#IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Manuale’ di Epitteto presentato da Michele Martelli
Michele Martelli
Notizie sull’autore e lo stoicismo romano
Epitteto è stato uno dei quattro esponenti di spicco dello stoicismo romano, fiorito nella Roma imperiale dei primi due secoli d.C.: innanzitutto, in ordine cronologico, Seneca (4 a.C.-65 d.C.), esiliato dall’imperatore Claudio (divinizzato dopo la sua morte, il filosofo ne scrisse una memorabile satira menippea nell’Apokolokyntosis = glorificazione, divinizzazione di una zucca): condannato a morte da Nerone, di cui era stato precettore, morì suicida. Poi Gaio Musonio Rufo (circa 30-100 d.C.), fondatore e animatore di un influente circolo filosofico-letterario romano (frequentato anche da Seneca), due volte esiliato, da Nerone e da Domiziano.
Segue il greco Epitteto (circa 50-130 d.C.), che di Musonio Rufo fu allievo: divenuto presto un filosofo tanto influente da infastidire il potere, fu espulso da Roma con l’editto del 93 di Domiziano contro filosofi, matematici e astrologi; rifugiatosi a Nicopoli, in Asia minore, fondò e diresse fino alla morte una scuola che ebbe tale rinomanza che si racconta fosse stata visitata anche dall’imperatore Adriano per richiedere consigli: la leggenda ha dato vita, nella seconda metà del XIII secolo, a un testo anonimo, di natura teologica, dal titolo Il Dialogo tra Epitteto e l’imperatore Adriano. Infine l’«imperatore-filosofo» Marco Aurelio (121-180 d.C.), autore di un aureo libretto scritto in greco, Eis Heautón = A sé stesso (tradotto in italiano con Ricordi o Pensieri o Colloqui con se stesso), nel quale, al primo capitolo, dichiara che uno dei «beni» della sua vita, avuti in dono «dagli dèi e dalla fortuna», fu l’«essere venuto a conoscenza delle note di Epitteto»[1].
Ultima annotazione. Epitteto (dal greco Epiktetos = «acquistato», quindi «schiavo»), figlio di una schiava, che visse a Roma da schiavo di Epafrodito, un ricco e potente liberto romano, per metà della sua vita, e per l’altra metà in un angolo periferico dell’impero, lontano da fama, onori e ricchezze, in modo frugale e austero, interamente dedito alla sua scuola e ai suoi numerosi allievi. Marco Aurelio fu invece un ricco e nobile rampollo della famiglia imperiale degli Antonini, imperatore onorato e venerato in vita e divinizzato post mortem. Eppure i due personaggi, il primo e l’ultimo nella gerarchia socio-politica romana, l’onnipotente padrone dell’impero e il senza potere, il ricco e il povero, il signore e lo schiavo, sono accomunati dalla stessa professione filosofica: lo stoicismo. Quasi a riprova, si direbbe, del suo possibile universalismo.
Esposizione dell’opera
Epitteto, come Socrate, come Musonio Rufo, non scrisse nulla. Il Manuale è l’epìtome che un suo allievo, lo storico romano Arriano, ricavò da un’altra opera più ampia, le Diatribe (in otto libri, ce ne sono rimasti quattro), costituita dall’insieme degli appunti che l’allievo trascrisse dalle lezioni del maestro. Si tratta di un libretto di poche pagine, in apparenza di non difficile lettura, diviso in 53 brevi paragrafi, spesso di tenore aforistico, oggetto nei secoli di varie e opposte interpretazioni (tra cui quella pessimistica di Giacomo Leopardi, che nel 1828 ne fece una famosa traduzione). Al pari dei Pensieri di Marco Aurelio, il Manuale di Epitteto è stato, si può dire, un bestseller mondiale, almeno a cominciare dal Rinascimento, che lo ha riscoperto e diffuso in Occidente (nell’Oriente bizantino ortodosso ebbe una fortunata diffusione sin da subito). Quale il suo contenuto?
