#IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Rivoluzione’ di Jack London presentato da Erri De Luca

Erri De Luca

Oggi che la parola rivoluzione è andata fuori corso come una moneta di scarso valore numismatico, ci appare utopico ciò che alle prime luci del Novecento sembrava urgente e praticabile e che Jack London ci racconta nel suo ‘Rivoluzione’. Ma cosa abbiamo contro l’utopia? Lasciamo la risposta a Oscar Wilde: “Una carta geografica in cui non esistesse il paese di Utopia, non meriterebbe di essere guardata”.

«La rivoluzione è un fatto, è ora e qui», scrive Jack London nel 1905 in California sulla sponda del Sacramento River.

Gli inizi di un secolo danno vita e vista a persone che annunciano gli avventi. Il secolo XX del calcolo cristiano si sarebbe ingolfato di avvenimenti, registrati da cronisti. Ma per gli avventi occorrono profeti.

Il secolo meno religioso della storia umana ha cercato i suoi in mezzo a operai, contadini, poeti, scienziati. Come nella scrittura sacra, molte di queste persone erano donne. Politici nessuno: ne sarebbero spuntati di catastrofici, febbrili, invasati, ma di profeti nessuno tra di loro. Al meglio delle loro capacità riuscivano a fare pareggio tra loro e le circostanze.

Jack London aderì al socialismo a diciotto anni. Prima era stato un ragazzaccio e aveva sperimentato centri di correzione. A diciannove anni va a cercare oro in Alaska. Ne racimola poco, ma assorbe le aspre storie che reinventerà scrivendole. Legge di vita: l’impara e la mette per iscritto in un gelido racconto intitolato a lei, La legge della vita.

Quando scrive la frase sulla rivoluzione, citata prima, ha già scritto e venduto milioni di copie in sola lingua inglese: Il richiamo della foresta. Ma in tasca gliene viene poco.

A ventotto anni butta giù il testo che qui raccomando: Rivoluzione (editore Dante&Descartes, 48 pp., euro 5). Non si è ancora prodotto nessuno dei grandi fenomeni che investiranno il secolo sotto questo titolo. London, che è stato marinaio, anticipa col fiuto di chi in mare sa avvertire per tempo la tempesta.

È una scrittura poco rispettosa del genere saggistico. All’inizio fa sapere di avere ricevuto una lettera che si apre con: «Caro compagno» e termina con: «Tuo per la rivoluzione». Scrive che negli Stati Uniti circa un milione di persone si scambiano lettere con queste formule di apertura e chiusura, molti di più in giro per il mondo. Nemmeno Napoleone, scrive, disponeva di un tale esercito. Novità è che questi nuovi milioni non sono al servizio di conquiste ma di liberazioni.

Ai nostri giorni le lettere scritte a mano scarseggiano e la parola rivoluzione è andata fuori corso come una moneta, con scarso valore numismatico. Non lo è lo spirito di fraternità che sta a fondamento di ogni lotta di popolo.

La rivoluzione del 1917 è diversa da quelle del passato perché muove masse umane su scala di pianeta. I popoli lanciati uno contro l’altro da governi a scopo di conquista, si scambiano lettere come questa tra giapponesi e russi: «Cari compagni, recentemente il vostro governo e il nostro sono entrati in guerra per assecondare le loro tendenze imperialistiche, ma per noi socialisti non esistono confini, razze, paesi, nazionalità. Siamo compagni, fratelli e sorelle e non abbiamo alcun motivo di combattere». È la più potente sovversione del sistema militare. Sotto la spinta di questo sentimento si disgregano eserciti.

La rivoluzione russa è possibile perché i bolscevichi costituiscono assemblee permanenti (detti soviet e da tradurre: consigli) nei corpi militari, tra marinai e soldati. L’attacco notturno al Palazzo d’Inverno dello zar sarà condotto da operai e da marinai della flotta militare.

Lo spirito di fraternità è un sentimento naturale della specie umana. Il mutuo soccorso è prova dell’intelligenza collettiva. Nel Novecento diventa sentimento politico, scavalca gli Stati, i loro confini posticci.

Oggi risentiamo parlare di difese delle frontiere da invasioni, riferite a singoli che arrivano inermi e alla spicciolata. Oggi si esalta l’idolatria della sovranità, dei dazi, residuati di epoche coloniali.

Ecco i sabotatori dei confini come li descrive London. «Sono più forti di ieri e meno forti di domani. Sono dei combattenti. Amano la pace. Non hanno timore della guerra. Altro non vogliono che annientare l’attuale società capitalista e prendere possesso del mondo intero. Se la legge del posto lo permette, lotteranno per questo fine pacificamente alle urne. Se non lo permette e se su di loro sarà esercitata la forza, allora ricorreranno alla forza».

London fa conti, non teorie. Per esempio scrive che negli Stati Uniti i socialisti in quindici anni sono passati da duemila a mezzo milione. Consensi dovuti a tempi duri? Al contrario, il socialismo è cresciuto in anni floridi. «In California un uomo su dodici è un rivoluzionario dichiarato e registrato».

Sono i reparti coscienti del popolo, non quelli allo sbando. «Il rivoluzionario non è uno schiavo affamato e malato al fondo della scala sociale, ma è per lo più un lavoratore cordiale e nutrito».

Per lui il processo rivoluzionario è una chiamata del capitalismo alla sbarra da imputato. Ha amministrato la società e la sua amministrazione è stata un fallimento. Aveva enormi mezzi, mai prima a disposizione, per fare avanzare l’umanità intera. Invece si è ingozzato di profitti sfruttando per dodici ore al giorno il lavoro dei bambini, delle donne, a salari di fame, privati di alloggi, acqua potabile, igiene, educazione. Con le sue enormi capacità produttive la borghesia ha prosperato sulla miseria disumana.

Non fa teoria, racconta, riportando episodi di cronaca, lettere, tabelle. Invece si potrebbero soddisfare bisogni e aspirazioni di tutti, lavorando anche molto meno. Invece esistono mezzi per distribuire la migliore giustizia sociale, quella che rende uguali le condizioni di partenza.

A inizio del Novecento queste frasi erano vere, urgenti, praticabili.

Oggi l’assuefazione al peggio toccato agli altri le fa percepire utopiche. Cos’abbiamo contro l’utopia? Lascio una risposta a Oscar Wilde: «Una carta geografica in cui non esistesse il paese di Utopia, non meriterebbe di essere guardata».

Era utopia la giornata lavorativa di otto ore. Era utopia rinunciare alla manodopera dei bambini. Il progresso che ha ottenuto la prima e proibito la seconda non è stato una gentile concessione spontanea, ma il risultato di scontri duri e prolungati tra forze antagoniste. Da una parte la classe lavoratrice, dall’altra la borghesia proprietaria non solo dei mezzi di produzione, ma anche dello Stato e dei mezzi d’informazione. In queste condizioni impari la classe lavoratrice ha prodotto con le sue lotte e i suoi martiri il progresso sociale.

Alle prime luci del Novecento Jack London scriveva il suo manifesto politico.

Per titolo usò un solo nome: Rivoluzione. Le ultime parole sono: «Provate a fermarla».

Chiudo questa nota con uno scambio di battute da un dialogo scritto da Giordano Bruno, De l’infinito, universo e mondi:

Burchio: Con questo vostro dire volete ponere sotto sopra il mondo.

Fracastorio: Ti pare che farebbe male un che volesse mettere sotto sopra il mondo riversato?

(11 aprile 2020)
#IORESTOACASA E LEGGO/GUARDO UN CLASSICO







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