#IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘L’uomo in rivolta’ di Albert Camus presentato da Paolo Flores d’Arcais
Le recensioni dei libri saranno intervallate anche da consigli cinematografici: per il numero 1/2020, il nostro , MicroMega aveva chiesto ad alcuni fra i più importanti critici cinematografici di dirci quale considerano il ‘film della vita’ e di spiegarci perché. Anche questi testi saranno messi a disposizione dei nostri lettori gratuitamente.
Sartre lo considerava un filosofo dilettante. Eppure la capacità di cogliere con acume le implicazioni e le contraddizioni di un ragionamento, il dono della lucidità e della coerenza rispetto alle premesse, l’originalità nel cogliere nessi tra idee e/o eventi storici lontani, la capacità di smascherare le ipostasi che prendono il posto dei soggetti reali e molteplici, fanno di Camus un filosofo a pieno titolo. Anzi uno dei grandi filosofi del XX secolo.
Nei suoi «Cahiers» Albert Camus scrive: «7 marzo 1951. Terminata la prima redazione di L’uomo in rivolta. Con questo libro si completano i due primi cicli. 37 anni. E ora, la creazione potrà essere libera?» (1105) 1. Con il suo titolo definitivo l’opera appare citata per la prima volta nel giugno 1947, sempre nei «Cahiers», proprio in una nota in cui ribadisce il suo procedere per «cicli»: «1a serie. Assurdo: Lo Straniero – Il mito di Sisifo – Caligula e Il Malinteso. 2a Rivolta: La Peste (e annessi) – L’uomo in rivolta – Kaliayev. 3a Il Giudizio: Il primo uomo. 4a L’amore straziato – La pira – Dell’amore – L’affascinante. 5a Creazione corretta o Il Sistema – grande romanzo+grande meditazione+pièce irrappresentabile» (II, 1084-5). Ma con titoli provvisori o senza alcun titolo il tema è presente si può dire da sempre nella riflessione e nella creazione letteraria di Camus. Già in un articolo del 1932 (a diciannove anni!) dedicato al «poeta della miseria» Jehan Rictus, il tema della rivolta è prepotente: «Studierò innanzitutto i sogni espressi in questo libro fremente di dolore, poi le rivolte e le maledizioni di questo predicatore di rivolta», e in un altro articolo, sempre di quei giorni, a proposito di Verlaine, aveva scritto: «Un uomo come noi, con le sue viltà e le sue rivolte» (I, 519, 516).
Perciò è evidente che quando lavora al suo primo ciclo, quello sull’assurdo, la rivolta è già presente come «soluzione» rispetto al carattere insensato dell’universo e della vita umana che vengono tematizzati in Lo Straniero e nel Mito di Sisifo. «Ciclo», abbiamo detto. Camus infatti lavora volta a volta su ogni tema in parallelo, con un romanzo, un’opera teatrale, un saggio filosofico (al momento della morte in un incidente di macchina, il 4 gennaio 1960, stava lavorando al 3o ciclo, «Il Giudizio», col romanzo Il primo uomo che uscirà postumo incompiuto), senza mai considerare uno di questi tre aspetti prevalente sull’altro, ma anzi semplici espressioni tecnicamente differenziate della medesima vocazione alla scrittura, alla creazione. A questi tre aspetti andrà aggiunto anche il giornalismo, attività per Camus costantemente essenziale, tanto è vero che vorrà rivendicare la sua condizione di «giornalista professionista. […] La professione di giornalista è una delle più belle che io conosca» (III, 880).
Camus non è perciò uno scrittore – romanziere e uomo di teatro – prestato occasionalmente alla filosofia e al giornalismo, ma è filosofo e giornalista altrettanto quanto scrittore, anche quando di filosofo rifiuterà polemicamente l’etichetta (del resto Pascal scriveva: «Farsi beffe della filosofia è fare davvero filosofia» 2). Nel 1945 pubblica, nel volume collettivo L’esistenza, il saggio «Remarque sur la révolte», scritto l’anno precedente, il cui inizio è identico a quello di L’uomo in rivolta: «Chi è un uomo in rivolta? Innanzitutto un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia: è anche un uomo che dice sì».
***
La rivolta ha a che fare con la condizione umana perché «l’uomo è la sola creatura che rifiuta di essere ciò che è», ma Camus è consapevole che «la storia prodigiosa evocata qui è la storia dell’orgoglio europeo» che ha condotto alla «dismisura del nostro tempo» (III, 70). «Il movimento di rivolta non è, nella sua essenza, un movimento egoista» (74), a differenza del risentimento, e «sembra prendere un senso preciso solo all’interno del pensiero occidentale» (77) una volta uscito dall’universo del sacro. Della rivolta Camus fissa anche il «cogito»: «Io mi rivolto, dunque noi siamo» (79).
L’indagine si suddivide in tre parti: la rivolta metafisica, la rivolta storica, rivolta e arte, e si conclude con una quarta parte, il pensiero meridiano, che propone in una sorta di conclusione provvisoria le coordinate del pensiero etico politico camusiano.
