#IoRestoaCasa e leggo un classico: ‘Saggi’ di Montaigne presentato da Boualem Sansal
Boualem Sansal
Il giudizio di Proust è accettabile e convincente, ma può essere generalizzato? Sappiamo che non è così, e che nel caso di alcune opere la sola lettura non è sufficiente; per coglierne la quintessenza c’è bisogno di conoscere l’autore e il contesto nel quale l’opera è stata prodotta. Talvolta si rende perfino necessario il parere di un esperto.
È il caso dei Saggi di Montaigne, la cui lettura non è affatto cosa agevole. L’opera è monumentale, abbraccia un’enorme quantità di argomenti, dai più prosaici ai più nobili, raccolti in tre densi libri comprendenti rispettivamente 57, 37 e 13 capitoli (ovvero 107 capitoli in totale), che si susseguono senza un ordine ben identificabile che sappia indicare l’intento dell’autore. Nell’edizione 2009 della collana «Folio classique» di Gallimard gli Essais contano 2.208 pagine.
Se fosse necessario suggerire al lettore una qualche guida che possa illuminarne la lettura, citerei per primo Pierre Charron, amico intimo di Montaigne, teologo e filosofo, che egli designò come suo esecutore testamentario. Charron ha consacrato buona parte della sua vita alla spiegazione e alla divulgazione dei Saggi. Ha scritto a questo scopo un volumetto essenziale: il Piccolo trattato della saggezza (a cura di G. Stabile, Bibliopolis, Napoli, 2007). Ecco una qualità che si addice al nostro filosofo. Possiamo affermarlo senza ombra di dubbio: Montaigne è il re della saggezza, e non se n’è mai discostato.
Penso anche a Blaise Pascal che, pur giudicando osceno l’atteggiamento di Montaigne, il suo mettersi in scena e il suo mettersi a nudo, nei Pensieri ha commentato copiosamente e brillantemente i Saggi, dai quali peraltro ha attinto non poco (trattasi di «plagio», per utilizzare un termine moderno). Il confronto di questi due immensi spiriti è un percorso estremamente fecondo.
Ai nostri giorni, a riprova della grande modernità di Montaigne, abbondano libri e commenti su di lui. Segnalo tre fonti proficue: le conferenze del filosofo Michel Onfray, accessibili sul sito dell’Université populaire di Caen di cui è fondatore e direttore; i libri e le relazioni del filosofo André Comte-Sponville (in particolare il volume Je ne suis pas philosophe: Montaigne et la philosophie) e le opere di Pierre Magnard, professore emerito dell’Università Paris-Sorbonne (Paris IV), che dimostra una vera passione per Montaigne («Traité de la sagesse», «Montaigne ou l’invention de l’homme», «Vocabulaire de Montaigne» e «Montaigne, notre contemporain»).
Perché una guida per addentrarsi nei Saggi?
In primo luogo perché l’opera è complessa, a volte esoterica, spesso scoraggiante, e molti passi hanno bisogno di spiegazioni e commenti, di una contestualizzazione dell’argomento. Ma anche perché in questa vicenda tutto è eccezionale: la persona di Montaigne, la sua famiglia (nella quale coabitavano garbatamente tre religioni rappresentate nelle persone del padre cattolico – come lui d’altronde – della madre ebrea e di una sorella convertita alla religione protestante), la sua educazione, il suo modo di vivere, la sua carriera professionale, le sue amicizie, la sua epoca segnata da otto guerre di religione consecutive e poi la forma radicalmente nuova che adottò per esprimere le sue idee: il saggio. In esso si percepisce, se vi si presta bene attenzione e se si è ben predisposti, l’eco dei dialoghi intimi dell’autore con se stesso – nello stile delle Confessioni di sant’Agostino o di Rousseau – e con le persone defunte che aveva amato profondamente, come suo padre e il suo più caro amico Étienne de La Boétie, geniale autore di un libro fondamentale, di grande erudizione e di immensa profondità, quale Il discorso sulla servitù volontaria. Di lui, in risposta alla domanda «Perché gli vuole così bene?», Montaigne ribatteva «Perché è lui e perché sono io».
Infine, eccezionale è il tempo che Montaigne ha consacrato alla scrittura di questo libro, ben vent’anni, fino alla sua morte, quasi a tempo pieno, dopo essersi liberato di tutte le incombenze lavorative. A forza di zappare, arare e concimare la sua opera, si è cristallizzato qualcosa in questo capolavoro, il «sostanzioso midollo» (secondo la bella espressione di Rabelais) di una vita piena, vissuta durante un secolo cruciale, particolarmente denso da tutti i punti di vista.