Il primo principio cardine, esposto sin dall’inizio dell’opera, è la prohàiresis (dal greco pro = pre, e hàiresis = scelta, quindi pre-scelta, pre-decisione), ossia la nostra facoltà razionale, che precede e presiede alla scelta tra ciò che è bene o male, utile o dannoso, e il cui criterio-guida è la distinzione tra ciò che è in nostro potere e ciò che non lo è. «Delle cose che esistono – dice Epitteto – alcune sono in nostro potere [cioè dipendono da noi], altre no [cioè non dipendono da noi]. In nostro potere sono l’opinione (doxa), il desiderio, l’avversione e, in una parola, tutte le nostre azioni. Non sono invece in nostro potere il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche pubbliche e, in una parola, tutte le azioni [erga] che non sono nostre» (§ 1.1-2)[2]. Dalla capacità razionale di operare questa distinzione ogni volta che agiamo, prima di agire, consegue la nostra «libertà e felicità» (§ 1.4), la nostra moralità e «dignità» (§ 34.1).
Prendiamo gli esempi dalla citazione virgolettata di Epitteto di cui sopra, cercando, se possibile, di attualizzarli. Il mio corpo, la sua nascita, crescita, invecchiamento, malattie e morte sono forse in mio potere? No di certo. Con le tecnologie chirurgiche e bio-mediche odierne posso sì modificarlo, migliorarlo, curarne le patologie, rallentarne l’invecchiamento, ma fino a un certo limite: il mio corpo è quello e basta, non posso cambiarlo con un altro, né impedirne in caso di incidente lo sfregio o mutilazione, né evitarne il disfacimento finale e la morte. Cosi è, stando all’oggi più immediato, per la pandemia: finché c’è, posso – da cittadino, operaio, operatore sanitario, governante, – combatterla, stando a casa, in isolamento, o impegnandomi nel lavoro che mi compete, ma finché c’è, finché non è sconfitta, non posso evitarne le conseguenze funeste. Vivrai bene, dice Epitteto, solo se non pretendi, col desiderio o l’avversione, che le cose non siano quelle che sono, o che siano quelle che non sono: «Non adoperarti perché gli avvenimenti vadano come vuoi, ma desidera piuttosto che essi si svolgano come viene, e vivrai sereno» (§ 8).
Analogo è il discorso sulla fama o reputazione, sul patrimonio o le ricchezze, sulle cariche pubbliche: non sono in tuo potere, sono cose a te «estranee», «non ti appartengono», non fanno la tua felicità interiore, sia perché, se le hai, le puoi perdere in ogni istante, per qualsiasi imprevedibile motivo; sia perché, quando le hai, desidererai averne sempre di più, più degli altri, e troverai sempre qualcuno che ne ha più di te, che è più famoso di te, più potente di te, più ricco di te, che ha qualcosa che tu non hai, che è quel che tu non sei: e perciò vivrai oppresso dalla paura di perdere quello che hai, e dalla brama di avere quello che non hai, di essere quel che non sei. Le odierne biografie talvolta drammatiche di uomini e donne di successo, politici, imprenditori e caimani vari e star dello spettacolo ne sono oggi un esempio da «manuale», per l’appunto.
Insomma, dipendendo da ciò che non è in tuo potere, non sarai né felice né uomo libero: «Esercitati dunque su ciò che puoi […] Chi vuole essere libero, non desideri o non fugga qualcosa che è in potere d’altri [o d’altro da sé]: altrimenti è inevitabile che sia schiavo» (§ 14). «Non vi è posto per l’invidia e per la gelosia. E del resto tu non vorrai essere stratego, o pritano, o console, ma libero, e l’unica strada verso la libertà è il dispr
ezzo di ciò che non dipende da noi» (§ 19). Dunque, desidera ciò che puoi, e non avversare ciò che non puoi. Se desideri ciò che non puoi, e avversi ciò che puoi, sarai schiavo e infelice. Il che, tradotto nell’oggi, significa: non assoggettarti al tam tam consumistico e pubblicitario, se non vuoi essere un eterno insoddisfatto, o trasformarti in un cane pavloniano. Accettare ciò che si ha e si è, nei limiti di una vita dignitosa, non è segno di debolezza o rassegnazione passiva, ma, al contrario, di grande vigore e forza d’animo.
Infine l’opinione (doxa). Secondo Epitteto, in nostro potere non sono né le cose a noi esterne, che esistono senza di noi, indipendentemente da noi, né le nostre «rappresentazioni» delle cose, che appartengono al nostro apparato corporeo, percettivo-conoscitivo, che funziona senza chiederci il permesso, bensì «l’uso delle rappresentazioni» delle cose, ossia l’opinione, il giudizio, la valutazione razionale e valoriale che ne formuliamo. Se dici inorgoglito: «Ho un bel cavallo [oggi, per esempio, che so, una bella Maserati], sappi che ti stai vantando di un pregio che appartiene al cavallo», non a te; a te appartiene solo «l’uso delle rappresentazioni» (§§ 6 e 44).