Dopo la rivolta contro Dio del dandy, in Milton, Baudelaire, Byron e Shelley, arrivano le pagine dedicate all’Ivan Karamazov di Dostoevskij e a quel «tutto è permesso» (se Dio non esiste) con cui «comincia davvero la storia del nichilismo contemporaneo» (109), che ha in Nietzsche il suo momento pivot con «la divinizzazione della fatalità» (122), «la sottomissione assoluta dell’individuo al divenire» (123), «la predicazione della superumanità che finisce nella fabbricazione sistematica di sotto-uomini» (125) e «il sì nicciano [che] immemore del no originale, rinnega la rivolta stessa» (126) e si inchina «alla totalità dell’esperienza umana» (127), movimento col quale «la volontà di potenza individuale era condannata a inscriversi entro una volontà di potenza totale» (127).
Camus individua a questo punto la possibilità di un’utilizzazione di Nietzsche in chiave marxista, ma a differenza dei nostri metafisici heideggeriani degli anni Sessanta, lo fa stigmatizzando l’elemento metafisico e perciò conformista verso il reale che resterà tabe hegeliana in Marx: «Ben più logici e ambiziosi saranno coloro che, correggendo Nietzsche con Marx, sceglieranno di dire sì solo alla storia e non più alla creazione tutta intera». «La differenza capitale è che Nietzsche, in attesa del superuomo, proponeva di dire sì a ciò che è e Marx a ciò che diviene» (128), con il che «la rivolta, nella sua follia di libertà, conclude nel cesarismo biologico o storico» (129). E con ciò siamo alla rivolta storica.
Mentre il marxismo santificherà come antecedenti Rousseau (il marxismo migliore) e Hegel (quello peggiore), Camus, con la sicurezza e la lucidità del bisturi del grande chirurgo, padroneggia perfettamente i momenti contraddittori essenziali e i cortocircuiti ineludibili tra teorie e prassi rivoluzionarie.
«Con il Contratto sociale assistiamo alla nascita di una mistica, poiché la volontà generale è postulata come Dio in persona» (158), e «la divinizzazione è completata quando Rousseau, separando il sovrano dalle sue stesse origini, arriva a distinguere la volontà generale e la volontà di tutti» (159), ipostatizza cioè in Uno la molteplicità irriducibile dei cittadini sovrani. Con acume filosofico interdetto a ogni hegelo-marxismo, Camus evidenzia che «questa nozione mistica giustifica il silenzio di Saint-Just dopo il suo arresto e fino al patibolo. Sviluppata adeguatamente spiegherà altrettanto bene gli entusiasti accusati dei processi staliniani» (160).
L’ipostasi della Volontà Una divora la rivoluzione. «Chi sono i faziosi? Quanti con la loro stessa attività negano l’unità necessaria. La fazione divide il sovrano. È dunque blasfema e criminale» (166), «chi critica è un traditore» (168), e «la passione dell’unità» (167) «all’interno di questo delirio logico» (168) trasforma il patibolo in libertà. Sia chiaro: «Per adorare a lungo un teorema la fede non basta, diviene necessaria anche una polizia» (164). L’Uno che nega la pluralità, la rivolta che si distrugge in Ipostasi, mentre Hannah Arendt ricorderà che «non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra» 3. Non sarà perciò un caso se la Arendt, di passaggio il 21 aprile 1952, manda a Camus questo biglietto da visita: «Sono a Parigi per qualche settimana e amerei molto vederla, se si potesse fare senza disturbarla. Ho letto L’uomo in rivolta che amo molto. A dire il vero è anzi la sola ragione di questo biglietto. Con la più viva cordialità» (III, 1226).
Saint-Just, che incarnerà totalmente la logica dell’Uno, e proclamerà «non appartengo a nessuna fazione, le combatterò tutte» (170-1), accetterà il giudizio dell’Assemblea che lo condanna, in quanto unica possibile incarnazione della Volontà Generale, questo surrogato di Dio: ogni voto è un’ordalia, alla lettera.
Con Hegel «la verità, la ragione e la giustizia si sono bruscamente incarnati nel divenire del mondo» (175) e il suo «il panlogismo è una giustificazione dello stato di fatto» (176): «La nuda forza deciderà della divinità o meno dell’uomo» (176). «Il vincitore ha sempre ragione, sta qui una delle lezioni che si possono trarre dal più grande sistema tedesco del XIX secolo» (177). L’essenziale di Hegel colto nel misticismo logico che si rovescia nell’acritica adesione al conforme del successo: Dio è con chi vince, Dio è chi vince. Per cui, altrettanto lucidamente «non si capisce il pensiero rivoluzionario del XX secolo se si trascura il fatto che per una ventura infelice ha attinto gran parte della propria ispirazione da una filosofia del conformismo e dell’opportunismo» (187).