I Saggi sono l’opera di una vita intensa, avventurosa e studiosa, che sviluppa una riflessione a 360 gradi sull’esistenza, sull’uomo immerso nel suo mondo, circondato dai suoi simili; un’avventura intellettuale appassionante, al tempo stesso umile e dotta, che il lettore sa già da subito che finirà di certo per influenzare la propria visione delle cose e il proprio comportamento. Coloro che si sono avvicinati ai Saggi, di solito, ne sono diventati lettori assidui. Chi raggiunge la fonte non se ne allontana più e vi ritorna tutti i giorni con gioia.
Se occorresse designare un elemento in particolare capace di illuminare l’opera di Montaigne, direi l’epoca, senza dubbio. Viviamo anche noi in un’epoca simile, un’epoca martoriata dalle guerre e dalle crisi ripetute, con un fondo di pulsioni religiose e ideologiche, tumultuose e deleterie, che potrebbero in qualsiasi momento scatenare una fine dei tempi apocalittica, perciò sappiamo bene quanto un contesto del genere influisca sul nostro modo di vivere e di pensare. Non è possibile comprendere il procedimento di Montaigne né cogliere le sfumature che attraversano la sua opera senza conoscere la sua epoca, che ha visto succedersi tra il 1562 e il 1598 le vicende sanguinose di un’assurda guerra di religione tra cattolici e protestanti, con un picco d’orrore raggiunto in occasione dell’ottava guerra, detta la «guerra dei Tre Enrichi» (Enrico III di Francia, Enrico III di Navarra e Enrico di Guisa), durante la memorabile notte di San Bartolomeo, divampata a Parigi il 24 agosto 1572 tra massacri e devastazioni, e poi estesasi a una ventina di città di provincia.
In che avvenire è lecito sperare quando le divisioni tra gli uomini sono così profonde e la fine è alle porte? Tuttavia, è proprio nel momento in cui il Mondo Antico affoga nel sangue che avviene la scoperta dell’America e il Nuovo Mondo comincia a essere colonizzato. La globalizzazione che oggi trascina l’umanità, volente o nolente, in un’avventura di proporzioni vaste e indeterminabili, è stata sicuramente concepita in quel frangente, in quel brutale e incestuoso riversamento del Mondo Antico nel Nuovo Mondo, giovane e fragile.
L’idea che ha guidato Montaigne nel suo procedere è semplice e riposa sulla convinzione che la conoscenza del particolare fornisca la chiave della conoscenza del generale, il singolare quella del plurale, nella misura in cui esiste tra di essi una coerenza armonica intrinseca che i primi alchimisti hanno espresso con un potente aforisma: «e}n to; pa`n», che si traduce con «uno [è] il Tutto».
Osservarsi in tutte le situazioni che la vita ci porta ad affrontare, e provare [essayer] a comprendersi – da cui il sostantivo Essai [prova] – consente di capire l’essere umano e di mettere in evidenza, laddove è possibile,
i tratti suscettibili di essere universalizzati e quelli che restano contingenti, legati a un luogo, una razza, una storia, un’epoca.
Collocando l’uomo al centro del mondo, l’uomo libero con tutti i suoi dubbi, le sue esitazioni e le sue mancanze, ma ardentemente incline al progresso morale, alla comunione con l’altro e con la natura, Montaigne ha enunciato il grande principio fondatore dell’Umanesimo, la centralità dell’uomo nel suo mondo, spianando così la strada ai Lumi, al progressismo e alla democrazia. «Ogni uomo porta in sé la forma intera dell’umana condizione», scrive Montaigne, e conoscendo la sua persona, scopre l’umanità e ce la fa conoscere. Il «Conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dei» di Socrate trova in Montaigne la sua prima vera concretizzazione. Quel che gli dobbiamo è immenso: Montaigne in un certo senso ha inventato una nuova civiltà. E se qualsiasi viaggio comincia con un primo passo, spetta a ciascuno di fare quello successivo.
Nel corso della sua ricerca Montaigne ha mobilitato tutte le risorse di cui disponeva, che erano numerose. Prima di tutto quelle che gli derivavano da un’educazione eccezionale. Montaigne, per dirla in termini più attuali, era dotato di talenti fuori dal comune: a sei anni parlava correntemente il latino, a quattordici completava gli studi classici presso il collège de Guyenne a Bordeaux, un istituto rinomato per l’ottima preparazione dei suoi insegnanti e per l’eccellenza dei metodi pedagogici. A vent’anni cominciava una brillante carriera di giurista al parlamento di Bordeaux, per diventare poi sindaco della città per due volte di seguito, e beneficiare infine di un’esperienza rara in qualità di plenipotenziario nelle trattative segrete tra Enrico III di Francia e Enrico III di Navarra, tra cattolici e protestanti.