Un uso in questo caso errato, perché ti appropri di un pregio che non è tuo; e perciò, se per qualche imprevisto viene meno e ti angosci, sappi che sei tu stesso la causa della tua angoscia. Idem se pensiamo alla morte, che ci incute paura perché ci appare terribile: ma «la morte (dice Epitteto) non è affatto terribile, – altrimenti così sarebbe apparsa anche a Socrate, – ma il giudizio sulla morte, e cioè che la morte sia terribile, ecco quel che è terribile» (§ 5). La morte è inevitabile per noi che non siamo immortali: perciò accettala serenamente. E così sulla violenza, l’insulto, il torto che ti capita di subire: «se uno ti irrita, sappi che è la tua opinione che ti ha irritato», «quindi, cerca di non essere trascinato dalla rappresentazione», ma prenditi tempo e rifletti, così «più facilmente sarai in grado di dominare te stesso» (§ 20).
Ecco, il dominio di se stessi. Sta qui il secondo principio cardine della filosofia di Epitteto (§ 29): l’atarassìa (dal greco a = non, nel senso di privazione, assenza, mancanza, e taràssein = turbare, agitare, sconvolgere), e cioè l’assenza di turbamento, l’imperturbabilità o impassibilità quale norma di saggezza (in un contesto simile, con le dovute profonde differenze, il buddhismo zen parla di «illuminazione»). Seneca traduce il termine greco nel latino «tranquillitas» (uno dei suoi scritti è difatti il De tranquillitate animi). Atarassìa è in verità, seppure inteso con tante sfumature diverse, termine (il primo a usarlo fu Democrito) comune a stoici, epicurei e scettici. Ma non è da intendere in senso assoluto (la saggezza pensata come totale sradicamento delle passioni concerne tutt’al più soltanto lo stoicismo delle origini). Perciò va collegato, a mio parere, col termine metriopatìa (dal greco mètrios, mètron = misurato, misura, e pathos = passione), cioè ponderazione, «moderazione» delle passioni, le quali, essendo radicate nella nostra struttura corporea, psico-fisica, è in nostro potere soppesarle, controllarle, ma non estirparle, annientarle.
Sesto Empirico (II-III secolo d.C.) scrive: «Il fine dello Scetticismo è l’imperturbabilità (atarassìa) nelle cose opinabili, e la moderazione (metriopátheia) nelle affezioni che sono per necessità»[3], una formulazione che avrebbe potuta probabilmente esser condivisa anche dallo stoicismo romano dell’epoca, quello epitteteo compreso. Comunque, se intendiamo i due princìpi, che poi sono uno solo, non in senso eroico-aristocratico, ma tendenzialmente universalistico, allora possiamo dire che sono estensibili anche a noi tutti, comuni mortali: non essendo noi macchine robotiche, disincarnate, prive di sensibilità, emozioni, inclinazioni, istinti, pulsioni, passioni (come pure vorrebbe ridurci la psicologia del «comportamentismo o behaviorismo» americano), per noi atarassia e metriopatìa non sono imperativi morali astratti, assoluti e incondizionati (alla Kant, per dire), ma concetti-limite o ideali regolativi. Nella lotta quotidiana contro le tempeste della vita e le derive emozionali, è indubbia la loro straordinaria utilità allo scopo di preservare la nostra libertà interiore e la nostra serenità d’animo. Il che non è poco oggi per noi, ai tempi del Coronavirus.
