mai andato sulla Luna, e che ci sia un complotto
della Nasa per farcelo credere, significa introdurre una soluzione inutilmente complicata, e postulare un gran numero di fattori segreti e indimostrati per spiegare ciò che senza quei fattori si spiegava già benissimo da sé. Sia chiaro: non appena anche solo un dato suggerisce con forza una soluzione non ortodossa, è necessario indagarlo e seguire la pista fino in fondo; quel che non bisogna fare è inventarsi il dato a tutti i costi, come fanno quelli che negano l’esistenza delle camere a gas sulla base di ragionamenti pseudoscientifici sul comportamento dello Zyklon B, ignorando l’immensa mole di dati accertati che già dimostrano il contrario.
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Ma è nel campo scientifico che il rasoio di Occam è diventato uno dei princìpi basilari della conoscenza moderna. Non, cioè, un attrezzo polemico da impiegare quando ci si accorge che qualcun altro sta partendo per la tangente, ma un principio operativo accettato da tutti e che informa la mentalità stessa del ricercatore. Perché la modernità di Occam sta nel fatto che lui sta parlando di ipotesi, e l’ipotesi è l’alfa e l’omega della ricerca scientifica moderna. Nessuno oggi, in campo fisico o matematico, pensa che sia possibile raggiungere una qualche verità. Si procede per problemi e soluzioni, formulando ipotesi che cerchino di tenere insieme tutti i dati sperimentali disponibili. Se la formulazione a cui arriviamo è un’ipotesi, è implicito che prima o poi se ne potrà proporre un’altra; ma mentre nel campo delle scienze sociali, spiace dirlo, si usa formulare ipotesi nuove senza preoccuparsi di verificare se siano più economiche di quelle finora correnti, come se escogitare nuove soluzioni fosse un fine in sé e comunque un esercizio sempre rimunerativo, le scienze dure procedono con ben altro rigore. Un’ipotesi finora accettata può essere sostituita solo quando se ne formula una più economica: che, cioè, tiene insieme tutti i dati con un minor numero di collegamenti e ricorrendo in minore misura a postulati indimostrati.
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E questo, il lettore se ne sarà accorto, non è altro che il principio di Duns Scoto e di Occam. L’ipotesi più economica è sempre da preferire, entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. È questo, credo, che i fisici o i matematici intendono quando parlano dell’eleganza di una teoria: espressione un po’ infelice, perché alle orecchie del profano introduce un’apparenza di frivolezza, mentre qui siamo alla sostanza stessa del progresso scientifico così come è stato inteso nel Novecento. Il che significa anche, ovviamente, che il principio del rasoio guida la ricerca non perché la sua auctoritas sia indiscutibile (sebbene alcuni scienziati abbiano espresso il timore che la comunità scientifica vi aderisca ormai in modo automatico 1) ma perché l’esperienza dimostra che funziona. L’ipotesi più semplice è da preferire a quella più complicata, a parità di tutti gli altri fattori, non perché Guglielmo di Occam fosse un oracolo infallibile come Guglielmo da Baskerville, ma perché è più facile da testare e falsificare (cioè è più facile immaginare l’ipotesi opposta e vedere cosa succederebbe adottandola); e perché introducendo meno fattori, ciascuno dei quali soggetto a errore, risulta intrinsecamente più probabile. Ma, beninteso, se invece i dati disponibili suggeriscono che l’ipotesi più complicata è migliore, allora bisogna seguire quella. Dopo tutto l’aveva già detto lo stesso Occam: la pluralità non va postulata nisi per rationem vel experientiam, a meno cioè che il ragionamento o l’esperimento non ci inducano a postularla.
1 R. Hoffman, V.I. Minkin, B.K. Carpenter, «Ockham’s Razor and Chemistry», International Journal for Philosophy of Chemistry, vol. 3, 1997, pp. 3-28, disponibile al seguente link: bit.ly/2ViRAsZ.
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