Quando fu ristabilita la pace, Montaigne fuggì i fasti e gli onori che le sue facoltà di diplomatico e di gentiluomo colto gli prospettavano a corte. Alla possibilità di occupare un posto d’onore nel cenacolo del re Enrico IV che lo voleva al suo fianco, Montaigne preferì la solitudine rustica del suo castello in Dordogna e gli agi della sua biblioteca, che contava circa un migliaio di libri (una cifra enorme per quell’epoca). Per vent’anni, fino alla sua morte, si dedicò alla meditazione, alla lettura, alla scrittura, all’edizione dei suoi scritti e alle fantasticherie. Si dedicò anche ai viaggi, come aveva fatto durante la sua carriera di diplomatico e di magistrato per motivi professionali (viaggi questi non di rado pericolosi), ma questa volta per puro diletto (in Italia, ad esempio, paese che amava molto), per curarsi (soffriva di litiasi urinaria), o per soddisfare la sua insaziabile curiosità e ampliare la sua già immensa erudizione.
Pur amando molto conoscere se stesso e il mondo, Montaigne si lasciava conoscere poco dagli altri. E nel momento in cui ci si presenta come un adepto dell’edonismo, dell’epicureismo, dello stoicismo, dello scetticismo o dell’indifferentismo, ci appare in realtà, allo stesso tempo, in quel modo e all’opposto. La sua filosofia, che lo predisponeva ad ascoltare tanto il suo corpo quanto il suo spirito, fece di lui un cantore di quell’arte del vivere che egli con una splendida formula designava come l’arte di «vivre à propos». «Non sono le mie azioni che descrivo, è me stesso, è la mia essenza». E con se stesso Montaigne sapeva essere severo, se necessario, e conciliante quando costatava che non poteva fare niente più di ciò che la sua condizione umana gli consentiva di fare.
«Ad impossibilia nemo tenetur», la virtù è nel giusto mezzo, Montaigne vi si atteneva quindi, ma a suo modo, in maniera mutevole e sorprendente. Ogni istante è diverso e la vita ama scorrere tra l’uno e l’altro assecondando la migliore inclinazione. «Filosofare è imparare a morire» e «È una perfezione assoluta e quasi divina saper godere lealmente del proprio essere» sono, tra mille, due aforismi che lo descrivono integralmente. Il primo ne ha fatto agli occhi di alcuni un macabro pessimista che guarda negativamente alla vita – cosa che in effetti Montaigne fu consapevolmente rispetto alla realtà e all’ineluttabilità della morte e dei suoi affanni (suo padre morì dopo aver a lungo sofferto di litiasi, il suo intimo amico La Boétie morì tra gli spasimi della tubercolosi e Montaigne stesso soffrì di numerosi malanni). Ma prima di tutto Montaigne fu fondamentalmente un ottimista – ed è ciò che esprime il suo secondo aforisma – il filosofo della gioia di vivere che esalta l’amore per la vita e il sano godimento.
Sul piano letterario inventò un genere nuovo, il saggio, di cui divenne subito maestro. I suoi Saggi, il risultato di una prova rivelatasi immediatamente una prova magistrale, sono un capolavoro d’intelligenza e di finezza, sono il romanzo della sua vita e dell’avventura umana. Montaigne non fu uno scrittore, bensì il primo saggista della storia. Utilizzò una lingua precisa, chiara, sintetica e così facendo coniò la lingua del saggio. Di lui si è potuto dire che fu un intellettuale organico, poiché fu per lungo tempo prossimo ai circoli del potere (per due volte sindaco di Bordeaux), intimo della Camera del re e frequentatore della grande nobiltà di Francia. Ma Montaigne si sbarazzò dell’insinuazione con una frase ben azzeccata che pronunciava sorridendo: «Le mie ginocchia si piegano, la mia ragione no».
Per molto tempo Montaigne fu un «maître à penser». L’Umanesimo, l’Illuminismo, la democrazia, la laicità, l’arte di vivere in accordo con se stesso, con l’altro, con la società e con la natura, gli devono molto. Non c’è filosofo né pensatore dei secoli successivi che non abbia attinto da lui la materia prima del proprio insegnamento. Poi fu la volta di una nuova epoca, la nostra epoca che chiamiamo «moderna», e l’astro di Montaigne smise di illuminare il mondo, se non in maniera obliqua e in luoghi poco frequentati dagli intellettuali mondani. L’intelligenza artificiale e superficiale è al timone ovunque, ha i suoi algoritmi che si dispiegano alla velocità della luce, di giorno come di notte. Non ha apportato all’uomo più libertà né maggiore serenità, piuttosto l’ha incatenato e ne ha fatto lo spettatore della propria decadenza. Forse è urgente tornare a riscoprire Montaigne. Leggerlo significa imparare a vivere.
(traduzione di Jamila Mascat)
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