Individuo, società, natura
L’etica di Epitteto (ma questo vale per tutti i filosofi stoici) non ha soltanto il pregio di essere una valida ars vivendi et moriendi, una guida etico-psicologica individuale e quotidiana alla buona vita e alla buona morte, ma è qualcosa di più: c’è al suo interno un risvolto, magari più implicito che esplicito, di tipo sociale, politico ed ecologico, da dipanare. Non è qui il caso. Basta farne qualche accenno. Innanzitutto, tu non vivi da solo, dice Epitteto, ma «nella comunità (polis)» (§ 25)[4], cioè nella rete di «relazioni sociali», inter-soggettive, dove le tue scelte hanno conseguenze su di te e sugli altri, e dove su quelle scelte si misurano i tuoi «doveri (kathékonta)» (§ 30): doveri solidaristici, civili, familiari e politici, di suddito o governante, di «cittadino, figlio, fratello»[5]. Sono doveri «secondo ragione», che riguardano chiunque, anche te, in ogni istante della tua vita: se puoi farlo, devi farlo, per il tuo «bene» e quello altrui. Marco Aurelio, che ha imparato da Epitteto, oltre che dalla propria esperienza, parla esplicitamente di «giustizia», «agire con giustizia», «agire per il bene comune»[6]. E Musonio Rufo, maestro di Epitteto, dice: «Il sovrano deve fare filosofia, perché altrimenti, se non filosofasse, non conoscerebbe evidentemente la giustizia e il giusto»[7]. Ecco la prefigurazione di Marco Aurelio «imperatore-filosofo» (figura che, nonostante tutto, non va idealizzata, dimenticando gli errori, le contraddizioni e le storture del suo governo: «non sperare nella Repubblica di Platone», cioè in uno Stato perfetto, utopico, diceva infatti a se stesso)[8].
In secondo luogo, per Epitteto e lo stoicismo tu non sei un ente immaginario, immateriale, non vivi al di fuori o al di sopra della «natura» (physis), ma sei immerso in essa, ne «sei una parte»[9], per giunta minuscola e transeunte. Ne segue che i tuoi «doveri» verso te e gli altri si estendono anche alla natura: agire «secondo ragione» o «secondo natura», «in modo conforme alla natura» (katà physin) (§ 13), è la stessa cosa. È secondaria, in questo contesto, l’idea che si ha della natura: teologica e religiosa, come quella dello stoicismo, per cui la natura è retta da un’inverificabile e indimostrabile Ragione divina immanente, che dal mondo esclude il mal
e; o atea, agnostica e laica, come quella del moderno razionalismo filosofico e scientifico, già presente in embrione nella filosofia democriteo-epicurea, per cui la natura, fatta di materia, energia, atomi e molecole, è governata dalla legge autarchica ed extramorale del caso e della necessità[10].
Ciò che importa (attualizzando ed estendendo la prohàiresis epittetea al nostro rapporto col mondo esterno) è capire che la natura (Ragione divina o caso-necessità) non è in nostro potere, non dipende da noi, tutt’altro: siamo noi a dipendere dalla natura, essendo fatti di essa, una sua piccola «parte» (un «quasi-niente», rispetto al cosmo infinito), in vitale interrelazione con tutte le altre. Dunque, ci è concesso, con la scienza e la tecnologia, sì di utilizzarne e rielaborarne operosamente le risorse a nostro vantaggio, ma con prudenza e lungimiranza, con misura e moderazione, conformando il nostro agire alla sua realtà e ai suoi processi, rispettandone l’integrità e l’autonomia (gli eco-sistemi, la biodiversità, la biosfera); altrimenti, come la pandemia in corso verosimilmente ci insegna, i danni che arrechiamo alla natura col nostro folle superomistico delirio di onnipotenza, si ritorceranno contro di noi, come singoli e come specie.
[2] Epitteto, Manuale, testo greco a fronte, a cura di M. Menghi, con la versione di Giacomo Leopardi, Bur, Milano, 2006. Chi non ha a casa nella propria biblioteca il Manuale, lo può consultare gratis online, all’indirizzo https://web.archive.org/web/20131219230207/http://www.swif.uniba.it/lei/pdf/biblioteca/readings/epitteto_SWIF.pdf.
[3] Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 12, a cura di A. Russo, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 9.
[4] Per Marco Aurelio la «società (koinonìa)», il «vivere in società» è un nostro «bene» irrinunciabile (Pensieri cit., V, 16, p. 101).
[5] Epitteto, Le diatribe e i frammenti , a cura di R. Laurenti, Bari, Laterza, 1960, II, 10, pp. 106-108; ma vedi anche Manuale, § 30.
[6] Marco Aurelio, Pensieri cit., IV, 37 e IX, 31, pp. 75, 209.
[7] Musonio Rufo, Diatribe, in https://www.romanoimpero.com/2016/08/gaio-musonio-rufo.html.
[8] Marco Aurelio, Pensieri cit., IX, 29, p. 209.
[9] Marco Aurelio, Pensieri cit., II,3 e 9, pp. 27, 29.
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