***
Dobbiamo trascurare pagine altrettanto acute su Mussolini, Hitler e Ernst Jünger (altra figura che affattura la nostra filosofia post-heideggeriana «di sinistra») e arrivare a Marx e al suo «messianismo scientifico» (226), un hegelismo proiettato nel futuro: «La dialettica è considerata dalla prospettiva della produzione e del lavoro, invece che dalla prospettiva dello spirito» (230), per cui «la posizione di Marx dovrebbe essere più esattamente definita un determinismo storico» (231) anziché un materialismo storico. Che lo rende incapace di immaginare che la soppressione dell’antagonismo proletariato/borghesia possa dar vita «a un ulteriore antagonismo sociale». «Ma l’essenziale della profezia marxista si regge proprio su questa» presunta impossibilità (234).
«L’utopia sostituisce Dio con l’avvenire. Identifica allora l’avvenire e la morale; il solo valore è ciò che è utile per questo avvenire» (240) ma «la sofferenza non è mai provvisoria per chi non creda all’avvenire» (239). Di contro al «proletariato» filosofico Camus vuole invece «dare fiducia alla libertà e alla spontaneità operaia» (248), e vede nella «Comune di Parigi, [l’]ultimo rifugio della rivoluzione come rivolta» (248). Con Lenin si pongono infine le premesse dei futuri processi staliniani, dove l’accusato deve riconoscere che la sua morte è storicamente giusta: «La sola rivoluzione psicologica che il nostro tempo abbia conosciuto dopo quella di Freud, è stata realizzata dal N.K.V.D e dalle polizie politiche in generale» (267). Infatti «la storia ha giudicato Bucharin poiché l’ha fatto morire. Essa proclama l’innocenza di Stalin: è al culmine della potenza» (269). Infine, di fronte alla Storia (che sostituisce la morale e Dio, 308), l’assuefazione, lo spegnersi dell’indignazione, dunque della rivolta: «Le vittime sono ormai arrivate al culmine della loro disgrazia: annoiano» (300).
***
Camus avanza perciò l’alternativa: «Se la rivolta potesse fondare una filosofia, sarebbe una filosofia dei limiti, dell’ignoranza calcolata e del rischio» (309). Giustizia e libertà devono costituire un’inscindibile endiadi, ma è la libertà a costituire la conditio sine qua non: «Anche quando la giustizia non è realizzata, la libertà preserva il potere della protesta e salva la comunicazione» (311). Siamo agli antipodi di ogni Realpolitik: «Il fine giustifica i mezzi? È possibile. Ma cosa giustificherà il fine? A questa risposta, che il pensiero storico lascia in sospeso, la rivolta risponde: i mezzi» (312). Se la rivoluzione non resta fedele ai suoi ideali, anche al rischio di essere sconfitta, «confesserà di essere solo l’impresa di nuovi padroni» (312). Rosa Luxemburg anziché Lenin, viene (legittimamente) da dire.
«La comune contro lo Stato, la società concreta contro la società assolutista, la libertà consapevole contro la tirannia razionale, l’individualismo altruista infine contro la colonizzazione delle masse, costituiscono le antinomie che traducono, una volta di più, il lungo confronto tra misura e dismisura che anima la storia d’occidente» (317). Camus, esplicitamente, vuole propiziare «un nuovo individualismo. […] Io ho bisogno degli altri che hanno bisogno di me e di ciascun altro. […] Questo individualismo non è godimento, è lotta, sempre, e gioia senza eguali qualche volta, al culmine di un’orgogliosa compassione» (316). La rivolta è misura, anzi «l’intransigenza estenuante della misura» (321), perché concretezza: «Nel suo più grande sforzo l’uomo può solo proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo» (321).
***
Sartre ha considerato Camus un filosofo dilettante. Se facciamo riferimento all’erudizione filosofica, è vero che Camus, che conosce direttame
nte molti autori importanti, altrettanti li conosce solo attraverso «studi su…», in genere molto buoni, ma è pur sempre una conoscenza di seconda mano. Se intendiamo invece la capacità di cogliere con acutezza l’essenziale di una posizione o di un ragionamento, le sue implicazioni, le sue contraddizioni, il dono della lucidità e della coerenza rispetto alle premesse, l’originalità nel cogliere nessi tra idee e/o eventi storici lontani, la forza nello sviluppare le conseguenze teoriche e pratiche di un’assunzione di valore, la capacità di smascherare i meccanismi fondamentali e ricorrenti della «passione per il sapere» che si capovolge nella «passione per il conformismo» e per la consolazione, evidenziando e smontando le ipostasi che prendono il posto dei soggetti reali e molteplici, Camus è assolutamente un filosofo, uno dei grandi filosofi del XX secolo, anzi.
1 Tutti i numeri di pagina senza altra indicazione si riferiscono al volume IV delle Œuvres complètes di Albert Camus, collana «La Pleiàde», Gallimard, Paris 2006-2008. Le citazioni dagli altri volumi sono precedute dalla numerazione romanica corrispondente.
2 B. Pascal, I pensieri, n. 4 dell’edizione Brunschvicg.
MicroMega rimane a disposizione dei titolari di copyright che non fosse riuscita a raggiungere.